Otto cose su questa tragedia

Sono rimasto molto colpito da quello che sta succedendo in Afghanistan, probabilmente anche perché – per quello che faccio – parlo tutti i giorni con persone che dai talebani sono fuggite, e che hanno persone a cui vogliono bene che sono scappate o si stanno preparando a scappare in queste ore.

Sono anche rimasto colpito dalla grettezza di tanti commenti che hanno visto nell’immensa tragedia umana di quello che sta succedendo, soltanto la sconfitta di un nemico politico (o la vittoria del proprio ego). Questi commenti sono stati non soltanto cinici, ma anche perlopiù sciocchi, confusi o smemorati. Per questo ho messo assieme un piccolo compendio di cose che penso sia importante ricordare (o conoscere), soprattutto scritte senza domandarmi “a chi convengono”. Ciascuno di questi punti, scritti oggi velocemente, meriterebbe un saggio di per sé, perdonate quindi le semplificazioni.

Asilo
Il Paese dal quale arrivano più richiedenti asilo in Europa attraverso la Grecia è l’Afghanistan già dal 2018, anno in cui ha superato la Siria (che continua a essere seconda). Non c’è dubbio che ciò che sta succedendo creerà un esodo di persone in fuga, come si è già visto dai video e dalle foto della gente all’aeroporto o agli uffici consolari. Vivere sotto ai talebani è un inferno, per tutti, e per alcuni ancora di più. Non facciamoci illusioni, non siamo i buoni: nonostante le dichiarazioni, e a parte qualche ristrettissimo ponte umanitario, è estremamente improbabile che qualunque Stato europeo (o gli Stati Uniti, o qualunque Paese al mondo in realtà) apra le porte alla gente che scappa dall’Afghanistan.

Consenso
L’Afghanistan è un Paese diviso etnicamente e religiosamente. Ci sono alcune aree del nord in cui i talebani non hanno mai avuto il potere. In questo scenario, domandarsi quanto consenso abbiano i talebani manca il punto. Immaginare che un hazara (l’etnia sciita più numerosa) possa essere a favore dell’avvento dei talebani è assurdo. Quella persona è non soltanto in pericolo, ma chiaramente riconoscibile: ha gli occhi a mandorla, porta il chador sciita anziché l’hijab (o il burqa), ciò è sufficiente per fargli meritare – agli occhi dei talebani – la morte.

Esportare
“Non si può esportare la democrazia” è una frase che va lasciata ai sovranisti. È una frase razzista, perché suggerisce ci siano popoli che non-sono-pronti-per-la-democrazia. È una frase ignorante perché la democrazia è stata sempre esportata, talvolta anche in maniera estremamente violenta, come in Giappone. È una frase sovranista, perché suggerisce che le idee migliori non possano venire da fuori dei proprî confini. È una frase contraddittoria perché confonde permettere di scegliere e imporre cosa scegliere. Certo, perché si instauri una democrazia c’è bisogno del verificarsi di molte condizioni: si può esprimere questa idea senza sostenerla attraverso concetti razzisti, ignoranti, sovranisti e contraddittorî.

Militare
Immaginare la conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani come un’elezione in cui il Paese ha scelto da chi essere governato è una fantasia orientalista. I talebani non sono un partito, sono un movimento politico, religioso e militare che non ha alcuna intenzione di ricercare consenso democraticamente. Sono la milizia più ricca e armata rimasta, che ha conquistato il Paese dopo che l’esercito più ricco e armato se ne è andato (e dopo che tutti gli altri, incluso quello italiano, avevano fatto lo stesso).

Profughi
Come detto, le persone che oggi provano a scappare dall’Afghanistan – tranne poche e fortunatissime eccezioni – non hanno alcuna via legale per arrivare nel nostro continente. L’unico modo è imbarcarsi in un lungo e pericoloso viaggio affidandosi ai trafficanti, arricchendoli, dato che le frontiere rimarranno chiuse. Quello che sta succedendo avrà però probabilmente un impatto: sarà più difficile espellere gli afgani che già sono in Europa. Questo perché, con i talebani al potere (che, ricordiamolo, da tempo controllano già pezzi di Paese), sarà tristemente più facile dimostrare che nel caso queste persone tornassero a casa, la loro vita sarebbe a rischio. Il paradosso è quindi che questa nuova tragedia non aiuterà a scappare le persone che sono in pericolo oggi, ma permetterà a quelle che già avevano una ragione per scappare di restare dove sono arrivati.

Ritiro
Il controverso accordo che ha portato al ritiro delle ultime truppe rimaste in Afghanistan è stato firmato da Donald Trump, non da Joe Biden. È stato un accordo che ha escluso il governo afgano, quello che avrebbe dovuto reggere all’avanzata dei talebani senza gli americani. È un accordo criticato fin da subito perché lascia il Paese ai talebani. Nessuno sapeva che la disfatta sarebbe stata così veloce, ma tutti sapevano che ci sarebbe stata. Certo, Biden avrebbe potuto rinviare l’accordo o addirittura rinegoziarlo, ma è importante chiarirne l’impronta ideologica: il ritiro delle truppe americane dal Medio Oriente è da sempre uno dei cavalli di battaglia della destra americana trumpista e pretrumpista, ed è dal 2004 che Trump e i suoi rivendicano (come al solito, mentendo se utile) di essere sempre stati contro interventi umanitari e di essere stati messi a tacere dall’establishment .

Stabilità
Dire che l’intervento in Afghanistan del 2001 ha minato la stabilità del Paese, come se l’Afghanistan dei talebani fosse uno Stato unito con un decennale controllo sul territorio, mostra ignoranza storica. I talebani hanno vinto una sanguinosa guerra civile, e hanno controllato gran parte del Paese (neanche tutto) fra il 1994/96 e il 2001, senza alcun riconoscimento internazionale (solo 3 Paesi lo consideravano uno Stato: Arabia Saudita, Emirati Arabi e Pakistan). L’occupazione militare è durata tre volte tanto. A volere usare questo criterio, è il ritiro delle truppe americane ad aver minato la stabilità del Paese. Ovviamente il fatto che vent’anni di addestramento dell’esercito afghano abbiano prodotto questo risultato dimostra ancora di più il fallimento delle modalità di quell’intervento.

Terrore
Nella lista delle ragioni che motivarono l’intervento in Afghanistan del 2001, la difesa dei diritti delle donne, delle minoranze, degli omosessuali, dai talebani è sempre venuta dopo “La Guerra al Terrorismo”. Non a caso, espressione coniata da Bush una settimana dopo l’11 settembre. Tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Turchia all’Italia, dall’India alla Mongolia, è intervenuto per sgominare Al Qaida dopo quegli attentati. Senza di essi, delle donne afgane avrebbero continuato a parlare una manciata di idealisti. Visto che la guerra al terrorismo ha dato risultati così così, oggi chi era a favore parla molto più di donne e diritti (o al massimo di democrazia). Ma è importante ricordare che quello non era né il primo né il principale obiettivo: lo fosse stato, forse le cose sarebbero andate diversamente.

È la religione, non la politica

4 su 5

Tutti quelli che, in queste ore, stanno dicendo la sciocchezza che ciò che motiva gli attentati di Parigi è la politica e non la religione provino a rispondere a una semplice domanda: perché, in questa fase d’incertezza, siamo certi che tutti gli attentatori siano mussulmani? Attenzione: non sto dicendo che non esiste un terrorismo non mussulmano, non sono scemo, la storia ne è piena. Sto domandando: se la causa di questi attentati è politica e non religiosa perché sappiamo che tutti gli attentatori di questi attentati sono mussulmani? Saranno francesi, siriani, potrebbero essere marocchini, sauditi, belgi, tunisini, britannici, iracheni, italiani, giordani, kuwaitiani, spagnoli, libici, turchi (queste sono alcune delle nazionalità che hanno commesso attentati suicidi in Iraq e Siria) eppure siamo certi che siano tutti mussulmani.

