Omofobia e calcio, la storia di Graeme Le Saux

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per Il Post

Omofobia è una brutta parola, perché decide che l’unica fonte d’odio per gli omosessuali è la paura deliberata (-fobia). In realtà il disprezzo per gli omosessuali ha molte forme: la repulsione, l’odio diretto, l’ignoranza schietta, il conformismo che ride del diverso, e in generale un approccio acritico, che non si domanda davvero che bene o male possa fare un omosessuale, ma si affida a quello che ne pensa l’ambiente che si ha attorno. E l’ambiente è spesso maschilista, banale, ferocemente canonico.

Per questo è difficile ragionare su come sia giusto rapportarsi a Sarri, che è semplicemente il prodotto di una mentalità: Sarri, ovviamente e al contrario di come ho letto, non voleva offendere la comunità omosessuale, né voleva suggerire che Mancini fosse davvero omosessuale. Sarri appartiene a un ambiente, e più in generale una cultura, dove l’impiego della parola “frocio” è uno dei possibili insulti, e lo è perché è il contrario di essere “un vero uomo”, dove essere-un-vero-uomo è qualcosa di auspicabile.

E come si cambia un ambiente? Come si cambia una cultura? Molti fanno riferimento, anche in questo caso, al “modello inglese” – lo stesso Mancini ha detto che, in Inghilterra, Sarri verrebbe squalificato per due anni – ed è vero che nel calcio inglese c’è stata una rivoluzione di mentalità. A questa hanno contribuito più di tutto due storie: quella tragica di Justin Fashanu, e quella di Graeme Le Saux. Mentre la storia di Fashanu è stata spesso raccontata, quella di Le Saux è quasi del tutto sconosciuta, in Italia.

Le Saux
Graeme Le Saux

Graeme Le Saux è stato un terzino sinistro del Chelsea e di altre squadre inglesi: era considerato un grandissimo talento, che non ha pienamente corrisposto alle aspettative che si avevano su di lui, storia abbastanza comune. In Inghilterra, però, è conosciuto per un altro fatto: per tutti gli anni 90 è stato dileggiato, irriso, preso in giro e accusato di essere omosessuale, una vicenda che tutti gli spogliatoi, tutti i talk show, e tutte le tifoserie conoscevano e – a modo loro – sfruttavano. Incidentalmente, Graeme Le Saux non è omosessuale: il che dovrebbe essere un dettaglio irrilevante. Le Saux ha raccontato la propria vicenda nella sua autobiografia: “non sono gay, e non lo sono mai stato, ma sono diventato vittima dell’ultimo tabù del calcio inglese”.

In un passaggio titolato giornalisticamente dal Times “Come l’accusa di essere omosessuale ha rovinato la mia carriera”, racconta la classica pressione all’omologazione che c’era nello spogliatoio e il sillogismo strano=omosessuale: “Siccome avevo interessi diversi, siccome non mi sentivo a mio agio nella cameratesca e machista cultura dell’alcol che era dominante nel calcio inglese di fine anni 80, fu dato per scontato dai miei compagni di squadra che in me c’era qualcosa di sbagliato. Ne seguì, naturalmente, che dovevo essere gay”.

Tutto cominciò nell’estate del 1991, quando Le Saux era un ragazzo appena uscito dalle giovanili. Durante quella stagione aveva fatto amicizia con un compagno di squadra (per di più nero, del Suriname) chiamato Ken Monkou e avevano fatto un viaggio assieme. Al ritorno dalle vacanze, i compagni gli avevano chiesto delle proprie vacanze e Le Saux aveva raccontato del viaggio. Da questo banale episodio cominciò a diffondersi nello spogliatoio la battuta su “Le Saux che va in campeggio con Monkou”. Risate.

La battuta da spogliatoio fu replicata. Le Saux stesso dice che, al tempo, era un ragazzo sensibile alle offese e piuttosto ingenuo e prendeva le cose più seriamente di quanto avrebbe dovuto, e anziché ridere delle prese in giro – come la cultura da spogliatoio gli richiedeva – reagiva e protestava. Non so quanto non reagire l’avrebbe aiutato, perché è una situazione senza via d’uscita: se non reagisci all’accusa vuol dire che quell’accusa è veritiera; se reagisci, è perché hai qualcosa da nascondere. In entrambi i casi è “vedi, ti ho fatto tana”. Nei fatti, sei spacciato.


Le Saux ha detto che nei momenti peggiori, periodi simili alla depressione, ha pensato seriamente di smettere di giocare. Non avremmo visto questo pallonetto a niente meno che Peter Schmeichel

Un altro fattore che confermava i pregiudizî dei compagni sulla sua stranezza, e quindi sulla sua omosessualità, era che Le Saux leggesse il Guardian, un quotidiano generalista, e per di più di sinistra e con un’aura intellettuale. Una volta Andy Townsend, un compagno di squadra, lo vide leggere il giornale, glielo prese dicendo di voler leggerlo, e dopo un paio di secondi glielo rilanciò a terra dicendogli «ma non c’è un cazzo di sport qui dentro!». Il resto della squadra scoppiò a ridere.

“Tutto quello che facevo veniva usato come prova che fossi omosessuale: come mi vestivo, la musica che ascoltavo, il fatto che andassi alle mostre, I giornali che leggevo, erano tutti indizî che andavano a confermare il loro pregiudizio sulla mia sessualità”.

Le Saux diventò oggetto di prese in giro giornaliere, e con la fama le cose peggiorarono. “In quei giorni, se qualcuno pensava che tu fossi anche solo un poco effemminato, eri nei casini”.  Il pettegolezzo si diffuse agli allenatori, alla società, e a settembre “quello che più temevo si concretizzò”. Durante una partita col West Ham, il tifosi avversarî cominciarono a cantare sul motivo di Go West “Le Saux, takes it up the arse” (Le Saux lo prende nel culo). “Pensai: o mio Dio, è finita. Sapevo che da quel momento in poi i tifosi di qualunque squadra mi avrebbero rovinato la vita”.

Il coro divenne una costante. Se c’era un momento di vuoto nella partita, se non c’era un gol, un’azione o un altro canto da fare, quel coro era l’opzione di riserva. Quella sempre a disposizione. Da questo, dice Le Saux, capisci molto della mentalità delle masse: se la partita comincia male, dirigono la loro rabbia e frustrazione verso di te. “La varietà degli insulti che la gente indirizza agli omosessuali diventò la materia nella quale sono specializzato”.

“Provai a prevenirlo facendo il macho – pensate che vita miserabile deve essere, cercare di manifestarsi come macho in ogni cosa che si fa in campo – la cosa peggiore era quando andavo a battere un calcio d’angolo, e vedevo le persone a pochi metri da me, gente livida di rabbia che mi urlava insulti”. Un episodio che lo colpì molto accadde ad Anfield Road: andò a battere un fallo laterale e vide a pochi metri di distanza un bambino di non più di dieci anni che gli gridava «frocio, lo prendi nel culo!», con il padre del bambino che anziché sgridarlo si associò a lui negli insulti.


