Gli imprevisti

La faccenda delle partite di calcio fra nazioni si è evoluta a tal punto che le varie squadre di profughi sono pressoché indipendenti: l’unica cosa di cui hanno bisogno è un arbitro, per dirimere i bisticci, ma in generale si incontrano tutti i giorni e si sfidano fra di loro, con un buon livello d’organizzazione. La Siria, ad esempio, essendo la squadra più forte e più nutrita, si è divisa nella squadra dei giovani e quella degli anziani (che assomiglia molto a scapoli e ammogliati), e le due squadre si sfidano fra loro o ne sfidano altre.

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È stato allestito anche un altro campo, che ha il non indifferente vantaggio di essere in piano

Era inevitabile che a un certo punto lanciassero la sfida a noi volontarî, così dopo qualche giorno di tribolazioni per organizzare, sono riuscito a mettere assieme una nostra squadra di mille nazionalità diverse (oltre che fatta di maschi e femmine: la nostra è l’unica squadra mista) che avrebbe sfidato i siriani, consapevoli che ce le avremmo prese di brutto. Non mi aspettavo che sarebbe successo in senso così letterale.

Dopo 5 minuti di partita, quando già perdevamo 1-0, c’è stato uno scontro, ovviamente involontario, fra la mia testa e quella di un ragazzo siriano che stava provando ad anticiparmi. Io ho cominciato a grondare sangue, e mi hanno raccontato che lo spettacolo non era dei migliori, dato che avevo tutta la parte destra del viso tinta di rosso e uno squarcio sulla testa. È probabilmente una di quelle situazioni che sono peggio da vedere che da vivere.

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Mi hanno portato all’ospedale dove mi hanno messo sette punti di sutura accompagnati dalle classiche raccomandazioni. La partita è finita 10-0 per i siriani: ovviamente ci fossi stato io A proposito: da questa esperienza porterò via anche una cicatrice che potrò raccontare di essermi fatto in chissà quale eroica situazione.

Le storie

Molte delle persone che lavorano o hanno lavorato qui raccontano le storie delle persone che vivono nel campo: quello che gli è successo, i drammi e le aspettative. Io, per ora, non l’ho fatto. Ho spesso detto a varie persone: «poi mi racconterai la tua storia», ma non mi sono mai seduto ad ascoltarla. È stato un provvedimento inconsapevole, non ci ho ragionato, uno strano senso di pudore me lo ha interdetto, nonostante raccogliere storie sia una delle cose che più mi piace e nella quale penso di essere bravo.

In parte è stato certamente per ragioni contingenziali, come l’essere stato impegnato in attività che non ti permettono di fermarti e fare domande, ma c’è un’altra parte bella grossa di me che ancor prima di non raccontare le storie di queste persone, non si è messa d’impegno a raccoglierle. Nonostante questo, ovviamente, le ho sentite, dalle persone stesse o relate dagli altri, più di una volta in lacrime: «niente di nuovo, gli è morta tutta la famiglia e ora è qui, solo, senza un futuro».

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Spesso è sufficiente passare davanti a una tenda per essere invitati a prendere un tè, e la maggior parte delle persone è desiderosa di raccontarti di sé

Eppure ho preferito non raccontarle, senza rendermene conto. Ora mi sono fermato a ragionarci su, e ho pensato che il mio sia un pudore sciocco, che molte persone hanno voglia di raccontare la propria storia, e non c’è ragione per la quale non dovrei raccontarla anche io, a mia volta, dato che penso siano storie che interesserebbero a chi mi legge.

Ma visto che, comunque, ho questo tarlo che mi frulla in testa, ho pensato di domandare qui qualche parere. Credo che l’origine di questa mia refrattarietà sia stata una qualche forma di rispetto, ma facendo questo il racconto è finito per essere un’esperienza quasi vuota di persone, e non lo è. Quindi la mia idea, ora, sarebbe quella di cominciare, senza affanni, a raccontare alcune di queste storie. Voi cosa ne pensate?

p.s. Mi ero dimenticato di scriverlo, per chi leggesse solo il blog e non i social network: ho scritto un piccolo reportage per l’Unità su Katsika, chi vuole lo trova online qui.

Perdere l’umanità

Ieri è successa una cosa che mi ha intristito e fatto arrabbiare con me stesso. Mi sono domandato se avesse senso raccontarla qui, in fondo è un luogo pubblico. Ma è anche il mio diario, perciò – ho pensato – non mi devo fare troppi problemi a raccontare i miei stati d’animo. Mentre lo faccio, mi rendo conto che c’è un rischio di essere narcisista nello scrivere questo post, perché mi aspetto reazioni di sostegno, e invece penso di meritarne di diverse. Vabbè, non c’è modo di uscirne.