CartoonistE, all’inverso, quante persone conosciamo che sono contrarie – anche molto contrarie – alla politica estera dei governi americani o a quelle dei governi europei eppure siamo certi che non siano parte degli attentatori? Perché, nonostante sappiate la mia contrarietà all’occupazione israeliana in Palestina, sareste sconvolti a sapere che io sia andato in Francia a farmi esplodere al Bataclan? Eppure se il problema fosse “la politica”, dovremmo vedere migliaia e migliaia di nostri conoscenti – atei, cattocomunisti, testimoni di Geova, interisti – che anziché scrivere status contro i bombardamenti in Siria prendono una cintura esplosiva e vanno a farsi esplodere in un teatro parigino. La risposta è molto semplice: l’unico tratto comune che hanno tutti gli attentatori, che vengono da parti lontanissime e diversissime del mondo, da posti distantissimi dagli attuali teatri di guerra, da condizioni economiche e di istruzione di tutti i tipi, è l’essere mussulmani.

E domandatevi un’altra cosa: perché in qualunque altro crimine nessuno fa quest’odiosa e arrogante operazione di doppiaggio del pensiero che avviene in questi giorni? Ci sono migliaia e migliaia di persone che commettono queste atrocità e spiegano che è la religione a muoverli, fanno rivendicazioni che citano sure del Corano (questa volta erano 59:2 e 63:8, altre volte sono state molte altre), che tirano in ballo gli infedeli, la guerra a difesa dell’Islam, la blasfemia e l’apostasia; eppure alcuni di noi pensano di essere dei veggenti e di conoscere le reali intenzioni delle persone che organizzano e commettono queste violenze meglio delle persone stesse che le commettono. Loro dicono che a spingerli sia la loro fede, lo dicono in ogni occasione ed elaborano articolate – per quanto aberranti – spiegazioni teologiche, ma IO so certamente meglio di loro perché lo fanno.

Questa è un’operazione che non facciano mai, per altri crimini violenti: un gruppo di fascisti che prende a bastonate un immigrato e dice di farlo perché “i negri fanno schifo”, che ammazza un ebreo e dice di farlo perché è “uno sporco giudeo”, che picchia una coppia omosessuale e dice di farlo perché “è un frocio di merda”. Non esiste che qualcuno si metta a dire: in realtà dice di farlo per il Duce, ma io so meglio di lui che la ragione è la cattiva amministrazione locale o com’è finita la gara di appalti. E questo non vale solo per il fascismo, vale per qualunque ideologia: l’unico caso nel quale pensiamo di conoscere le motivazioni di determinate azioni meglio di chi le compie è quando è coinvolta la religione, in questi ultimi anni l’Islam.

È sempre utile rileggere quello che scriveva, ormai quasi dieci anni fa, Hassan Butt:

Quando ero ancora un membro della Rete Jihadista Britannica, una serie di gruppi terroristici semi-autonomi collegati da una sola ideologia, mi ricordo come celebravamo con delle grasse risate tutte le volte che in televisione le persone proclamavano che la sola causa degli atti di terrorismo islamici come l’Undici Settembre o le bombe a Madrid e Londra fosse la politica estera dell’Occidente. Biasimando il governo per le nostre azioni, coloro che parlavano delle “bombe di Blair” facevano propaganda per noi. E, ancora più importante, ci aiutavano a portare via l’attenzione da un esame critico di quello che era il vero motore della nostra violenza: la teologia islamica.

Questo non vuol dire, ovviamente, che è sufficiente essere mussulmani per commettere questi attentati – l’umanità, e così i mussulmani, è spesso meglio di quello che crediamo – ma che è necessario esserlo. Vuol dire che c’è qualcosa, nelle scritture o nella tradizione, nella sua rivelazione o nelle sue correnti interpretazioni, che causa (o che è parte necessaria in causa di) questi attentati. Quale sia questa parte, e quale sia il modo per fare sì che non ci sia più, è oggetto di un altro post, ben più lungo, e che per gran parte non sarei in grado di fare: ma il primo passo nel risolvere un problema è sempre riconoscere quel problema, mettere sul tavolo i dati e i fattori che lo compongono, chiamare le cose col proprio nome. Scrivere, in queste ore, “la religione non c’entra nulla” non è aiutare a risolvere il problema, è esserne parte.

La guida su Israele e Palestina, completa

4 su 5

Ho scritto una guida a quello che è successo in Israele e Palestina sul Post, la ricopio qui in tutte le sue puntate. Su Limes del prossimo mese ci sarà un mio lungo articolo che racchiude tutto quello che penso su come fare la pace.

Nel dibattito su Israele e Palestina, i contributi si articolano fra grandi ricostruzioni storiche e immediata cronaca quotidiana. Questo compendio vuole essere una via di mezzo, cioè un tentativo di inquadrare quello che sta succedendo in questi giorni per chi non ha familiarità col tema. Data la vastità dell’argomento, lo dividerò in capitoli per concentrarmi su un argomento alla volta, in modo da poter raccogliere materiale, analizzare fatti e considerare l’attualità meglio che in un unico scritto-fiume.

Capitolo 1 – La strategia di Israele
Capitolo 2 – Israele e i civili
Capitolo 3 – Cosa succede ora a Gaza?
Capitolo 4 – Perché Hamas si comporta così? (e Fatah?)
Capitolo 5 – Israele e Palestina, e ora che succederà?

Capitolo 1 – La strategia di Israele
La strategia non c’è. Questa operazione militare non ha una strategia di medio o lungo periodo. È un’operazione tattica con la quale Israele vuole ridurre l’arsenale e la potenza di fuoco di Hamas a Gaza. Israele è preparata a una prosecuzione indefinita dello status quo. Questo comporta un ciclico disarmo di Hamas con mezzi militari: nei periodi di tregua, Hamas produce e acquista armi (principalmente diversi tipi di razzi) che possono mettere in pericolo Israele; con cadenza variabile, fra il biennale e il triennale, Israele interviene per riaffermare e garantire la propria superiorità militare.

Dal ritiro unilaterale da Gaza (2005), e soprattutto dalla vittoria di Hamas su Fatah nella Striscia (2007), Israele si è rassegnata a questa ciclicità. Tuttavia, le operazioni militari (“Piombo Fuso”, 2009; “Pilastro di difesa”, 2012; “Margine di protezione”, 2014 – sì, i nomi italiani non sono il massimo) non avvengono in periodi casuali. Israele fa coincidere l’inizio con un casus belli istigato dall’altro fronte – uno che possa definire l’intervento militare come operazione difensiva – consapevole che la scelleratezza di Hamas non mancherà di offrirne. Naturalmente non si tratta di eventi che portano automaticamente a una guerra (di lanci di missili ce ne sono su base quotidiana), ma di piccoli passi che innescano l’escalation di azione-ritorsione-superritorsione che porta velocemente alla guerra.

Israele adotta questa tempistica per due ragioni: primo, perché un’azione militare è molto meno digeribile per la comunità internazionale rispetto a un’azione difensiva in risposta a un attacco verso civili. È per questo che, per quanto sia sempre presente sottotraccia, Netanyahu ha evitato di collegare il rapimento dei 3 ragazzi israeliani – non rivendicato da Hamas, fra l’altro – alle operazioni militari a Gaza: rispondere a dei lanci di razzi bombardando le postazioni di lancio di quei razzi può essere considerata un’azione difensiva; rispondere a un rapimento con dei bombardamenti è a tutti gli effetti una rappresaglia.

Secondo, perché il principio sul quale è fondata la strategia difensiva israeliana è la deterrenza. È importante che i palestinesi abbiano paura delle reazioni d’Israele (e della sua forza militare), così da essere disincentivati a percorrere o sostenere la lotta armata. Il proposito di questo articolo non è la valutazione etica di questa strategia, che è stata tristemente efficace per entrambe le parti nella storia di questo conflitto. Tuttavia, è rilevante notare la vicinanza fra questo criterio e quello della “punizione collettiva” (principio che viola la Convenzione di Ginevra).