Le Saux che fa il macho, qui una rissa in campo con il suo compagno di squadra David Batty

E ovviamente cominciarono i giocatori avversarî: un caso eclatante fu quello di Paul Ince, con cui Le Saux aveva sempre avuto un bel rapporto. Durante una partita, Ince aveva provocato varie volte Le Saux con il solito insulto – “frocio, frocio!” – e dopo avergli fatto un fallo, con Le Saux a terra, gli disse: «alzati, signorina, non ti sei fatta nulla». A quel punto Le Saux rispose con un insulto alla moglie di Ince. Questi impazzì, per tutto il resto della partita provo a spezzargli una gamba, e sulla via degli spogliatoi gli tirò un cazzotto. “Voleva ammazzarmi”, dice Le Saux aggiungendo di non essere orgoglioso dell’insulto alla moglie di Ince, ma “volevo fargli provare un po’ della stessa moneta”.

In tutto questo c’era un dilemma piuttosto ovvio, e cioè che smentire le accuse, rispondere gli insulti, lo mettevano in una situazione davvero complicata: era difficile continuare a negare, con sempre più forza, di essere omosessuale, senza essere irrispettosi nei confronti degli omosessuali stessi. “Mi sono domandato se fosse diffamatorio essere chiamato omosessuale dato che non lo ero”, dice Le Saux, in una domanda che riecheggia la sciocca attenuante data a Sarri sulla non omosessualità di Mancini. “Ma nel calcio penso che lo sia, perché uno si deve difendere: ammettere di essere gay può voler dire la fine della tua carriera”, nessuna squadra ti cerca più, nessun allenatore ti vuole più in squadra perché pensa che potresti creare problemi allo spogliatoio. “È un atto d’accusa per il calcio, ma è così”.

Il più bel gol di Le Saux con la maglia della Nazionale

Il culmine della vicenda capitò in una partita contro il Liverpool. Robbie Fowler, attaccante noto per le sue trovate, fece un fallo su Le Saux, seguito dal solito “alzati ricchione”. Poi si piegò con il sedere verso Le Saux come a dirgli “vieni, vieni, è per te”. Il guardalinee aveva visto tutto, e Le Saux andò da lui a chiedergli cosa pensasse di fare. “Vidi su di lui uno sguardo di una persona nel panico”. Quando Le Saux disse che non avrebbe ripreso a giocare se la terna arbitrale non avesse preso provvedimenti, l’arbitro ammonì Le Saux stesso per perdita di tempo. Le Saux dice che quella fu un’occasione in cui il calcio avrebbe potuto prendere una posizione: se l’arbitro avesse espulso Fowler, tutto il sistema calcio si sarebbe dovuto confrontare con il problema che aveva. “Forse avrei dovuto rifiutarmi comunque di battere se non lo avesse espulso, e così venire espulso io, ma non mi andava di diventare un martire della causa”.

Fowler continuò con lo stesso gesto nel corso di tutta la partita, quindi Le Saux andò da lui e gli disse: «Robbie, c’è la mia famiglia sugli spalti». Fowler rispose: «anche Elton John era sposato!» o «sticazzi della tua famiglia», a seconda di quale delle due versioni si ascolta. A quel punto Le Saux non ci vide più, e, a palla lontana, tirò una gomitata sul viso a Fowler. Qualche settimana dopo Fowler ne fece un’altra delle sue, e dopo un gol andò a sniffare una riga del campo, come fosse cocaina: la cosa curiosa è che lo fece per smentire e prendere in giro le voci e calunnie che lo accusavano di essere cocainomane, proprio come voci e calunnie erano quelle che avevano armato il suo comportamento nei confronti di Le Saux. Ma né lui, né Ince (insultato più volte per il colore della pelle) si resero conto della similitudine. Il paradosso, dice Le Saux, fu che la federazione diede a Fowler una punizione molto peggiore per quello che era solo uno scherzo, che non insultava nessuno, che non per il suo atteggiamento nei confronti di Le Saux.


Uno dei gesti di Fowler, e la gomitata di Le Saux

Da quel momento, comunque, i cori cominciarono a diventare meno arrabbiati e a rarefarsi. Era scaturito un dibattito, sulla puerile crudeltà di quel trattamento. Anche Le Saux cominciò viverla più serenamente: “quello che Robbie aveva fatto era sempre stata la mia più terribile paura, ora che era successo, non c’era nulla di peggio che poteva capitarmi”. Quasi a fine carriera, le cose per Le Saux migliorarono, “Comunque, sentii una sensazione di grande sollievo quando mi ritirai”.

Indipendentemente dal fatto che la federazione inglese non prese dei provvedimenti serî, questa vicenda segnò un’evoluzione della consapevolezza del problema del rifiuto dell’omosessualità nel calcio. Si aprì un dibattito, e la sola manifestazione del problema, ignorato per la gran parte da tutti, servì a confrontarcisi e trovarne soluzioni. Naturalmente l’Inghilterra non è il paradiso: il disprezzo per gli omosessuali non è sparito, come non è risolto il problema del razzismo; ma è nota qual è la linea collettiva, quale il pensiero comune e ufficiale, quale l’aspettativa dei media, ed è di ferma condanna per un comportamento simile.

Oggi Graeme Le Saux lavora per la FA, la federazione inglese, ed è parte dell'”Inclusion Advisory Board”, cioè è membro del direttivo che suggerisce quali siano i metodi migliori per favorire l’inclusione delle diversità nel calcio. L’Inclusion Advisory Board è una di quelle istituzioni le cui iniziative sono criticate da molti come inutili, o di mera immagine, ma che per lo meno testimoniano l’impegno e la direzione che la federazione vuole dare. È la dimostrazione che c’è stato un cambio di mentalità, e che questo cambio di mentalità è arrivato fino alle sedi federali.

Per questo il problema non è Sarri o Fowler. Loro sono solamente la manifestazione del problema. Nei fatti non si può chiedere a tutti i calciatori di essere come Le Saux, un giocatore con uno spirito critico fuori del normale. La cultura di dileggio degli omosessuali che ha respirato negli spogliatoi fin da bambino, ha plasmato il comportamento di Fowler, che è sempre stato un calciatore un po’ più sguaiato degli altri, e nel comportarsi in quel modo, ha semplicemente spinto un po’ più in là il comportamento che tutti consideravano accettabile nei confronti di Le Saux. Per ironia della sorte, il suo farlo in maniera così eclatante ha permesso a tutti di discutere e di modificare quella cultura cosicché i giocatori che vengono formati oggi imparino a non fare gli stessi errori che ha fatto Fowler.