Ho deciso di lavorare al negozio perché penso sia una delle attività più importanti per il buon andamento del campo, e perché penso che il mio contributo lì sia importante: ho sviluppato il file excel con cui viene gestito, e sono il responsabile dell’amministrazione. Stando qui da un po’ di tempo, poi, è normale che i nuovi volontarî abbiano me, e gli altri più esperti, come punto di riferimento su cosa fare.

Non è però il lavoro più appagante – anche per questo mi ritaglio il tempo per giocare con i bambini – perché la maggior parte delle volte si tratta di dire dei “no”. Tutti sono estremamente insistenti, e l’operazione di “fare il cattivo” a fin di bene è spesso molto sfiancante. Bisogna dire tutti questi no perché chiunque salti la fila ritarda il momento in cui tutti gli altri, quelli che non provano a saltarla, avranno i vestiti. Allo stesso modo, una volta che qualcuno ha avuto i proprî vestiti deve aspettare che tutti gli altri abbiano avuto il proprio turno per averne degli altri o fare dei cambî.

Ma ogni giorno ci sono decine e decine di persone che vengono a domandare di saltare il proprio turno, alcune delle quali insistendo per moltissimo tempo: è una cosa triste ma in parte inevitabile, anche perché spesso chi fa lo stesso lavoro in maniera meno attenta ai più deboli – come, ad esempio, l’esercito turco con cui tutti hanno avuto a che fare – “premia” i cattivi comportamenti per non avere problemi: gli do quello che vuole, così non mi scoccia più. Così facendo tutti sono incentivati ad adottare questo comportamento, e i meno prepotenti finiscono sempre per avere la peggio.

Quello che è successo è che, quando il negozio era già chiuso, è venuto un ragazzo a chiedere di avere i proprî vestiti: io lo conoscevo, mi avevano detto che “bisognava trattarlo bene” perché era amico dei boss del campo (sì, c’è un gruppetto di profughi che viene chiamato scherzosamente “the mafia”). La cosa mi aveva già disposto male nei suoi confronti. Inoltre era venuto nell’orario di chiusura, istituzione che cerchiamo di rispettare, perché il luogo dove c’è il negozio è anche il luogo dove serviamo la cena e la sovrapposizione delle due cose crea significativi problemi logistici.

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La fila per la cena, l’entrata dell’hangar dove i volontarî stanno dando il cibo è anche l’entrata del negozio

Gli ho spiegato che era l’orario di chiusura, e che non diamo vestiti quando il negozio è chiuso. Tanto più che oggi non era neppure il suo turno. Lui ha detto che la volontaria che era stata lì la mattina gli aveva detto di tornare a quell’ora, cosa in effetti molto strana: ho controllato e non era vero. Una volta che ha visto che la bugia non aveva funzionato, e che non avrebbe avuto degli altri vestiti, mi ha detto che aveva bisogno di mutande perché gliele avevano rubate. Vista la precedente bugia non mi sono fidato, e gli ho detto di no, che sarebbe potuto tornare il giorno dopo.

Lui ha insistito, insistito, insistito e io ho continuato a dire di no fino a che i ragazzi che lavoravano con me mi hanno fatto ragionare sul fatto che, effettivamente, poteva essere vero che gli avevano rubato le mutande e che aveva senso fare un’eccezione per lui. Dopo una lunghissima discussione, appena gli abbiamo dato le mutande, è andato via.

A posteriori penso che, indipendentemente dalla prima bugia, stesse dicendo la verità, che le mutande gliele avessero davvero rubate, e che avesse approfittato della questione per chiedere altre cose, sperando che gli andasse bene. Io, lì per lì, non me ne sono reso conto e, probabilmente, se non fossero intervenuti gli altri volontarî non gliele avrei date.

È come se dentro di me fosse partito un software che mi faceva reagire a ogni stimolo senza riconsiderare, ogni volta, le circostanze. In altre parole, è come se avessi perso l’umanità. È il contrario della banale, e sbagliata, dicotomia fra emotività e razionalità: qui era l’emotività a farmi dire «no» e sarebbe dovuta essere la razionalità a farmi analizzare le cose serenamente, cosa che – evidentemente – non sono riuscito a fare. In fondo era solo un ragazzo che aveva bisogno di mutande.