Ovviamente non c’è alcun dubbio che Israele abbia la potenza militare per spazzare via tutto l’arsenale di Hamas, ma a un costo in termini di distruzione e di vite delle persone. È perciò questo costo – più precisamente quanto Israele sia disposto a (o in condizioni di) pagarlo – che determina l’intensità dell’azione israeliana. Essendo una guerra asimmetrica, da un punto di vista militare l’unica considerazione è quella sugli effetti collaterali. Formulata in maniera brutale ma veritiera: quanti civili palestinesi è disposta a uccidere Israele per raggiungere il proprio obiettivo?

Capitolo 2 – Israele e i civili
In mancanza di un accordo di disarmo, l’unica possibilità che Israele ha per distruggere l’arsenale di Hamas è attraverso azioni militari. Queste azioni comportano, inevitabilmente, il rischio di causare morti anche fra i civili. Nella Striscia di Gaza questo rischio è una certezza, come si è visto in questi giorni. Per questo diventa fondamentale domandarsi quanti sforzi faccia Israele per prevenire l’uccisione di civili: più precisamente, quanto è disposta a pregiudicare l’efficacia delle proprie azioni. Rispondere a questa domanda, diversamente da quello che sembra nella baraonda delle reazioni partigiane, non è facile.

Una necessaria distinzione preliminare è quella fra l’atteggiamento israeliano e quello di Hamas, cherivendica il fine di uccidere ogni civile che può. Quando ero in Palestina, ai tempi della prima guerra a Gaza, formulai così il concetto:

Ci sono tre comportamenti, nei riguardi dei civili, in guerra: il primo è quello di cercare di ridurre al minimo le vittime civili, anche a costo di fare operazioni militari meno efficaci; il secondo è quello di ignorare la quantità di vittime civili che un’operazione militare possa comportare; il terzo è quello di cercare di fare più morti civili possibile.

Israele si comporta in un modo che rientra nello spettro fra il primo e il secondo, a seconda dell’opinione che se ne ha. Hamas si comporta inequivocabilmente nel terzo modo. Israele vuole uccidere il meno possibile o se ne frega. Hamas vuole uccidere il più possibile.

Continue reading “La guida su Israele e Palestina, completa”

Gli ubriachi filopalestinesi che fanno male alla Palestina, un esempio

2 su 5

Nell’intervista di qualche giorno fa su Israele e Palestina scrivevo che “delle volte il furore di filtrare tutto attraverso l’ideologia e domandarsi «a chi conviene?» anziché «è vero?» finisce per far dire delle cose che vanno a completo detrimento delle più elementari rivendicazioni della propria parte”. Mi è subito capitato sottomano un esempio di come un argomento che potrebbe essere utile alla causa palestinese venga completamente distrutto e reso apparentemente facente gioco a Israele dalla follia ottusa dei più sguaiati fra quelli che i palestinesi, in teoria, vorrebbero difenderli.

Qualche giorno fa Davide De Luca ha scritto un pezzo strettamente fattuale in cui si faceva una domanda semplice: Israele si sta adoperando in qualche modo per tutelare i civili palestinesi? Badate bene, non “si sta adoperando abbastanza” (questa è una considerazione politica, alla quale De Luca ha spesso detto di rispondere «no»). Voleva semplicemente verificare se gli unici numeri che abbiamo in possesso, quelli delle persone uccise dai bombardamenti, indicano una risposta a questa domanda. I dati che ha analizzato De Luca – e altri siti assieme a lui – suggeriscono che i bombardamenti di Israele non siano completamente indiscriminati, ma non che Israele abbia molta cura dei civili (un po’ quello che scrivevo qui).

Se volessimo prendere per definitivi e precisi quei dati (cosa che De Luca sottolinea fortemente, e in più occasioni, non essere) si arriverebbe a un’approssimazione (ripeto, è un’approssimazione abborracciata partendo da quei numeri) che Israele uccide 2 presunti civili ogni 3 presunti militanti. Questo senza contare le varie considerazioni sociali che tenderebbero a suggerire un aumento del numero di civili rispetto ai militanti (i giovani e/o maschi sono più in giro, prendono più rischi, sono investiti di più responsabilità di bambini/anziani/femmine). Naturalmente sono tutte considerazioni numeriche enormemente soggette a una quantità di variabili notevole, quindi possono indicare una tendenza, non certo una stima definitiva. Ma ammettiamo di prendere per buona questa tendenza, quale sarebbe il risultato?

Se non fossimo abituati al dibattito ubriaco che c’è intorno al tema, penseremmo «cavolo, abbiamo una conferma che quasi la metà dei morti siano civili». Certo, gli israeliani dicono che i numeri dell’ONU (almeno il 67%) sono presi da Hamas, ma qui abbiamo degli altri dati – squisitamente fattuali – a confermare che tantissimi di quelli che Israele uccide sono tutt’altro che terroristi. Se ne concluderebbe che il pezzo di De Luca, che ovviamente non si è domandato «a chi porto acqua se scrivo questa cosa?» (questo lo fanno solo gli ubriachi) è un ottimo strumento per le rivendicazioni palestinesi. Almeno per me lo è: tecnologie o meno, che ci siano centinaia di morti civili rispetto al pericolo (relativamente e per fortuna) contenuto dei razzi è sbagliato, inaccettabile.

Invece quello che succede è precisamente l’opposto: che alcuni rintronati contestano a De Luca la sola idea che uno si possa domandare quanto Israele stia cercando di tutelare i civili palestinesi per lesa maestà. Il punto è completamente ridicolo, perché basta un singolo esempio di attenzione ai civili (siano le telefonate, i volantini o il roofknocking) per inficiare la ridicola posizione assolutista che Israele li ignori completamente o addirittura cerchi di colpirli, ed è per questo che l’IDF ne diffonde su base quotidiana. Così, anziché usare uno strumento utilissimo – quello della realtà numerica – per dire che Israele non fa abbastanza, sostengono che l’analisi squisitamente fattuale vada a beneficio della strategia israeliana. Non c’è bisogno di aggiungere quale risultato questo abbia su qualunque persona sobria.

Perché parlare di Israele e Palestina è così difficile?

3 su 5

per iMille

 

Qualche giorno fa, Lorenzo Gasparrini mi ha fatto una piccola intervista per iMille magazine. Sul Post sto scrivendo una serie di articoli in cui spiego quello che sta succedendo a Gaza e in Israele. Lorenzo mi ha voluto chiedere perché proprio questo argomento crei delle gigantesche polemiche fra i due fronti contrapposti che rendono il dibattito impossibile. Riporto qui le mie risposte.

Domanda: riguardo le vicende tra Israele e Palestina la tua comunicazione, attraverso il tuo spazio su il Post, è sempre stata improntata a una disamina dei fatti supportata dalla tua esperienza in loco e da una scelta precisa delle fonti più attendibili. Eppure raccogli molte critiche riguardo la tua faziosità, che paradossalmente sembra spostarsi di segno: una volta sei troppo filoisraeliano, una volta troppo filopalestinese. Come mai?

Risposta: credo che oramai ci siamo abituati tutti: ogni volta che la cronaca riporta in primo piano quello che succede in Medio Oriente, facciamo un grande sospiro per quello che sta succedendo, e poi ne facciamo un secondo perché sappiamo di doverci preparare a giorni di urlacci contrapposti delle due tifoserie.

Raccontando di questa frustrazione ho scritto che “provare a contribuire in qualunque modo sensato alla discussione su Israele e Palestina è come aprire la porta di una stanza piena di gente che si urla contro, urlare «la penso così», e richiudere la porta”. Ho visto di recente uno sketch del Daily Show in cui Jon Stewart comincia a parlare di Israele e Palestina e viene assalito da diverse voci urlanti che lo sommergono. È proprio così.

D.: il risultato di questo atteggiamento qual è?

R.: il paradosso è che queste persone, quelle che animano uno scontro di odio anziché di argomenti, non si rendono conto di danneggiare la causa che, nella teoria, vorrebbero sostenere. Non soltanto perche il rigore e l’onestà con la quale si combattono le battaglie finiscono per qualificare quelle battaglie; ma anche perché delle volte il furore di filtrare tutto attraverso l’ideologia e domandarsi «a chi conviene?» anziché «è vero?» finisce per far dire delle cose che vanno a completo detrimento delle più elementari rivendicazioni della propria parte, come mi è capitato di leggere in un post nel quale facevo considerazioni fattuali piuttosto elementari sull’inesattezza di alcune mappe di Israele e Palestina che girano sui social network.