Per conto proprio, un paio di anni fa, Fowler ha scritto su Twitter: “Continuano a dirmene per una cosa che è successa quand’ero un ragazzino, ingenuo e immaturo. Ho chiesto scusa a Graeme Le Saux e lui ha accettato. Ovviamente sono imbarazzato se mi guardo indietro, ma purtroppo non posso cambiare quello che è successo. Si impara dagli errori crescendo, e io ho imparato”.

 

Una cosa piccola su Dzemaili (e noi)

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Nella partita fra Argentina e Svizzera è successo questo.

Il giocatore che fa quel doppio errore, quello che poteva portare la Svizzera ai quarti di finale dopo sessant’anni, si chiama Blerim Dzemaili. È un giocatore piuttosto bravo per il livello della Svizzera, però è costantemente un panchinaro – ha giocato 54 minuti su 390 – perché i due giocatori titolari nel suo ruolo, Behrami e Inler, sono un poco più bravi di lui. Tutti e tre sono svizzeri d’adozione (Dzemaili e Behrami sono proprio nati in ex Jugoslavia, Inler ha giocato con l’under 21 della Turchia), e tutti e tre giocano nel Napoli, dove è da un paio d’anni che a Dzemaili capita la stessa cosa, quella di essere un poco meno forte dei due titolari. Delle volte mi domando cosa pensi, di quegli altri due, che si ritrova a fargli da tappo sia nel club che in nazionale: saranno amici, di certo, ma se li sogna la notte che gli rubano anche gli amici, la fidanzata o il posto a sedere in autobus?

Nonostante, poi, Dzemaili sia un poco più tecnico e offensivo degli altri due – anzi, proprio per questo – e visto che quelle due posizioni al centro del campo sono occupate, gli è capitato più di una volta di essere il giocatore che entra in campo al posto del numero 10 per difendere un risultato, di essere il cambio con il quale l’allenatore dice alla squadra «va bene, ora ci difendiamo»: ed è una morte un po’ peggiore.

Nella partita con l’Argentina è successo precisamente questo: Dzemaili non ha giocato per 113 minuti. Poi l’allenatore ha deciso di togliere Mehmedi, un trequartista, e mettere lui, per difendere quello 0-0 che la Svizzera si era arresa a sperare: in teoria un poco più avanti di Behrami e Inler, in pratica a correre per tutto il campo, in qualità di giocatore con più energie di tutti. La heat map qui sopra, per chi è un po’ familiare, è assurda nell’essere così diffusa e maculata. In effetti vuol dire tre cose: prima di tutto che ha giocato molto poco, in un momento di gioco molto spezzettato (calci di punizione, calci d’angolo, mischioni, contropiedi), e che non ha avuto una vera posizione in campo nella frenesia di quegli ultimi minuti.

Solamente che a metà di quegli esatti dieci minuti giocati da Dzemaili segna l’Argentina e la ragion d’essere della sua entrata in campo va in fumo. Rimangono due minuti di gioco, più un po’ di recupero. Al terzo minuto di recupero, il 123° – un minuto che avrò visto giocare in tre partite in vita mia – c’è uno di quei cross con tutti in mezzo, anche il portiere, a cercare di buttarla dentro e Dzemaili fa quella cosa lì.

C’è questo momento, in cui Dzemaili ha già colpito di testa, da solo, e ha preso il palo. Non è un brutto colpo di testa, ma ci è proprio andato con il furore turbolento del “o la va o la spacca”. E invece né va né spacca, il pallone prende il palo ed è in quel momento che realizza – la direzione dello sguardo – che ha la possibilità di riprovarci, ma tutto l’impeto che ha messo nel primo colpo di testa l’ha portato a incespicare, sta già inciampando. Ed è così, con le gambe che si sono incrociate da sole, che colpisce la palla nel modo più goffo per un calciatore, di ginocchio, e la palla va fuori.

Ecco, io tutto questo l’ho scritto perché quell’espressione – o la va o la spacca – mi sta proprio antipatica, e mi sono reso conto che ogni volta che leggerò qualcuno scrivere sciocchezze come “mica possiamo stare sempre lì a ragionare su tutto quello che facciamo” penserò al povero Dzemaili, che non sapeva di avere una seconda possibilità, e non ne avrà una terza.

Guardare i Mondiali con le donne

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Prendo questo post a pretesto per segnalare due cose: che sul numero di Limes in edicola c’è un mio articolo sul N°1 del Brasile. Di solito non segnalo sul blog gli articoli che scrivo, ma questo secondo me vale la pena: se vi piacciono le storie, raccontare storie è la cosa che so fare meglio. L’altra cosa è che ho preso un impegno: avete presente quelli che dicono «se l’Italia vince il Mondiale faccio x»? Io lo faccio per tutte le squadre: qui ci sono tutte le penitenze.

Ho creato un giochino a pronostici con regole complicate e avvincenti, su 20 ci sono 3 donne: in questo momento sono prima, seconda e quarta. Quindi per vendicarmi ho deciso di fare un post sessista su quanto le donne non capiscono di calcio.

Tutti siamo abituati ai commenti che le donne fanno durante le partite – c’è il celebre «oh, che peccato!» dopo una sconfitta – solo che durante il Mondiale c’è una tale esposizione all’ignoranza calcistica (oltre che gruppi d’ascolto molto folti) che di perle da riferire ai posteri ce ne sono moltissime, basta ricordarsi di appuntarle. Naturalmente io l’ho fatto, oggi ho deciso di condividerle con voi (ovviamente la lista è in continuo aggiornamento):

– «che lavoro di merda l’arbitro: corri tutta la partita e non puoi fare gol»
– «Ronaldo è un tamarro di merda, però è un tamarro bravo (ha una donna da tanto tempo)».
– «ma poveri, non si prendono la congestione a bere l’acqua fredda?»
– «ma non è un po’ triste che giochi l’Iran e non l’Irlanda?» «ma perché l’Irlanda?» «Boh, suona simile»
– «ma loro (i calciatori) fanno lezioni su come cascare bene?»
– «Ma giocano ad acchiapparella?» (trattenute sul corner)
– «Ma quindi Zidane è algerino di origine francese?» (dopo spiegazione sul tema naturalizzazioni)
– «ha detto “se lo magna”?» (il commentatore aveva detto “salta Umaña”)

Elogio di Gervinho

Nell’ormai pluristagionale letargo di questo blog, approfitto di questo post sul pallone, per segnalare una cosa scema che faccio, sempre sul pallone. Ogni sabato, alle 19.30, sono a Super Santos, su Retesport, assieme ad Antonio Conte e Aldo Spinelli (scherzo), a tenere una rubrica che un tempo si chiamava “Oh, ma te lo ricordi questo?”, poi è diventato “Oh, ma to’o ricordi quello?”, e poi è diventato “vi racconto qualunque storia che mi pare in cui c’entri anche periferalmente il calcio”. Di solito si parla di cose da ridere, come giocatori della nostra infanzia con storie assurde. Altre volte no, ma sempre di storie si parla. Se non vi piace il calcio e non vi piace ridere, potete ascoltare questo. Altrimenti tutti gli altri.