Ci sono due cose che mi preoccupano del mio comportamento: la prima è che una persona più disponibile e meno insistente sarebbe tornata alla propria tenda senza mutande; la seconda che mi sembra di non avere gli strumenti per capire l’istante esatto in cui dal dover dire no a tutti si può far un’eccezione. Ora erano le mutande. E i calzini? E una maglietta? E se facciamo eccezioni per tutti cosa succede a chi rispetta la fila?

Non so dare risposte a queste domande e mi rendo conto che è un problema banale, che si verifica in tanti altri contesti. So solo che ieri sono andato via dal campo con una sensazione di disagio addosso.

Lavagne, cartelloni, bacheche

Parlando con un po’ di amici che leggono il blog mi sono reso conto che non ho spiegato molto bene come funziona il campo: ci sono alcune cose che, dal di dentro, si tende a dare per scontate, e invece magari non lo sono. Quindi ho pensato di fare qualche post in cui racconto il funzionamento, a livello pratico, del quotidiano. Oggi ho pensato alle comunicazioni.

Non è facile comunicare con tutto il campo: sia per questioni di lingue, ce ne sono tante diverse; sia perché raggiungere tutti non è sempre facile. L’ideale sarebbe, per ogni comunicazione, andare in ciascuna tenda con un interprete, e quando qualcuno manca ritornare, e poi ritornare di nuovo. Nei fatti è impossibile. Tra l’altro le persone cambiano spesso tenda, e i nuclei familiari non sono sempre rispettati.

In molti casi la soluzione è scrivere. Non è una soluzione perfetta per ogni occasione: c’è sempre qualche lingua minoritaria che rimane fuori, e c’è sempre qualcuno che non sa leggere, ma in molte occasioni è, se non altro, la meno peggio. Tre esempî:

La lavagna sul piazzale del campo con le comunicazioni che riguardano le questioni amministrative:

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I pannelli con i nomi delle persone che hanno il turno quel giorno per visitare il negozio e prendere i proprî vestiti. Questo sistema non ha funzionato bene, quindi abbiamo deciso di andare a chiamare le persone tenda per tenda:

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Il cartellone con le regole del negozio stesso:

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Rivincite, aggiornamenti

Il pomeriggio stesso alla pubblicazione dell’ultimo post volevo aggiornarlo solo per raccontare che c’era stata un’evoluzione: quello che è successo è che, saputa della sconfitta del giorno prima, causata in buona parte dall’arrivo dei ragazzi più grandi della Siria, si erano presentati al campo un sacco di ragazzi grandi dell’Iraq, praticamente tutti quelli presenti nel campo. La partita era stata molto più equilibrata, io avevo giocato nuovamente con gli iracheni – oramai mi volevano in squadra – ed era terminata 5-4, questa volta per l’Iraq. Volevo scrivere della rivincita e della possibile bella del giorno dopo, quando mi hanno avvicinato dei ragazzi per dirmi «domani vuole giocare anche l’Afghanistan!».

Quindi la novità era diventata l’eventualità di un triangolare: mia sorella studia il farsi, e mi ero anche fatto tradurre (gli afgani qui parlano il persiano) il messaggio nel quale annunciavo l’appuntamento. Poi erano arrivati i palestinesi, e tutto si stava trasformando in una Coppa del Mondo, se non almeno in una Coppa d’Asia in suolo ellenico. Ho anche il progetto di comprare delle magliette personalizzate per tutte le squadre.

Solo che il giorno dopo ha piovuto, il giorno dopo ancora avevo troppo lavoro al negozio, e il giorno dopo ancora sono via. Sì, perché torno in Italia per tre giorni per una conferenza alla quale sono stato invitato. Prendo un volo (a loro spese) domani sera e torno a Katsika mercoledì sera. Per chi fosse interessato la conferenza è intitolata “Il dialogo oltre il terrore, da Charlie Hebdo a Bruxelles: la sfida della convivenza”. (qui la locandina), ed è a Roma, il 3 Maggio, alle ore 16,30 nella Sala cinema Istituto “Silvestri”, Via Nomentana 56, Roma. Io parlerò del questionabile concetto di “islamofobia”.

Foto bonus, la pasqua ortodossa nella chiesa centrale del paesino di Katsikas:

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Siria-Iraq 5-4

All’interno del campo c’è un disprezzo e un razzismo che è difficile immaginare dal di fuori, ma che chiunque abbia lavorato nella cooperazione, in quasi ogni parte del mondo, conosce bene. Non se ne parla, perché non fa fare bella figura alle persone che si cerca di aiutare. Ovviamente mi sono posto spesso la stessa questione, e ho sempre pensato che fosse meglio raccontare la verità.