C’è una citazione di Sir Ronald Storrs, il primo governatore mandatario britannico dell’area fra il 1917 e il 1920, che descrive bene l’insofferenza delle persone di buon senso a questo atteggiamento isterico: “Being neither Jew nor Arab, but English, I am not wholly for either, but for both. Two hours of Arab grievances drive me into the Synagogue, while after an intensive course of Zionist propaganda I am prepared to embrace Islam”. Ho l’impressione che questo tipo di integralismo, che era già presente cent’anni fa, si sia oggi trasferito anche ai sostenitori dei due fronti.

D.: da cosa pensi possa dipendere?

R.: perché questo succeda proprio con Israele e Palestina non è facile da dire. Un fattore a cui ho sempre pensato è che il conflitto arabo-israeliano è l’unico fronte rimasto della Guerra Fredda, quello in cui non c’è ancora stato un vincitore, e la partita è ancora aperta. Dove non si è ancora arrivati alla “fine della storia” in senso hegeliano. Certo, in questi ultimi due decenni – dopo il crollo dell’URSS – sono venuti fuori nuovi contrasti, nuovi grandi dibattiti, questioni irrisolte e interessanti: ma quello fra Israele e Palestina è l’unico che ci portiamo dietro dal secolo scorso. È forse anche per questo che rabbie e rivendicazioni, passati da onorare e schieramenti prefissati, vengono fuori più prepotentemente che altrove.

C’è poi un altro aspetto, credo, che mi è capitato di notare nelle lunghissime discussioni sul Medio Oriente: in filologia c’è una regola secondo la quale è meglio trovarsi ad avere a che fare con un manoscritto opera di un copista completamente ignorante che di uno più colto ma che pensa di sapere tutto. Mentre il copista ignorante ricopia ogni parola, perché non sa di cosa sta trattando, il copista che pensa di saperne molto di più tenta di correggere il manoscritto quando trova qualcosa che non gli torna. Con le discussioni su Israele e Palestina è così, specie – ma non esclusivamente – nel fronte palestinese: ci sono un sacco di persone che pensano di essere informatissime sulla questione israelopalestinese perché sanno cos’è la dichiarazione di Balfour o conoscono la parola hasbara (un equivalente filoisraeliano è “il Gran Mufti di Gerusalemme era nazista!”) e tirano fuori queste singole nozioni, largamente a sproposito, come se queste orientassero in qualche modo il dibattito preciso e puntuale che si sta facendo. Questo set di nozioni elementari, che viene usato in chiave benaltristica per ignorare informazioni contrarie alla propria ideologia («Hamas fa questo» «eh, ma la Banda Stern»), è molto peggio dell’ignoranza completa. Perché, come nel caso del copista, una persona che non sa, tende a non interpolare ciò che legge con le proprie opinioni. Chi ha imparato alcune cose senza troppo senso critico, specie se provenienti dall’indottrinamento di una parte sola, tende a sopravvalutare le proprie conoscenze e pensare che chi non le menziona ha qualcosa da nascondere.

Naturalmente non c’è dubbio che una parte delle critiche che Israele riceve, rispetto alle nulle critiche ricevute da altri Stati che fanno cose molto peggiori, trovino fondamento nell’antisemitismo. L’arsenale dell’antisemita latente è abbastanza identificabile, e bastano un paio di scambi per far venire fuori quest’anima nella maniera più sguaiata. Il problema è che, dall’altra parte, l’imputazione di antisemitismo viene usata in maniera talmente sciocca e retorica in risposta a qualunque critica alla politica israeliana (ovviamente è capitato anche a me di beccarmi dell’antisemita) che è diventata un’accusa quasi del tutto depotenziata, come se anche la lotta all’antisemitismo fosse stata fatta prigioniera dallo scontro fra i due fronti.

D.: la polarizzazione degli scontri politici, e delle opinioni politiche, intorno sempre e solo a due poli opposti e avversari, sembra ormai inevitabile, malgrado i danni che provoca alla correttezza dell’informazione e della critica. Credi che sia una situazione ormai inevitabile? Pensi che qualcosa potrebbe cambiare questo dato di fatto?

R.: la risposta onesta è “non lo so”. Sicuramente toglierei gli “ormai”, perché non mi sembra un meccanismo per niente nuovo. Anzi, più che si va avanti più che ci sono informazioni e possibilità di fruire di analisi critiche. Naturalmente aumenta anche l’informazione sulle parti più rintronate della società, come quelle che credono ai complotti più assurdi: ma non è che prima non esistessero, era Facebook che non esisteva, e noi non avevamo modo di incontrarli.

Credo, comunque, che il meccanismo più polarizzante sia proprio quello dietrologico. Hannah Arendt diceva che il più grande successo dello stalinismo con il ceto intellettuale era quello di essere riuscito a sostituire ogni discussione sull’oggetto delle critiche in una discussione sul movente delle critiche: perché sta dicendo questo? C’è sicuramente qualcosa sotto! È chiaro che questa delegittimazione del pensiero opposto è il più forte catalizzatore di uno stile di pensiero polarizzato, perché costituisce un guscio inespugnabile alle critiche: se è d’accordo con me ha ragione, se non è d’accordo è pagato da qualcuno.

Un problema di questo meccanismo è che tende a coinvolgere anche chi lo rifiuta, schiacciandolo su di un fronte o sull’altro. Mi ricordo che un tempo mi preoccupavo di questa cosa, e cercavo di mettere in ogni post che scrivevo la completezza del mio argomento, cercando di infilare una premessa sulla criticità del fronte palestinese a una critica israeliana o viceversa. Ma il problema è che le questioni sono tantissime, e costringersi sempre a schiarirsi la gola inserendo un contraltare è un meccanismo sciocco, che ti rende prigioniero delle aspettative dei più stupidi. Per questo ora scrivo ignorando deliberatamente l’orientamento della cosa che scrivo: se scrivo che non mi piace il meccanismo delle cittadinanze in Israele, lo scrivo perché è vero, e non mi importa a chi fa gioco. Se scrivo che c’è un problema con i diritti delle donne e degli omosessuali in Palestina lo scrivo perché penso sia un problema grave, e non mi importa se chi concepisce un mondo binario lo percepisce come una difesa dell’occupazione israeliana. Se uno ha il riflesso condizionato di leggere ogni cosa pensando «ora scopro per chi fa il tifo questo!» c’è davvero poco che uno possa fare per salvarlo dalla sua idiozia.

Comunque, devo dire, c’è anche un sacco di gente sana, stufa del fronte delle due tifoserie, che manifesta apprezzamento per le analisi basate sui fatti e che cercano di spiegare, o anche interpretare, ma senza porsi il fine di tirare acqua al proprio mulino. È solo che, spesso, quelli più rumorosi sono anche i più rintronati.

D.: informarsi in rete è qualcosa che può essere insegnato, ma imparare a usare gli strumenti necessari a informarsi correttamente è considerata un’attività da specialisti e non da semplici cittadini. Sei d’accordo? E perché si è arrivati, a tuo giudizio, a considerare l’informazione politica roba da specialisti?

R.: io penso che sia tutto il contrario, le informazioni sono moltissime e a disposizione di tutti, ben più che in passato. È chiaro che il problema diventa quello della selezione: qual è un’informazione veritiera? Bisogna essere specialisti per capire qual è informazione veritiera? Io credo di no. Con una battuta potrei dire che è quella che si guarda bene dal definirsi “controinformazione”. Qualche tempo fa avevo scritto un post, che poi non ho mai pubblicato, chiamato “Il pallottoliere delle scemenze” in cui raccoglievo tutte le locuzioni che dovevano rendere scettici sulla veridicità del contenuto di uno scritto online: “bavaglio”, “ci propinano”, “politicanti”, “verità ufficiale”, “quello che non ti dicono”. Era naturalmente uno scherzo, ma è un problema che c’è.