Per il Post

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Quest’estate si è chiuso un giro, un quadrato, di fantasisti: Erik Lamela è passato dalla Roma al Tottenham, Gareth Bale dal Tottenham al Real Madrid, Mesut Özil dal Real Madrid all’Arsenal e Gervinho dall’Arsenal alla Roma. A giudicare dalle cifre, la squadra che ci ha perso è la Roma: Bale è stato pagato 100 milioni, la cifra più alta nella storia del calcio. Özil è andato per 50 milioni all’Arsenal, che non aveva mai speso la metà di quei soldi per l’acquisto di un giocatore. Lamela, pagato fra i 30 e i 35 milioni, è diventato sia l’acquisto più costoso della storia del Tottenham, che la cessione più redditizia di quella della Roma. Il povero Gervinho, invece, è stato pagato 8 milioni: meno di un dodicesimo di Bale. Invece è il giocatore del momento. In Coppa ha segnato, di rapina, il gol con il quale la Roma ha battuto la Juventus. E guardate che “la Roma elimina la Juve grazie a un gol di rapina di Gervinho” sembra una di quelle locuzioni inventate a scuola per spiegare la figura retorica del paradosso.

1. Da dove viene
Gervais Lombe Yao Kouassi è nato in Costa d’Avorio nel 1987. Dopo un’infanzia di partite giocate senza scarpe, perché troppo costose, viene preso all’accademia calcistica dell’ASEC di Abidjan, ed è lì che Gervais diventa “Gervinho”, alla maniera dei brasiliani. L’ASEC è la squadra di Jean-Marc Guillou, il primo ad aver lanciato un allenatore francese che segnerà la carriera di Gervinho: non è Rudi Garcia, è Arsène Wenger. Wenger è stato il vice di Guillou al Cannes negli anni 80, e i due sono sempre in contatto. Fra l’ASEC, il Beveren (squadra belga, ora fallita, gestita poi dallo stesso Guillou) e l’Arsenal si instaura un giro di calciatori, passaporti e denaro per il quale la Fifa indagherà, per poi assolvere, anche Wenger. Intanto fra l’ASEC e il Beveren passa mezza nazionale ivoriana: da Yaya Toure, al portiere Barry, ai due terzini Eboué e Boka, ai centrocampisti Romaric e Yapi Yapo. E lo stesso Gervinho.

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È al Beveren che vediamo per l’ultima volta Gervinho senza quelle treccine che sembrano fatte apposta per sottolineare la sua calvizie. A Roma ha cominciato a usare una fascia più grande, quindi niente più “curtain style haircut”, niente più Er Tendina.

Al Beveren gioca da attaccante puro, in una squadra in cui diciassette ventiduesimi sono ivoriani. È lì che si parla per la prima volta di un suo possibile passaggio all’Arsenal di Wenger, ma finisce in Francia, al Le Mans, la squadra nella quale è esploso il più grande calciatore della storia ivoriana: Didier Drogba. L’allenatore di quel Le Mans, una piccola squadra che gioca bene, è Rudi Garcia. A fine anno arriveranno noni, il miglior risultato della storia del club, e Garcia viene ingaggiato dal Lille. Gervinho viene nuovamente accostato all’Arsenal, e lui dichiara: «so che Wenger mi segue da quando avevo 17 anni; lui è un grande allenatore, e quando un grande allenatore dimostra di apprezzarti, questo ti dà la fiducia necessaria a giocare ai migliori livelli» – qui c’è molto del carattere di Gervinho – «io farei di tutto per andare all’Arsenal, è il club che ho sempre sognato, e sarebbe il giorno più bello della mia vita». Solo che anche questa volta il giorno più bello della sua vita non arriva, anche questa volta il trasferimento rimane solo ipotetico (si parlò anche di un interesse del Milan), e, nel 2009, Gervinho raggiunge Garcia al Lille.

Nel Lille, Gervinho si consacra definitivamente, così come il gioco – veloce e offensivo – di Garcia. Inizialmente gioca con un centravanti classico, lo stesso De Melo che aveva avuto al Le Mans, poi sempre più spesso schiera un 433 con tre seconde punte. È in questa configurazione tattica che Gervinho dà il meglio di sé, partendo largo ma sempre vicino alla porta. Nelle due stagioni al Lille segna anche diversi gol, 18 in entrambe fra campionato e coppe. Ma non è solo questo: Garcia dà fiducia a Gervinho. Lo celebra quando gioca bene, ma soprattutto lo difende quando gioca male o fa qualche sciocchezza, come quando – nell’aprile del 2011 – si fa espellere per uno spintone a un difensore, lasciando al Monaco la vittoria e al Marsiglia di avvicinarsi a un punto dal Lille. E, forse ancora più importante, lo fa giocare sempre. Non è che a Gervinho manchi il carattere o il coraggio – in campo è grintoso, se perde un pallone cerca di andarlo a riprendere – ma ha bisogno di fiducia ed entusiasmo per essere libero di provare a giocare come sa.

A fine 2011, finalmente, arriva “il giorno più bello della mia vita”: Gervinho va all’Arsenal, dove incontra Wenger, l’allenatore che lo seguiva da quasi 10 anni, il suo mentore da lontano. Solo che, come spesso accade, ciò che uno sogna per una vita non si rivela all’altezza del sogno. Alla prima partita con l’Arsenal, Gervinho prende un cartellino rosso per una manata a Joey Barton.

Di coraggio ne ha anche troppo: tirare uno schiaffo a Joey Barton è come sfidare Maradona a una gara di palleggi.

All’inizio è titolare, ma segna poco ed è decisivo solamente in un paio di partite. A metà stagione è in panchina, e subentra quando c’è bisogno di attaccare, spesso partendo da più lontano per la necessità di allargare il gioco. Gervinho ne soffre, non è la classica ala che va sul fondo e crossa. La faccenda si acuisce l’anno successivo, con l’arrivo di un vero centravanti come Giroud: Wenger concede sempre meno fiducia a Gervinho, e quando entra in campo gli chiede di fare ciò che fa Walcott, un giocatore con pochi fronzoli: velocissimo, ma anche molto freddo e bravissimo nell’uno contro uno con il portiere. Ma Gervinho non è Walcott, e la cosa non funziona. Altre volte viene impiegato come vice Giroud, ma neanche quello è il suo ruolo, e le cose vanno sempre peggio: i tifosi dell’Arsenal sono già da tempo insofferenti per le molte occasioni sbagliate, e Gervinho diventa la personificazione del giocatore in grado si sbagliare qualunque gol.