Qui, con le ovvie lodevoli eccezioni, ogni comunità disprezza e cerca di tenersi alla larga dall’altra: i siriani ce l’hanno con i palestinesi siriani che ricambiano, gli iracheni ce l’hanno con gli yazidi e viceversa, i curdi parlano male di tutti gli altri che parlano male di loro, eccetera. Ma il più significativo sezionamento è quello più grande, fra Siria e Iraq. A chiunque sia nel campo per 24 ore capita di sentire un commento di siriani che incolpano gli iracheni della guerra o viceversa, e questo tipo di segregazione arriva anche ai bambini, istruiti così dai genitori.

Insomma, tutte le volte che un bambino siriano si presenta al campo di calcio (che, come avevo scritto, è l’unica struttura più vicina agli iracheni) viene immediatamente respinto dagli iracheni. Quando ci sono io o altri volontarî, ovviamente, interveniamo. Gli iracheni, che in qualche modo mi sentono come “loro” (fondamentalmente perché vado lì a giocare), si sentono addirittura traditi dal fatto che io acconsenta a far giocare i loro “nemici”. Quando i bimbi iracheni si arrendono all’idea di condividere lo stesso campo con un siriano allora vogliono averlo nella squadra avversaria, quindi si verifica questa brutta scena nella quale gli iracheni mostrano tutto il loro disprezzo cercando di evitare di finire assieme al siriano di turno. Non è un caso, quindi, che di siriani che giocano al campo non ce ne siano molti.

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Gli “schemi” su calcio d’angolo

Negli ultimi tempi, però, eravamo riusciti a integrare qualche bambino siriano senza generare troppe polemiche, e questo aveva portato altri bambini siriani ad avventurarsi in territorio nemico. Solo che è sorto un nuovo problema: da quando i siriani sono diventati una quantità significativa la richiesta è diventata «facciamo Iraq contro Siria!». Per qualche giorno siamo riusciti a tenere a bada questo nuovo livello di competitività. Ci sono stati un paio di giorni nei quali io non sono potuto andare al campo perché avevo troppo lavoro al negozio, quindi non so bene come siano andate le cose, ma più o meno la gestione sarà stata la stessa.

Fatto sta che ieri sia i siriani che gli iracheni erano talmente fermi nel voler fare Siria-Iraq che si sono rifiutati di giocare diversamente. Uno di loro, maestro nell’arte del contrattare, mi ha garantito che sarebbe stata una partita di calcio “e non una guerra”.  Io, che non avevo pensato a quella prospettiva, ho pensato: «beh, dài, è già un progresso», e dopo un quarto d’ora di tira e molla ho acconsentito.

Sono finito a giocare con l’Iraq perché avevano giocatori in meno, e c’era un “grande” nella Siria. Qui non hanno ancora capito quanto sono scarso a giocare a pallone, quindi finisco spesso per sembrare più bravo di quel che sono. Così, da imparziale che dovevo essere, sono finito per essere il capitano dell’Iraq e, dopo qualche minuto di gioco, uno sfegatato sostenitore. I siriani sembravano nettamente più forti, se non altro per questioni di età. Invece ho aperto le marcature, poi siamo andati sul 3-0. L’accordo era di arrivare a 5.

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Qui un mio tentativo di dribbling, credo riuscito, su uno degli “intrusi”

Beh, ora mi tocca raccontare di una disfatta. Avevamo messo la regola che fossero accettati i cambi, perché appena dopo l’inizio della partita è cominciato ad arrivare gioventù da tutto il campo profughi a sostenere l’una o l’altra parte e a chiedere di giocare. Mentre nel “mio” Iraq i cambi erano alla pari, i ragazzi siriani che arrivavano avevano tutti intorno ai vent’anni. Via via, ogni tredicenne veniva sostituito da un ventenne. Abbiamo cercato di resistere stoicamente, facendo un catenaccio degno di Trapattoni e buttandola in avanti a ogni pallone recuperato. Ma non è bastato. Ci hanno raggiunto sul 3-3, poi su un lancione siamo tornati in vantaggio, ma la Siria è riuscita a ribaltare e vincere 5 a 4. Che umiliazione!