In questo senso mi fa spesso ridere quando, in una discussione online, arriva il classico commentatore che la sa lunga e dice «ma tu ti vai a fidare di Wikipedia?» – cioè un sito che (almeno nella versione inglese) è continuamente controllato da persone competenti – e invece contribuisce con il link a un blogghettino sconosciuto che propone teoremi privi di ogni nesso logico. Wikipedia (inglese), in genere, è un buon punto di partenza, anche se ha ovviamente dei problemi, almeno nella mia esperienza. Il più grande è strutturale: cioè il fatto che ciò che orienta le decisioni sia il consenso, che come tutti sanno non è garanzia di verità. Ma, in assenza di autorità onniscienti, non c’è alternativa a che sia questo meccanismo di continua revisione a fornire una sorta di assicurazione.

La cosa di Wikipedia che mi fa arrabbiare più di tutte è che le note non sono mai fatte bene: sono sempre scadute o confusionarie, e questo la rende meno utile. Poi, certo, bisogna conoscere Wikipedia ed è chiaro che ci sono alcuni argomenti sui quali ciascuno di noi sa di doverla prendere con le molle, in cui sembra formularsi un’idea preconcetta, ma è comunque un punto di partenza migliore della larghissima parte delle fonti che vengono spacciate come informazione alternativa.

D.: Per quella che è la tua esperienza di utente del web anche in paesi diversi dall’Italia, ti sembra che questa sia la situazione anche altrove o possiamo considerarla peculiarmente italiana?

R.: non credo che questa sia una situazione peculiarmente italiana, anche se devo dire che ci sono un paio di cose che in Italia ho notato di più: la prima è che tutti i giornali sono inaffidabili. E bada bene: anche all’estero la larghissima parte dei giornali è inaffidabile, ma ci sono alcune eccezioni che con la loro autorevolezza garantiscono il proprio contenuto (e non sono disposti a sprecare il valore che quel tasso di autorevolezza dà per un piccolo ritorno immediato). Nella mia esperienza, in Italia questa cosa – semplicemente – non c’è. È davvero molto, molto, raro che io abbia letto un articolo di giornale, abbia cercato di verificare la credibilità della storia per riportarla da qualche parte, e che questa non fosse distorta, fatta sembrare più scandalistica, piena di omissioni, mal attribuita, contenente speculazioni senza basi, etc. Questo meccanismo rende la fruizione delle notizie molto faticosa, perché ciascuno deve maturare una sorta di sesto senso che permetta di capire quando c’è bisogno di fare una ricerca più approfondita (la risposta è “quasi sempre”).

L’altro fattore di diversità che ho avuto modo di osservare rispetto al mondo anglosassone (l’unico che ho frequentato con una certa assiduità), è la completa ignoranza – e in qualche caso il rifiuto – dei meccanismi base della logica più elementare. Naturalmente è una generalizzazione, ed è un atteggiamento che si può trovare ovunque. Ma, per quel che mi è capitato di vedere, le discussioni italiane presentano un disprezzo o un’indifferenza verso cose ovvie, come il principio di non contraddizione, sulle quali – ho l’impressione – in Inghilterra o negli Stati Uniti si è semplicemente più scolarizzati. È chiaro che questo tipo di lacuna condiziona profondamente un dibattito sano che cerchi di astrarsi dalle considerazioni di bandiera.

Le 5 fasi di un fruitore di notizie da Israele e Palestina

2 su 5

Ogni volta che succede qualcosa in Medio Oriente, qualunque persona di buon senso – che conosce un po’ l’area – attraversa invariabilmente diverse fasi:

Fase 1 – Arrivano le, solite, notizie da Israele e Palestina. Indipendentemente da chi ha cominciato (e “chi ha cominciato” dipende sempre da dove cominci la storia), il comportamento israeliano dimostra – una volta ancora – che Israele non vuole la pace. Viene da scrivere o commentare qualcosa, ma ti annoi da solo e rinunci: hai scritto le stesse cose mille altre volte.

Fase 2 – Tu non hai scritto nulla, ma cominci a leggere cose scritte da altri: sono persone che criticano Israele come te, però usano parole roboanti. Più che vai avanti a leggere e più sei assalito da un ambiguo malessere: ti rendi conto che non hai mai letto nessuna di quelle persone criticare una sola delle violazioni equivalenti, o ben più grandi, che tantissimi Stati nel mondo compiono. Solo Israele. E tu, che sei sempre infastidito dall’accusa di antisemitismo come risposta a qualunque critica a Israele, ti continui a domandare: perché solo Israele?

Fase 3 – La seconda ondata di critiche è peggiore della prima, le parole roboanti cominciano a diventare assurdità insensate: apartheid, neocolonialismo, genocidio, nazismo. E non è più soltanto una questione lessicale: la retorica viene sostituita dalla menzogna; viene adoperato ogni strumento disonesto purché sia utile alla causa: foto finte o truccate, mappe bugiarde, ricostruzioni storiche fasulle. Ogni coraggioso che vorrebbe fare un servizio alle persone e alla verità nel correggere quegli strafalcioni viene insultato come al soldo d’Israele. A questo punto la nausea nel leggere queste reazioni quasi supera quella nella lettura delle notizie: tu che eri partito con l’idea di criticare Israele ti trovi più spesso a vergognarti della compagnia di quelli che, in teoria, dovrebbero essere d’accordo con te.

Fase 4 – Finalmente arriva qualcuno che scrive un pezzo più equilibrato e analitico. Arriva dopo perché non ha risposto al riflesso condizionato partigiano, ma si è preso il tempo necessario a un ragionamento. Scrive con disincanto del perché Israele, comportandosi così, va nella direzione opposta alla pace. Pensi: menomale, era quello che avrei voluto scrivere io, forse a partire da questo si può riassestare una discussione su binarî più sensati. Succede tutto il contrario: non c’è una sola persona che contesti l’argomento del post, tutti coloro che difendono le scelte di Israele usano l’argomento «e allora i palestinesi? Hanno fatto x e y». Nessuno si domanda «è vero ciò che dice?», ma solo «a chi fa gioco, alla mia parte o all’altra?»: così chiunque esprima una posizione esclusivamente logica o di riaffermazione dei fatti, viene schiacciato su uno dei due fronti. Hai l’impressione che provare a contribuire in qualunque modo sensato alla discussione su Israele e Palestina sia come aprire la porta di una stanza piena di gente che si urla contro, urlare «la penso così», e richiudere la porta.

Fase 5 – Depressione.

Cosa pensare delle proteste in Turchia

per Il Post

Questo post dà per scontante diverse cose che avevo spiegato in questo post–bignami, se non l’avete letto è meglio leggerlo per primo.

3 su 5

È molto difficile analizzare e interpretare il corso e il significato di queste proteste in Turchia. Ed è soprattutto difficile decidere da che parte stare. In realtà è molto facile capire da che parte non stare, quella di Erdogan, per motivi fin troppo ovvî: l’autoritarismo, la rivendicazione del ruolo della religione in politica, la soppressione del dissenso. Ma la grande incognita è: la parte degli altri che parte è?

Questo non l’ha capito nessuno. È una protesta libera e confusa, caotica e disorganizzata, questa è la sua forza, ma anche la sua debolezza. Le stesse fazioni protagoniste delle manifestazioni sono combattute fra il cercare di mostrare un’immagine – più efficace – di una protesta coesa e unitaria, e il tentativo di orientare la protesta a beneficio della propria fazione.

COSA NON VA, SONO POCHI
La prima cosa da non dimenticare è anche la più semplice: questa è una protesta di minoranza. Non si tratta di un giudizio di valore, ma squisitamente numerico. L’AKP, il partito di Erdogan, ha preso il 50% alle scorse elezioni, e nessuno mette in dubbio che sia tutt’ora maggioranza nel Paese – i sondaggi lo dànno addirittura in crescita.