Il gol sbagliato per cui Gervinho è stato paragonato a Bobby Zamora, celebre sbagliatore di gol che si meritò anche lo stupendo coro: “When you’re sat in row Z, and the ball hits your head, that’s Zamora” (sul motivo di That’s Amore)

2. Il diritto di sbagliare
Ora, se avete capito come funziona Gervinho, sarà chiaro che la sfiducia segue alla sfiducia e ne genera altra, in un circolo vizioso che non si può spezzare se non ripartendo da zero: questo lo sa Gervinho, lo sa Wenger, e lo sa Rudi Garcia che se lo porta alla Roma. Quando ne parlano, tutti sottolineano questo aspetto, la peculiarità di Gervinho, la necessità di sentire la fiducia attorno per giocare: con Wenger non ha funzionato. La fiducia è il tema che torna sempre, lui dice: «mi avrebbe aiutato se Wenger avesse dimostrato più fiducia in me», e ancora: «lo rispetto come allenatore, e sono contento di aver giocato con lui. Ma con Garcia potrò giocare di più e avere più fiducia». Garcia non smette di dire che bisogna dargli fiducia. Anche Wenger dice di avere deciso di cedere Gervinho «perché era sfiduciato. Perché è un giocatore molto creativo, un dribblatore istintivo, e se giochi così devi avere un sacco di fiducia in te stesso per essere efficiente. Negli ultimi sei mesi per lui era molto difficile esprimere il proprio talento, la sua fiducia in sé stesso. Così mi sono chiesto: riesco a tirarlo su io o ha bisogno di una nuova sfida per ritrovare fiducia?».

Questa è la verità più elementare su Gervinho: per rendere ha bisogno di fiducia. Non per un vezzo, non per una debolezza di carattere. Ma perché è proprio il modo di giocare di Gervinho a richiedere riconoscimento, sicurezza, anche tolleranza. Il mestiere di Gervinho è creare occasioni dove non ce ne sono, creare superiorità numerica quando i difensori sono di più, creare – non rifinire o concludere qualcosa che già c’è – a scapito di quella che sembra la realtà di un momento di gioco. E quando tenti di battere la realtà, tante volte è la realtà che vince. Perciò Gervinho sbaglia, tenta, non riesce, qualche volta s’intestardisce. Ma non è un suo difetto, è più propriamente un danno collaterale. Gervinho deve sapere di avere la possibilità di sbagliare, deve sentirsi in diritto di sbagliare. Altrimenti diventa un giocatore inutile, uno come tanti altri (un giocatore simile, in Italia, è Alessio Cerci).

Creare occasioni dove non ci sono. “Gervinho non ha sostegno”. Un pallone innocuo sulla riga del fallo laterale, con sei avversari e nessun compagno in mezzo all’area.

3. Roma
Così Gervinho decide di tornare a fare quello che aveva fatto prima che arrivasse il giorno più bello della sua vita, e torna – per la terza volta – da Rudi Garcia. Roma è una piazza perfetta per ricominciare, ma al tempo stesso molto pericolosa. Perfetta perché è tutta la Roma a dover ricominciare, perché le aspettative sulla squadra – mai come quest’anno – sono basse. Perché se le cose cominciano ad andare bene, l’entusiasmo sarà enorme. E, chiaramente, perché c’è Garcia. Ma un posto, “una piazza”, pericolosa. Se a inizio anno le agenzie di bookmakers avessero accettato scommesse su quale era il primo giocatore che sarebbe stato fischiato dalla propria curva, non c’è alcun dubbio che Gervinho avrebbe avuto la quota più bassa. Un giocatore poco concreto (in un momento in cui i tifosi romanisti erano stufi di due anni di bel gioco inconcludente e bramavano cinismo), arrivato a Roma dopo un fallimento e con la reputazione di “cocco dell’allenatore”. Tanto più che lo scetticismo riservato a tutta la squadra ha in Gervinho il principale obiettivo: il paradosso di una città che di solito esalta qualunque giocatore dalle capacità questionabili, che ora ha fatto un bagno di realismo e non crede più a nessuno.

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La faccia di Balzaretti e Julio Sergio che dice «povero piccolo, non sai cosa ti aspetta». Del resto Gervinho ha sempre giocato in squadre con la maglia gialla o con la maglia rossa. Era destino che finisse alla Roma.

Per questo, perché le cose vadano bene, c’è bisogno che si mettano subito nel verso giusto. Ed è così che succede. Nelle prime partite Gervinho è devastante: fa anche gol e assist, ma soprattutto sembra imprendibile, tanto che per fermarlo devono strappargli la maglietta (come ha fatto Perez, del Bologna). Bastano poche giornate e tutti cominciano a studiare come limitarlo, non è il giocatore più decisivo, ma è certamente il giocatore che più costringe gli avversari a limitare il proprio gioco. Complice una maggiore attenzione degli avversari, complice un suo infortunio, complice un infortunio di Totti e il ritorno di Destro, Gervinho è un po’ calato. Ma non è preoccupante, perché oramai le cose hanno preso il verso giusto: l’emblema di questo è stata la partita con il Catania. Gervinho ha sbagliato due gol facili, uno facilissimo, e uno clamoroso. Poi, mentre tutta la squadra cercava di farlo segnare, ha segnato per sbaglio. Ljajic gli ha messo un pallone perfetto in mezzo, e lui ha svirgolato il pallone, che gli è finito sullo stinco, e ha preso un rimbalzo strano che ha superato il portiere. Lui non ha neanche esultato, ma tutta la squadra è andata ad abbracciarlo (è bello vedere la faccia di Totti, e soprattutto di Garcia, che dicono «ce l’abbiamo fatta»), mentre il pubblico esultava come se quello non fosse il quarto gol di una partita già vinta. Allora Gervinho che, evidentemente, si vergognava un po’ per il gol che aveva appena fatto e stava già tornando a centrocampo, si è voltato verso la Curva Sud e ha fatto un inchino. È per questo che, oggi, e contro molte possibili previsioni, Roma è l’ambiente perfetto per Gervinho. Quel genio pasticcione è stato adottato. Il fatto che sbagli tanti gol è diventato quasi una nota di colore. Perché se la Roma vince, siamo tutti felici. Ma se segna Gervinho, allora sì che la festa è completa.

«Vi adoro anch’io»

Garcia ora racconta che per lui «all’inizio è stato difficile, nessuno credeva fosse un buon acquisto». D’altra parte c’è una certezza: Gervinho gioca sempre. Garcia non lo toglie mai. Se c’è uno sicuro del posto non è Ljajic, né Florenzi. Non è Destro, e neppure Totti. È Gervinho. Ed è forse la nemesi perfetta che, in un suo momento di forma non eccezionale (che passerà, con l’arrivo della primavera, come è naturale per giocatori simili), in una partita in cui aveva fatto meno del solito, riesca a segnare con un tocco da centravanti contro la Juventus. Un gol che aveva provato a fare, esattamente identico, contro il Livorno, per poi svirgolare il pallone e regalare un assist involontario a Destro. Ma non è diventato un giocatore decisivo, lo è sempre stato.