Dopo la partita sono tornato quel volontario imparziale che ero, e sono andato a stringere la mano a tutti gli avversarî, congratulandomi per la loro vittoria, ma dentro di me sto ancora rodendomi per la sconfitta

I disegni dei bambini

Ero lì che lavoravo al negozio, cercando di non far entrare i bambini in un’area a loro interdetta perché ci sono degli strumenti scolastici che, più volte, sono spariti. In queste situazioni il tuo pensiero è molto concreto: “etla” (esci), “barra” (fuori), cerchi di ricordarti il nome di quelli che conosci, anche con un certo grado di severità. Alla fine è un gioco quotidiano: Martyna, una delle mie bambine preferite – ma lei non sa di esserlo – prova a entrare nel magazzino tutte le volte che la porta viene aperta, talvolta nascondendosi dietro a ciò che viene portato dentro, talvolta “corrompendo” qualche volontario con il suo sorriso, talvolta prendendo la rincorsa e o-la-va-o-la-spacca. Alla fine sono bambini, bambini come tutti gli altri.

Beh, dicevo, ero riuscito nel mio improbo compito di allontanare i bimbi dall’area scolastica, e l’occhio mi è capitato sui disegni che alcuni bambini avevano fatto a scuola. Ho cominciato, ingenuamente, a guardarli senza neanche ragionare su ciò che avrei potuto trovare, e mentre li scorrevo ho trovato immagini come queste (scusate la qualità delle foto, ma ho visto questi disegni e li ho fotografati):

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La propria casa bombardata non so se dall’esercito siriano o dall’Isis
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Il barcone con il quale, presumibilmente, sono arrivati in Grecia
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L’elicottero che li ha salvati dal naufragio, dopo chissà quanto tempo, in chissà quali condizioni

È difficile immaginare cosa hanno in testa queste creature, prima di vederlo su un foglio di carta. Alla fine sono bambini, purtroppo non come tutti gli altri.

Il negozio

In questi giorni abbiamo finalmente completato il magazzino e appena cominciato a distribuire vestiti nel “negozio”: il sistema sembra funzionare, e ogni giorno arrivano persone a prendere l’abbigliamento di cui hanno bisogno. Fra queste ci sono anche le cose che ho portato in macchina, e ogni volta che vedo un capo che viene dall’Italia sono un po’ stupidamente orgoglioso.

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Il “negozio”

Ho una strana sensazione mentre faccio questo lavoro: mi sento più a mio agio con le persone che mi trattano male. Naturalmente non è una sensazione che faccio trasparire, e che non orienta – per quanto ne sia consapevole – i miei comportamenti: anzi, cerco sempre di fare sì che chi è più gentile e meno arrabbiato riesca a ottenere le stesse cose di chi, inevitabilmente, riesce a ottenere quel che vuole prepotentemente.

Però non riesco a togliermi di dosso questa percezione, quella di un certo disagio nell’avere a che fare con le persone più gentili e più grate per il lavoro che facciamo: a sentire le loro storie – me ne hanno raccontate tante e tante ne racconterò – si ha una tale sensazione di inadeguatezza e impotenza che viene da sentirsi responsabili. Non come occidentali o come europei, ma come esseri umani. E a pensare: «ma come fai a essere così cortese?»

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Questa è la squadra di volontarî che lavora nel negozio: i volontarî sono la cosa che mi ha più stupito qui. Non soltanto, per il poco che le ho conosciute, sono tutte persone di qualità (e io sono uno severo), ma per il livello di impegno e coinvolgimento nelle sorti del campo: qui le giornate (tutte: dal lunedì alla domenica) cominciano alle nove e mezza e finiscono alle nove e mezza, i primi giorni non si faceva neppure una pausa fra la mattina e la sera, e tutti – me compreso – sono contenti di farlo. Si arriva alla sera e si ricomincia.

E stiamo parlando di volontari che non hanno un ritorno economico da tutto questo lavoro, anzi, ciascuno è qui a proprie spese, consumando i proprî giorni di vacanza, e pagando per il proprio alloggio e per la propria cena. A questo proposito: visto che, come avevo raccontato, i soldi delle offerte hanno ecceduto ogni aspettativa e le mie necessità di sussistenza qui, ho cominciato a usarli per le necessità del campo. In questi giorni è stato per l’acquisto di tubi e arnesi per riparare i bagni.

 

Gli yazidi

Nel campo ci sono persone che vengono dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan. Le etnie nelle quali si identificano sono però le più disparate: arabi, palestinesi (che sarebbero arabi, ma qui sono un gruppo distinto), curdi, yazidi.