Nel Parlamento turco ci sono 4 partiti, BDP (sx, curdo), CHP (csx, kemalista), AKP (cdx, islamico), MHP (dx, nazionalista): tre di questi, che insieme fanno il 45% dell’elettorato, hanno moltissime differenze, e come unico punto in comune quello di opporsi al quarto partito, che da solo ha più voti di loro. Quelli che manifestano oggi sono coloro che si oppongono a questa egemonia.

Si è parlato anche della fondazione di un nuovo movimento a partire da queste manifestazioni, ma proprio per le stesse ragioni è difficile immaginare quale ne possa essere la base politica, tanto più che la legge elettorale turca scoraggia questo tipo di iniziative (con uno sbarramento al 10%). È possibile che le manifestazioni di questi giorni spostino parzialmente gli equilibrî politici descritti sopra, ma per fare sì che abbiano una vera rilevanza, le opposizioni dovrebbero accordarsi in una comune agenda politica, cosa che – molto semplicemente – non può succedere.

COSA NON VA, SONO TROPPI
La protesta è cominciata dall’iniziativa di un deputato del BDP per impedire la distruzione di un parco a Istanbul; pochi giorni dopo la sede del BDP di Smirne, la principale roccaforte del CHP, è stata presa a sassate (mentre quella dell’AKP è stata data alle fiamme) da quelli che – in teoria – sarebbero gli stessi dimostranti.

In molti, specie fra curdi e ambientalisti, è cominciato a maturare un sentimento di insofferenza e mutilazione per la cannibalizzazione delle manifestazioni da parte dei kemalisti (CHP), e più in generale delle forze nazionaliste (MHP): lo slogan più diffuso è «Erdogan dimettiti», ma il secondo è «siamo i soldati di Mustafa Kemal», cioè Ataturk, e il terzo è «beato chi si può definire turco».

Le manifestazioni sono gonfie di bandiere turche e di ritratti di Ataturk: si può manifestare contro un governo sventolandone la bandiera? E si può manifestare assieme ai rappresentanti di un popolo – quello curdo – che è stato annullato, deportato, e ucciso sotto l’ordine diretto di un personaggio storico, sventolando il vessillo di quello stesso personaggio storico?

È probabilmente inevitabile, e forse anche auspicabile, che in un tipo di protesta come questa si convoglino diverse prospettive, speranze e pretese; ma la reciproca diffidenza delle varie anime che manifestano, e la contraddittorietà delle ambizioni che spingono curdi, laici, militari, nazionalisti e ambientalisti a manifestare, rendono molto difficile che ciascuna di queste istanze si concretizzi in una rivendicazione comune e soprattutto concreta. La società turca è troppo frammentata, balcanizzata in gruppi ideologici e identitarî, e così lo è la parte di Turchia che si oppone all’AKP, con fazioni che si guardano vicendevolmente con ostilità – anzi, inimicizia – e, su alcuni temi, sono anche più vicine all’AKP che fra loro.

COSA VA
Sembra una battuta, ma non lo è: questa è una delle poche volte, almeno in Medio Oriente, che chi scende in piazza vuole meno Dio in politica rispetto a chi è al potere. Chi protesta, protesta – anche – contro una legge che vieta gli alcolici durante le ore notturne, contro scuole elementari sempre più confessionali, contro un’islamizzazione simbolizzata, in questi giorni, da un episodio di cui si è parlato molto in Turchia: il divieto, espresso da un funzionario dell’AKP di Ankara, a due ragazzi di baciarsi in pubblico.

Questo fattore – quello della lotta popolare per la laicità – è ancora più importante in Turchia, dove per decenni c’è stata una parte politica, quella che ora sostiene l’AKP, che si è sentita defraudata della propria legittimità popolare, attraverso i colpi di Stato dell’esercito; questo ha fatto sì che fino a pochi anni fa la lotta per la laicità delle istituzioni sia sempre stata associata – anche simbolicamente – all’autoritarismo. Qualunque turco laico si è sentito spesso accusare di essere “al soldo (o schiavo) dell’esercito”.

Inoltre, per la stessa ragione la risposta alle due domande sopra potrebbe essere, genuinamente, «forse sì». È possibile manifestare contro un governo portando la bandiera di quello stesso governo? È possibile che rappresentanti di un popolo sfilino assieme a chi inneggia al padre della patria che ha, coscientemente, annichilito quello stesso popolo? Forse sì. Forse in Turchia, uno dei Paesi più nazionalisti al mondo, è addirittura necessario.

L’affezione, che spesso sfocia in suprematismo, è una parte imprescindibile della storia e dell’identità turca, e muove moltissime scelte politiche, militari ed economiche. Per fare un esempio poco conosciuto in Occidente, i turchi finanziano la costruzione e il mantenimento di numerose scuole turche all’estero (i figli dell’aristocrazia in molti Paesi arabi o ex sovietici vengono mandati alle scuole turche, come un tempo accadeva per quelle francesi), nel nuovo Iraq sono già 30.

Si può considerare negativamente il nazionalismo, o molto negativamente come faccio io, ma una maggiore integrazione di una società estremamente polarizzata, quasi atomizzata, non può che passare attraverso la costruzione di un’identità condivisa. È un processo che, come dicevo, molti Paesi europei hanno fatto uno o due secoli fa, ma che in Turchia non è mai avvenuto, anzi manca del tutto: ci sono i turchi “bianchi”, i turchi “neri”, e i curdi (oltre a mille altre minoranze intrecciate, spesso tutt’altro che piccole, come gli aleviti). E, naturalmente, questo ipotetico processo di identificazione collettiva dovrebbe passare anche attraverso una perdita di memoria. Come diceva Renan, raccontarsi delle frottole sul proprio passato è parte essenziale dell’essere una nazione.

COSA SUCCEDERÀ, I PERICOLI
Nel breve termine i pericoli sono molto chiari, e di speranze se ne vedono davvero poche. La cosa più probabile è che queste proteste si disperdano via via e, lentamente, muoiano nella constatazione che nulla sta cambiando concretamente. Tranne nell’ipotesi, oggi molto remota, di una nuova discesa in campo dei militari, è molto difficile che queste proteste operino un cambio di regime, rispetto a un partito che ha tuttora una solidissima base elettorale.

Se è vero che l’AKP ha ancora un largo consenso, è anche vero che Erdogan ha fatto molti errori nella gestione di queste proteste. Ha mantenuto, e anzi rivendicato, un pugno duro contro i manifestanti che lo ha identificato – non a torto – come il principale responsabile del comportamento della polizia. In questo senso Erdogan sta giocando molte delle sue carte in un gioco particolarmente rischioso, che potrebbe tranquillamente perdere se un altro membro dello stesso partito – o di quell’area culturale – decidesse di prendere una posizione più dialogante, come il presidente Abdullah Gul aveva accennato a fare durante la prima settimana di proteste.

Ma il vero pericolo per Erdogan non è costituito da Gul, personaggio notoriamente più moderato e meno populista, ma suo amico personale e riconosciuto contraltare. Piuttosto, una figura da tenere presente è Fetullah Gulen, guida del “Gulen movement”, un movimento religioso che – attraverso i suoi aderenti – costituisce la base di una buona parte del consenso dell’AKP. Se si vuole fare una similitudine spericolata, solo per capire da una prospettiva italiana, si può dire che se Erdogan ha molto di simile a Berlusconi, il Gulen movement ricorda una turca Comunione e Liberazione, ma più potente e con un peso politico molto maggiore (molto maggiore, sì, avete capito bene). E sarebbe un paradosso che da una protesta che ha come tema cardine la laicità, ne traesse giovamento un leader religioso.

Il rischio maggiore, però, è certamente quello che l’indebolimento di Erdogan possa minare il processo di pace fra Stato turco e milizie curde, firmato recentemente da Ocalan (capo del PKK in prigione) e lo stesso Erdogan, certamente la miglior cosa fatta dal primo ministro turco negli ultimi anni. Sia il CHP che i nazionalisti, com’è tradizione, si sono detti contrari a questo processo di pace, e anche Gulen ha sempre espresso alcune riserve. Una perdita di forza di Erdogan potrebbe mettere un freno alla realizzazione dei successivi passaggi dell’accordo, quelli più impegnativi per lo Stato turco dopo il ritiro – avvenuto come da patti – delle milizie del PKK dalla Turchia. Questo sarebbe un vero disastro.