4. Perché Gervinho è il giocatore più utile della Serie A
Gervinho è un giocatore molto particolare, Garcia non esagera quando lo definisce un giocatore “unico”, il che è assieme un pregio e un difetto. Anche il ruolo di Gervinho è molto difficile da stabilire, se vi capita di vederlo giocare, vi stupirete di quante volte finisca in posizione di centravanti. La migliore posizione di Gervinho è quella in cui può sempre ricevere il pallone. Questo non vuol dire che lo debba ricevere sempre, anzi, Gervinho è tutt’altro che un regista, e tocca molti meno palloni di altri giocatori che hanno caratteristiche simili. Ma è importante la possibilità di ricevere il pallone, perché questo costringe le difese avversarie ad adottare contromisure e, inevitabilmente, lasciare spazi. La sua caratteristica più immediata è certamente la rapidità. Ma questo è ciò che dà adito all’equivoco più diffuso su Gervinho, e cioè che sia un centometrista. Non è così. Certo, è un giocatore molto veloce, e lo può fare se c’è la possibilità di un contropiede.

Se vi ha impressionato quella contro l’inter, guardate questa

Ma Gervinho non è Bale, o Walcott, o Cristiano Ronaldo, specie con la palla. Anzi, per la velocità che ha, Gervinho è un giocatore che gioca con il pallone molto vicino ai piedi. Quando si allunga il pallone spesso sbaglia: spesso non sbaglia i tiri, proprio non arriva a tirare perché si allunga il pallone con i tempi sbagliati e il portiere (o l’ultimo difensore) lo anticipa. Al contrario di quello che fanno molti esterni classici, lanciare il pallone in avanti e rincorrerlo, Gervinho tenta sempre di avere il pallone nel raggio d’azione del suo calcio, vuole sempre avere la possibilità di cambiare direzione, di andare da un’altra parte. Se fosse un’automobile si direbbe che ha un’altissima “velocità massima”, ma che la sua qualità migliore è “l’accelerazione”. È velocissimo, ma ancora di più, è agile: per questo è così forte nello stretto, ama i triangoli (difficile trovare un giocatore così bravo nel dribbling e al tempo stesso così altruista), e accentrarsi.

Il dribbling di Gervinho, poi, è molto particolare. Non fa la classica finta di corpo, è raro che faccia un doppio passo. Ma se c’è un giocatore che “punta” l’uomo, quello è Gervinho. Lui avanza caracollando e saltellando verso il giocatore avversario, non deve ingannare il difensore suggerendogli il lato sbagliato, perché è abbastanza rapido da minacciarli entrambi. La finta di Gervinho non è “ti faccio credere che vado di qua, e poi vado di là”, la finta di Gervinho è “sto per partire, temimi”.

«Sto per partite, sto per partire, sto per partire. Ciao». È anche difficile scegliere un video illustrativo perché questo non è il tocco speciale di Gervinho: lui lo fa dieci volte a partita.

Probabilmente in Serie A c’è solo un giocatore così bravo, forse anche più bravo, nel dribbling da fermo: Juan Cuadrado. Ma Gervinho, rispetto a Cuadrado, è molto più bravo nel gioco senza palla, soprattutto nel trovare il tempo dell’inserimento alle spalle del difensore, caratteristica fondamentale per uno che gioca come lui (ogni tanto penso al livello di perfezione che avrebbero raggiunto con il Totti di qualche anno fa). È per queste ragioni che se viene schierato da ala pura, come ha fatto Wenger all’Arsenal, o anche come ha provato Garcia recentemente in un 4231 con Totti dietro a Destro, non dà il suo meglio. Naturalmente questo crea inevitabili problemi di collocazione, perché un allenatore si ritrova un giocatore che deve giocare vicino alla porta, ma che non ha la freddezza di un attaccante puro. Perciò l’allenatore deve decidere di sacrificare uno di quei due o tre posti vicino alla porta avversaria per un giocatore che non garantisce gol.

Ne vale la pena? La risposta di chi scrive è, evidentemente, sì. Non è soltanto il fatto che l’esistenza di Gervinho, anche quando apparentemente inefficace, libera spazi per gli altri attaccanti. Ma che questa costringe il gioco avversario e ne limita le soluzioni. Per questo Montella – che allena una squadra con un gioco ben definito, e perciò restia ad adattarsi agli avversari – ha detto, molto causticamente, «o lo leghi, oppure c’è poco da fare». Naturalmente non è vero, anche contro Gervinho ci sono delle contromisure. Bisogna “fare densità”, e cioè tenere i difensori vicini alla propria linea di porta e, ancora più importante, i centrocampisti vicini ai difensori (l’ha fatto la Juventus in campionato). In questo modo Gervinho non può ricevere palla nelle sue posizioni preferite, e lo si costringe ad andare a prendere il pallone largo o – più spesso – vicino al centrocampo. Allo stesso modo questo dà la possibilità di raddoppiare, anche triplicare, la marcatura quando gli arriva il pallone in una posizione più pericolosa. Ma, certo, la necessità di prendere tutte queste contromisure per un giocatore solo dà la misura della sua grandezza. Se al posto di Gervinho ci fosse stato Destro, la Juventus avrebbe certamente giocato diversamente e in modo più simile a come gioca nel resto della stagione. E stiamo parlando della squadra italiana nettamente più forte delle altre, non di una squadra che è abituata a difendersi dalle individualità avversarie.

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La
statistica più clamorosa di Juve-Roma 3-0 è stato il 100% di passaggi riusciti di Gervinho, come a dire: 1) ha preso palloni lontano dalla porta; 2) ne ha presi davvero pochi; 3) altro che diritto di sbagliare

Ovviamente difendersi in questo modo riduce enormemente le soluzioni offensive, e molto semplicemente non si può fare se si ha la necessità di segnare. Inoltre è una notevole spada di Damocle, non soltanto tattica, ma anche psicologica, l’idea di “non poter andare in svantaggio, perché altrimenti loro hanno Gervinho”. Ed è questo che rende Gervinho indispensabile al gioco di Garcia, oltre al fatto che – molto semplicemente – l’esistenza di Gervinho in campo rende la squadra avversaria più vulnerabile. Nelle prime 12 partite (quindi prima della sosta di novembre), complice il suo infortunio, la Roma ha giocato più o meno gli stessi minuti con Gervinho in campo (548 min) e senza Gervinho (534 min). Con Gervinho ha segnato 19 gol. Senza ne ha segnati 7. Nell’ultimo mese e mezzo, come detto, Gervinho – così come la Roma – è parzialmente calato, e la statistica si è un po’ riequilibrata: 1244 minuti con Gervinho, per 34 gol: cioè un gol ogni 36 minuti. 568 minuti senza, per 8 gol: cioè un gol ogni 71 minuti. Questo vuol dire che, anche quando non partecipa direttamente all’azione, con Gervinho in campo la Roma ha precisamente il doppio di possibilità di fare gol (senza contare che con Gervinho 90 minuti in campo la Roma ha giocato con Juve, Inter, Milan e Fiorentina, e senza Gervinho ha giocato contro Chievo, Udinese, Torino, Sassuolo). Per questo gli si possono perdonare le occasioni sciupate, perché come ha detto Garcia, “nel calcio, senza Gervinho, quelle occasioni non esistono”.