Gli arabi siriani sono i più influenti qui: un po’ perché parlano l’arabo, che è l’inglese del Medio Oriente, un po’ perché sono di più. Principalmente perché sono più ricchi. Così hanno le tende migliori, quelle più vicine ai punti di distribuzione di ogni cosa, e sono riusciti a costruirsi un ambiente relativamente abitabile.

All’altro capo dello spettro – e del campo – ci sono gli yazidi, lontani da tutto, sprovvisti di ogni comodità, molti dei quali parlano soltanto un dialetto curdo. C’è solo una cosa che è più vicina alle tende in fondo, e cioè agli yazidi, rispetto a quelle davanti: il campo dove organizzo i giochi tutti i pomeriggi.

È un fatto al quale tengo molto, proprio per questa forma di isolamento interno che vivono le comunità più povere. Così, io che pensavo di rafforzare il mio carentissimo arabo mi sto ritrovando a imparare qualche parola di curdo: per ora so contare fino a dieci, dire quando è fallo, “fuori”, “basta”, “piano”, “ai più piccoli” (si vede qual è la mia fonte di nozioni, eh?).

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Lui è Mahir, è uno yazidi iracheno ed è una delle persone con le quali ho più legato qui. Il primo paio di giorni era un ragazzo come gli altri che vuole stare con i grandi e farsi i fatti proprî, poi ha capito che può darmi una mano con i bambini e si è trasformato in una risorsa, umana – è il caso di dirlo – molto preziosa. Certo, senza parlare una lingua in comune è dura: ma è riuscito comunque a raccontarmi un po’ della sua comunità. Mi ha detto che nel campo di Katsika ci sono 249 yazidi che vengono da Sinjar, o Shingal come la chiamano loro.

Sono tutte persone che sono scappate sulle montagne all’arrivo dell’Isis e, più fortunate di altre, sono riuscite a scampare al massacro. Quando parlavo con lui di questo è arrivato anche un signore più anziano che, sempre a poco più che gesti e con le pochissime parole in arabo che condividiamo, mi ha raccontato di come l’intervento sia stato tardivo, di quanti bambini siano semplicemente morti di sete, di come gli elicotteri che lanciavano viveri siano stati pochi e in ritardo.

Ripensavo a quando l’estate scorsa sentivo le notizie dell’assedio di Sinjar, degli yazidi fuggiti nelle montagne, e di come mai mi sarei aspettato di incontrarne uno di persona, tanto meno di giocare tutti i giorni assieme a quei bambini. È una banalità, ma è vero, le notizie che si leggono superano quell’endemico velo di distacco psicologico e assumono un altro potere evocativo se, in qualche modo, incrociano la tua storia vissuta.

Pochissimo a tanti o poco a pochi?

Mi sono trovato a dare dei materassi per bambini. Oddio, materassi è un concetto molto pretenzioso per dei pezzi di gommapiuma tagliati alla bell’è meglio. È, comunque, il meglio che possono avere ora, e in molti, specie nella parte povera del campo – sì, c’è una parte povera e meno “influente”, lo racconterò presto – non hanno neanche questo.

C’è una fotografa del campo che segue le attività. In generale non pensavo di pubblicare troppe foto mie, ma visto che oggi la fotografa mi ha seguito quando andavo a consegnare una tornata di queste barre di gommapiuma, le metto qui. Prometto che nei prossimi giorni saranno di meno:

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Lena, questa bimba, ha insistito per portare uno dei materassi piccoli. Le ho consigliato di metterlo in spalla perché il sole era ben peggio del peso da portare
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Le persone acculturate riconosceranno i segni di erba e terra sui pantaloni tipici delle partite di pallone coi bambini

 

La cosa incredibile è che finora molte persone hanno dormito su delle pietre con delle lenzuola sopra, al massimo con qualche asse di legno a fare da rete. UNCHR ha promesso di rifare tutte le tende del campo, e noi speriamo che lo facciano presto. Nel frattempo si dà quel che si ha, e altri materassi arriveranno presto.

Non dovevo soltanto consegnare i materassi per bambini, ma anche assegnarli. E così mi sono trovato, dopo anni, nuovamente nel dilemma più difficile: dare poco, non abbastanza (ci sono famiglie che hanno sei o sette bambini piccoli), a più persone o dare il sufficiente a pochi, lasciando gli altri senza niente. Per la cronaca, ho deciso per la prima soluzione, di cui mi sono probabilmente già pentito.