COSA SUCCEDERÀ, LE SPERANZE
Come detto, nel breve termine si stenta a vedere una possibile evoluzione positiva di queste proteste, specie dopo il corso, ancor più autoritario e repressivo, scelto da Erdogan. Forse, però, alzando lo sguardo un po’ più lontano si può riuscire a intravvedere qualche speranza.

Il grande dibattito sulla società turca, quello più interessante e più gonfio di significati profondi e conseguenze ideali, è sempre stato quello sul kemalismo: il processo, profondamente riformatore e secolare, ma al tempo stesso autoritario, di Ataturk è stato un successo oppure no? Ataturk ha tentato, nello spazio fulmineo di una di un paio di generazioni, di modernizzare – sul modello europeo – una delle società più conservatrici del tempo, quella ottomana.

Per forzare quegli stessi processi che negli Stati Europei avevano impiegato due secoli, ha usato un autoritarismo oligarchico. Ha fatto pulizia etnica, ha soppresso il dissenso, e ha cercato di escludere – per legge – qualunque manifestazione pubblica della religione, con le leggi più severe e intransigenti che qualunque Paese non comunista al mondo abbia mai visto. Questo dibattito sulla secolarizzazione forzata è anche, ovviamente, un dibattito sulla possibilità di una democratizzazione dell’Islam.

I successivi decenni del ventesimo secolo possono essere visti come i rigurgiti, di quella società conservatrice, contro un’innovazione avulsa e forzata. Religiosi che riguadagnavano il potere, e seguaci di Ataturk – nella forma dell’esercito – che facevano un colpo di Stato per riprenderselo, e riassicurare la tutela della laicità. In questo ultimo decennio, con la salita al potere dell’AKP e l’indebolimento dell’esercito, il quesito al centro del dibattito è cambiato: l’arrivo al governo di una forza islamica, ma certamente meno integralista di quelle passate, è il tradimento del sogno di Ataturk o ne è il suo compimento?

La vittoria dell’AKP è la sconfitta del secolarismo kemalista o è il successo di quel processo di secolarizzazione che ha reso possibile la creazione di un partito d’ispirazione religiosa, ma responsabile e senza spinte teocratiche, equivalente a un partito cristiano-democratico europeo (come dice spesso Erdogan)? Nei primi anni 2000, anche grazie alle aperture all’Europa e alla democratizzazione, la risposta sembrava essere l’ultima: l’AKP sta diventando un centrodestra europeo.

Negli ultimi anni, però, con il continuo accrescimento del potere, e la svolta confessionale e autoritaria che il governo Erdogan ha preso, si è tornata a fare strada la prima ipotesi: un partito d’ispirazione religiosa, per di più islamica, comincerà inevitabilmente a reclamare un’invasività nelle scelte delle persone, sull’istruzione, sugli stili di vita. Non è un caso che, nelle proteste di questi giorni, una delle accuse trasversalmente più diffuse sia stata proprio quella di “mettere bocca nel proprio stile di vita”.

La preoccupazione, quindi è che Erdogan voglia trasformare la Turchia in una sorta di Dubai (o Qatar, o per fare un esempio al di fuori del mondo islamico, il Cile di Pinochet), uno Stato con grandi libertà economiche, ma confessionale e autoritario, con limitate – o limitatissime – libertà di dissenso, e di comportamento. Delle preoccupazioni ben riassunte in questa bella foto:

Per questo è importante che queste proteste siano, e auspicabilmente si mantengano, plurali e multiformi. Come dicevo, è difficile immaginare che attraverso delle dimostrazioni si rimarginino ferite profonde un secolo; però, in un passaggio storico per la Turchia, come saranno certamente ricordate queste proteste, un piccolo tassello – se proprio ci sforziamo a essere ottimisti – si sta costruendo in questi giorni, su due fronti.

Per prima cosa, il solo fatto che curdi e kemalisti, non dico manifestino insieme, ma condividano una protesta è già degno di nota (per chi conosce un po’ di Turchia, anche soltanto questa foto scattata a Londra è assurda). E in questo senso – al contrario di quanto detto prima – il fatto che i contenuti delle manifestazioni siano impostati molto sui principî e meno sui dettagli concreti è un vantaggio.

Inoltre, e questa è forse la cosa più importante, il fatto che molte anime protestino in piazza per la laicità e contro l’islamizzazione di una società cardine del Medio Oriente, quella a cui tutte le rivoluzioni arabe hanno guardato, è estremamente positivo. È importante che la parte laica della Turchia guadagni una consapevolezza e una coscienza civica che – quasi inevitabilmente – nei decenni passati è sempre stata demandata alla tutela dell’esercito che ne custodiva il valore, ma anche il monopolio.

Questo è significativo anche per quell’altra parte di Turchia, quella che vota l’AKP, e che per la prima volta vede nella laicità un principio difeso da un’opposizione democratica – un’opposizione che, perciò, dovrà cercare di guadagnare consenso, anche il loro – e non come un’istituzione imposta dai militari. Naturalmente non c’è alcuna garanzia che le cose andranno così, che la laicità diventi un patrimonio condiviso di tutta la Turchia. Ma l’alternativa non c’era: non si poteva continuare a colpi di Stato per sempre.

Un po’ di Turchia

3 su 5

Un paio d’anni fa mi sono messo a studiare abbastanza approfonditamente la storia e la politica della Turchia, e l’ho scoperta essere il Paese più complesso, contraddittorio, peculiare, e interessante al mondo. È uno di quei posti dove le categorie con le quali siamo abituati a pensare alle cose saltano, e quindi è molto difficile farsi un’opinione – cioè declinare il proprio pensiero generale in un contesto preciso – su quello che succede. Com’è possibile? L’esercito è il garante della laicità? La destra, ma non l’estrema destra, è la più europeista? Il centrodestra è meno ostile ai curdi, e alle minoranze, del centrosinistra? E l’occupazione militare, lunga trent’anni, di un Paese dell’Unione Europea, cioè Cipro? Sono tutte, queste e molte altre, posizioni strane, che si possono capire solo alla luce della storia della Repubblica turca.

In questi giorni di proteste mi sono trovato spesso a raccontare un po’ di queste cose, a persone e amici che cercavano di capire e che magari in passato mi avevano sentito dire frasi come quella con cui ho aperto il post: “la Turchia è il Paese più complesso e interessante al mondo”. Così ho pensato di mettere giù anche qui un po’ delle cose che penso siano importanti per capire queste proteste: è un racconto non solo parzialissimo e superficiale – un disclaimer che per la Turchia è ancor più necessario – ma è anche frutto della mia personale interpretazione degli eventi. Magari, però, a qualcuno può essere comunque utile per farsi un’idea.

Una considerazione chiave è questa: per capire la Turchia del XX secolo, non la si può confrontare con gli Stati europei dello stesso periodo, ma bisogna analizzarla attraverso la lente e le categorie dei due secoli precedenti: il nazionalismo era, a quel tempo, un’istituzione progressista, volta a conferire per la prima volta al popolo un diritto di legittimità su qualcosa: la propria terra. Nel caso di Ataturk, era in opposizione alla monarchia assoluta, storicamente e religiosamente importantissima, dell’Impero Ottomano, o anche l’ultimo Califfato (per capirne l’importanza, anche a livello dottrinario, basta pensare che il Califfato è l’unico degli imperi dissoltisi con la prima guerra mondiale ad avere ancora dei sostenitori).

In questa prospettiva due cose (lascio da parte altre, come la politica estera e la dearabizzazione, altrettanto interessanti ma non strettamente legate alle proteste di questi giorni) erano una minaccia per la coesione identitaria della Turchia: la religione e l’eterogeneità etnica. Per questo, la Repubblica è stata fondata su leggi che, al tempo stesso, vietavano e ne davano allo Stato (e quindi all’esercito, Ataturk era un generale) il controllo, di ogni manifestazione religiosa. Per le medesime ragioni, venne bandito qualunque tipo di riconoscimento dell’identità curda, anche il più flebile: parlare in curdo, la prima lingua di milioni di persone residenti in Anatolia, era vietato e punito come attentato allo Stato.