Ritratto del romanista incredulo

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In questi giorni l’AS Roma è prima in classifica: ha giocato 10 partite e ne ha vinte 10. È un record.

Per me, che ho sempre tifato contro la Roma, questo scenario dovrebbe essere, di per sé, una tortura. E invece non succede. E il motivo per cui non succede non è così immediato, ma ha a che fare con i due motivi per i quali io tifo contro la Roma, che sono uno serio e uno scherzoso.

Quello serio è che – essendo cresciuto a Roma – la larga parte dei miei amici è romanista, e il sale del calcio – per chi lo sa, per chi non dice quella sciocchezza che non si deve tifare contro – è proprio tifare contro le squadre dei proprî amici: io tifo contro l’Inter per prendere in giro Alex, Davide o Saverio (ma che m’importa di Mazzarri, Milito o Moratti?) aspettandomi lo stesso trattamento, quando accade l’inverso (piuttosto spesso, considerato che tifo la Fiorentina).

Quello scherzoso è che i romanisti sono i tifosi più partigiani e complottisti (in un certo senso, sono i più tifosi) che ci sono. Naturalmente la mancanza d’obiettività è piuttosto diffusa (eufemismo) nel calcio, ma quando c’è di mezzo la Roma, beh: ricordo partite perse dalla Roma nonostante numerosi episodî arbitrali favorevoli in cui i tifosi della Roma si lamentavano dell’arbitraggio; ricordo tonnellate di fischi a un giocatore della Roma che aveva appena fatto gol (!) e che sarebbe stato il principale artefice di una rimonta clamorosa; ricordo accuse di complotto del Palazzo «eh, ti pareva, ci odiano» per ogni rigore dato contro, anche il più lampante; ricordo prese di posizione come «Marco Motta è il nuovo Maldini»; ricordo argomenti a favore del «presi uno per uno i giocatori della Roma sono superiori al Barcellona».

E quest’ultima considerazione mostra un altro tratto del tifoso in generale, ma del romanista più di tutti: avere verso la propria squadra, e in particolare verso i nuovi acquisti, lo stesso atteggiamento dell’italiano che si è appena fidanzato con una splendida ragazza sconosciuta. C’è quel fondo di «ma davvero è toccato a me, posso essere così fortunato?» che alimenta la luna di miele del «non esiste una ragazza più bella di lei». Al tempo stesso, però, conoscendola poco c’è sempre quel latente e mai ammesso dubbio: «ma non è che mi tradirà?». E naturalmente, quando inevitabilmente succede, quando si scopre che Fabio Junior è uno scarsone, come Bartelt o Tetradze, il disprezzo, l’odio, il rinnegamento, la frustrazione: «ma come hai potuto farmi questo?»

Eppure. Eppure tutto questo non sta succedendo. Incredibilmente, in questi giorni, Roma è così serena, lieta, vivibile. Il tifoso della Roma è lì, che dentro ovviamente ribolle, ma è completamente diverso, quasi cambiato. Non dice spavalderie senza senso, non si lamenta degli arbitri, non se la prende con i proprî giocatori (guardate che l’equazione Gervinho+TifosiDellaRoma=Applausi è qualcosa che mette in dubbio i più elementari assiomi del mondo nel quale viviamo).

Direte voi: è perché la Roma sta vincendo, quando si vince si è tutti più buoni. Ma non è così. In questi anni la Roma è stata spesso forte, ancor più volte entusiasmante, e l’atteggiamento del romanista medio era quasi peggiore che nei momenti di sconforto, dato che quando sei davanti perdere uno o due punti può essere determinante: ancor più rancore per gli errori, ancor più complottismo su ciascun episodio arbitrale, ancor più ostinazione a rivendicare la forza della propria squadra, e l’ingiustizia del non essere primi in qualunque classifica immaginata dall’uomo. Lo Scudetto del 2001 fu l’apogeo di tutto ciò.

E invece tutto questo non succede. E sapete perché?

Perché il romanista, oggi, pensa di non meritarla questa posizione in classifica. Ma, badate bene, non è che pensa di non meritarla perché la Roma è così in alto giocando male o per episodî favorevoli: tutt’altro, la Roma sta giocando benissimo, con un’intensità completamente ignota al calcio italiano. I tanti che dicono che “sicuramente crollerà” non l’hanno vista giocare.

Il romanista pensa di non meritare questo primo posto perché l’unico vero criterio con il quale un tifoso valuta cosa merita o non merita sono le proprie aspettative. Ogni volta che la propria squadra compra un grande giocatore, o anche una possibile sorpresa, qualunque tifoso comincia a pensare che il mondo “gli deve qualcosa”. Che la vittoria sia a un passo e solo forze occulte possano toglierla: l’anno scorso ci siamo andati vicini, ora abbiamo anche quest’altro, non può andare diversamente.

Ma quest’anno, dopo due anni di sofferenze così diverse e così simili, nessun tifoso si azzardava a sperare niente. Non è che non si azzardava a sperare niente di simile. Non si azzardava a sperare niente. E basta. Lo scetticismo, quasi filosofico, aveva preso possesso della testa del tifoso romanista, una sorta di stoica – ma comprensibile – rassegnazione al male del mondo.

Poi vinci dieci partite e ti ritrovi lì, con la testa fra le mani, a domandarti: ma sta davvero succedendo?

E te lo domandi a bassa voce, per paura che gli Dei del calcio possano sentire e domandarsi: «ma davvero abbiamo permesso questo?», per poi ristabilire l’ordine naturale delle cose: quel posto lì davanti spetta a una strisciata, mica alla Roma. Così questo pudore, questo imbarazzo, che è del tutto trasversale a ogni romanista si trasmette in ogni atteggiamento: il lunedì mattina in ufficio, i commenti per strada, al giornalaio. In questi giorni il romanista abituato a chiedere al giornalaio «mi dà il Corriere», dando per scontato il “dello Sport”, fa anche questo sforzo di compostezza, chiede «mi dà il Corriere dello Sport».