Tutti i successori di Ataturk hanno sempre conservato questo orientamento, rappresentati in quello che è sempre stato il partito kemalista (il vero nome di Ataturk era Mustafa Kemal) di riferimento, il CHP. Il CHP è un partito socialdemocratico – Ataturk era un estimatore dei socialismi europei –, attuale membro dell’internazionale socialista, che ha però delle peculiarità: è sempre stato strenuamente filo-occidentale (ma non filo-europeista, almeno negli ultimi decenni), ha delle posizioni fortemente nazionaliste, è molto legato all’esercito, ha rapporti pessimi con i partiti comunisti (che in Turchia sono curdi), è profondamente laico (fino al 2008 era vietato l’accesso al partito a chi portasse il velo).

Il problema è che, come spesso accade, la popolazione – specie quella rurale – è sempre rimasta più legata alle proprie tradizioni religiose rispetto all’élite cittadina, burocratica (e militare) che era l’ossatura del CHP. Questo ha fatto sì che, con un paradigma che si è ripetuto ogni 10 o 15 anni, ogni volta che si andava alle elezioni la parte conservatrice e religiosa prendeva molti più voti di quelli rispecchiati dalla precedente rappresentanza nelle istituzioni e nella politica. Un governo di stampo più religioso veniva formato: questo provava a riformare lo Stato nel senso di una maggiore apertura al dissenso, alla religione, alle minoranze, cercando inoltre di indebolire l’esercito. Ogni volta che questo succedeva, l’esercito entrava sulla scena politica con un colpo di Stato, varava delle leggi speciali per ristabilire l’ordine e lo “spirito patriottico del kemalismo”, e riconsegnava il potere al CHP.

Questo processo si è ripetuto tre volte e mezza negli ultimi 50 anni, l’ultima (la mezza) poco più di 15. Per questo la Turchia è sempre stata una semi-democrazia, guidata da un’élite con idee talvolta condivisibili, ma che venivano imposte attraverso leggi che altrove considereremmo liberticide, secondo i due principi elencati sopra: 1) la coesione etnica è necessaria per la coesione nazionale: un turco è un turco e basta: 2) l’Islam deve essere controllato e arginato, altrimenti prende possesso dello Stato e lo trasforma nuovamente in una teocrazia. Due esempî particolarmente simbolici, avvenuti nel corso degli anni ’90: la prima parlamentare curda, Leyla Zana, fu incarcerata per dieci anni per aver pronunciato in parlamento, in curdo, la frase «giuro in nome della fratellanza fra il popolo turco e il popolo curdo». Erdogan, l’attuale primo ministro, è stato in carcere per aver recitato una poesia a sfondo religioso. Di più: quando fu eletto doveva ancora scontare diversi mesi della propria pena, così che il mandato fu inizialmente affidato ad Abdullah Gul (il primo primo ministro apertamente mussulmano, oltre che attuale presidente turco).

L’Unione Europea ha sempre obiettato a questo tipo di provvedimenti (Zana è stata anche premiata dalla Commissione come dissidente), spingendo per una maggiore apertura della Repubblica. Ciò ha determinato la curiosa circostanza che, in Turchia, il centrodestra di Erdogan e i partiti curdi (di estrema sinistra, ma particolari: a favore della guerra in Iraq, per esempio) sono i maggiori sostenitori dell’Europa, in quanto potenziali beneficiarî delle aperture richieste, mentre il CHP – di centro o centro-sinistra – è il meno favorevole all’integrazione. Queste posizioni si sono parzialmente evolute negli ultimissimi anni per ragioni di politica estera, ma il nocciolo delle ragioni rimane il medesimo.

Il partito di Erdogan, l’AKP, è l’erede diretto dei partiti pro-religiosi che nei decenni precedenti furono messi fuorilegge dall’esercito. Per la prima volta, nel corso degli anni 2000, un partito è riuscito a contrapporsi al potere militare, smarcandosi dal timore di fare riforme troppo incisive per la paura di un possibile colpo di Stato. Questo è stato possibile per due ragioni: la pressione internazionale in questo senso, e un gigantesco consenso guadagnato dall’AKP, anche grazie a qualcosa di simile al boom economico italiano degli anni 60:  complici una serie di liberalizzazioni, l’economia turca ha fatto un enorme balzo in avanti negli ultimi dieci anni, crescendo a tassi che sfidano quelli dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Alcuni analisti dicono addirittura che l’economia turca sia la più in salute al mondo (altri sostengono sia una grande bolla illusoria, vedi il primo commento a questo post).

Erdogan, all’inizio più prudente, ha cominciato così a proporre riforme sempre maggiori, accompagnato da un consenso sempre crescente (alle ultime elezioni l’AKP ha preso il 50%, ed è stato considerato un risultato deludente), fino ad arrivare a proporre – e fare approvare attraverso referendum popolare – la modifica della costituzione repubblicana. Tuttavia, nel guadagnare sempre più potere – anziché dismetterle – ha cominciato a utilizzare le stesse istituzioni di repressione del dissenso che aveva criticato, non soltanto smantellando il potere dell’esercito e facendo arrestare quella stessa leadership che lo aveva incarcerato 15 anni prima, ma attaccando anche la libertà d’espressione di quella parte di Turchia che non lo sostiene, con arresti e processi per giornalisti e dissidenti.

Queste, io credo, sono le – riassuntissime, violentate dalla sintesi – premesse necessarie a capire le proteste di questi giorni. Domani provo a buttare giù qualche pensiero più personale su ciò che esse vogliano dire, perché siano esplose, e quali siano i possibili sviluppi. Eccolo qui: LINK.

Buon San Valentino, ma non a voi

3 su 5

L’unica tradizione di questo blog, il post di San Valentino, va rispettata:

Tanti auguri.

Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita, e in tanti altri posti del mondo, festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è una parodia, si chiama veramente così. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.

Israele-Palestina come all’Ikea

4 su 5

Dico spesso che la pace fra Israele e Palestina è facile, talmente facile che sappiamo da un sacco di tempo come sarà, che la si faccia oggi o fra cento anni. Ciò che manca è la volontà, e la disposizione alle rinunce, di entrambe le parti. Per scherzo dico sempre, a quelli con cui ne parlo, «se ci andassimo io e te, a farla, la pace, la faremmo subito», perché spesso è difficile rendersi conto di quanto piccolo sia il margine che divide la trattativa, di come i prendere-o-lasciare vertano su pochi metri quadri, a fronte – invece – di rancori, cinismi, paure, dogmi religiosi – le cose che bloccano davvero il processo di pace.

Jacopo Ottaviani mi ha segnalato un tool bellissimo, is Peace Possible?, in cui si può costruire la propria road-map-fai-da-te, decidendo quali insediamenti annettere e quali no. Per un impallinato di mappe, con un grande interesse per quel conflitto, è la cosa definitiva. La mappa parte dai territorî israeliani post 48, e permettere di scegliere quanti dei territorî conquistati alla Giordania nel ’67 Israele potrebbe annettere (per l’Onu lo 0%, per l’accordo di pace di Camp David-Taba il 5%), che è esattamente ciò che si sono trovati a trattare – nei fatti – i rappresentanti dei due popoli in tutte le trattative negli ultimi decennî.

Per la rubrica “l’angolo del cavillo”, di cui sono appassionato fan, ci sono due piccole mancanze che, comunque, non inficiano l’utilità della strumento: la zona cuscinetto del ’48, attorno a Modi’in che è convenzionalmente considerata israeliana, viene qui ascritta alla Palestina, condizionando un pelino le percentuali; e non è prevista la possibilità di dare territorio israeliano ai palestinesi, in cambio delle colonie più grandi, cosa che era stata vagliata con concretezza in tutte le proposte di pace.