Perché se dici il “Corriere”, metti che il giornalaio non capisce e ti chiede «dello Sport?»: lì sei già fregato. Già lì ti troverai a rispondere «sì», senza poter far nulla per evitare il «certo», o anche solo l’«ah», complice del giornalaio. E un “ah” complice è l’ultima cosa che il romanista vuole, di questi tempi. La forza della squadra, la striscia di vittorie, la Roma che gioca bene, il record, tanto-meno-dio-ce-ne-scampi-lo-scu…-quella-cosa-lì, non va nominata. Sta andando tutto troppo bene, troppo inaspettatamente bene, per azzardarsi a proferire una qualunque spavalderia che – ogni tifoso lo sa bene – potrebbe causare, in un solo istante, la disfatta.

Io c’ho provato eh! Ho provato a tirare fuori l’argomento: «allora, siete primi in classifica!»; un onesto «certo che è proprio forte Strootman» o anche solo un innocente «parliamo di calcio» incontrano inevitabilmente i «noooooo, di quella cosa lì non parliamo» dalle stesse persone che appena pochi mesi fa avrebbero tirato fuori un «Ahà, abbiamo battuto il Lecce 2-1 al 87° in contropiede». Ogni tifoso sente la responsabilità del dover tenere-i-piedi-per-terra: e se lo possono fare Florenzi e Ljajic, che hanno 22 anni, anch’io che ne ho 30 – o 40, o 50 – devo dare il mio contributo.

E io, che sono dall’altra parte, mi sento quasi orfano di quelle conversazioni. Ogni volta mi viene quasi da pensare: «eddài, e prendimi un po’ in giro, stai dodici punti sopra la Fiorentina, è tuo diritto». Ma niente, ogni mio amico romanista sa che non se lo può permettere quello sgarro, non può:  perché c’è qualcosa di molto più importante in palio. Quella cosa lì, insomma. E mentre si ritrova a pensare a «quella cosa lì», si rende conto di averla effettivamente pensata Quella-Cosa-Lì, e allora scaccia il pensiero più veloce che può domandandosi «sarà sufficiente?». Sarà sufficiente?

Serie A

Il calcio è tornato.


«È bello, è bello, è bello. Un anno di lavoro, abbiamo lavorato. Ma mi viene da piangere, mi viene da piangere per Franco».

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Oggi ho capito qual è il mio vertice di autoreferenzialità. Ho capito qual è il fatto che più denota il mio distacco dal paese reale. Ho capito qual è la cosa che, più di ogni altra, mostra come mi contorno di persone tanto simili a me quanto lontane dalla larga maggioranza degli altri individui.

Non è il fatto che conosco sì e no due persone che abbiano votato per Berlusconi; non lo è neppure il fatto che, nonostante ciò, la maggior parte dei miei amici non sopporta Travaglio; non è il fatto che la larga maggioranza delle persone che frequento non crede in Dio; non è che conosco diverse persone a cui non piace la cioccolata; non è che conosco tanta gente che ha votato per i Radicali, né che un sacco di miei amici difende il PD; non è che conosco almeno 5 persone la cui pizza preferita è la margherita con cipolle; non è che praticamente tutti sono a favore dei matrimonî omosessuali; ma neppure che praticamente a nessuno fa ridere Crozza, né le battute sul sesso; non è che i miei amici sanno che “la tua fidanzata s’innamora di un tuo amico” è colpa tua e non del tuo amico; non è che per diversi il ciclismo è lo sport più romantico del mondo, né che quasi tutti vanno pazzi per McDonald’s (o Burger King). Non è, non è, non è.

È, invece, che tutti i miei amici – ma tutti eh, non uno dell’altrove diffusissima mozione ha-solo-culo – considerano Filippo Inzaghi il miglior numero “9” degli ultimi 10 anni.

Lo spettacolare Pescara di Zeman

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Ho scritto questo articolo per il Post in cui spiego “ar popolo” cos’è il Pescara di Zeman e perché vale la pena seguirlo, è un po’ il contraltare di quest’altro post in cui spiego agli appassionati la stessa cosa. Lo metto anche qui, alla vigilia di Grosseto-Pescara. Ci sarò.

Per la seconda volta in dieci giorni, ieri, la squadra di calcio del Pescara ha vinto una partita per 6 a 0, prima contro il Padova e poi contro il Vicenza, ed è ora seconda in classifica in Serie B, posizione che gli garantirebbe la promozione in Serie A.

Il Pescara è allenato da ZdenÄ›k Zeman, un allenatore ceco che ha segnato il calcio italiano degli ultimi vent’anni a causa delle sue peculiari idee tattiche e della sua etica sportiva. Le sue squadre propongono un gioco molto offensivo e gradevole per il pubblico. Quando si batte il calcio d’inizio, per esempio, schiera otto calciatori sulla linea di centrocampo, tutti pronti ad attaccare. L’idea di Zeman è che soltanto con il bel gioco si vincono le partite perché “il risultato è occasionale, la prestazione non lo è”, una filosofia che in Italia è tradizionalmente minoritaria – “giocare all’italiana” nel gergo calcistico significa infatti concentrarsi sulla difesa. Per questa mancanza di cinismo Zeman viene spesso accusato di essere soltanto un esteta del pallone e di essere un perdente. Zeman è inoltre noto per aver denunciato, nel corso degli anni Novanta, l’eccessivo uso di farmaci praticato in Serie A, in particolare dalla Juventus. Per questo è riconosciuto dagli ammiratori come la faccia pulita del calcio italiano, e dai detrattori come un piantagrane in cerca di attenzioni.

Zeman è arrivato a Pescara l’estate scorsa ed è lì che sta completando la propria rinascita, dopo una carriera che negli ultimi anni sembrava essersi arrestata. L’anno scorso, appena promossa dalle serie minori, la squadra era arrivata al tredicesimo posto e le aspettative per questa stagione erano simili. Invece il Pescara si è subito proposto nelle prime posizioni della classifica, ottenendo ottimi risultati ed esprimendo il caratteristico gioco divertente e spregiudicato delle squadre di Zeman. Questo ha fruttato 80 gol fatti e 50 subiti: il fatto che la prima in classifica, il Torino, abbia segnato 49 gol, dà la misura dell’eccezionalità di questa squadra, riconosciuta anche dagli avversari. Nelle ultime due trasferte contro Padova (vinta 0-6) e Gubbio (vinta 0-2), partite in cui il Pescara ha attaccato dall’inizio alla fine, i tifosi delle squadre di casa hanno applaudito i giocatori del Pescara alla fine della partita, un evento molto raro nel calcio.

Un’azione peculiarmente zemaniana, con difensori e centrocampisti che partecipano all’attacco:

Uno dei motivi per i quali il Pescara sta superando i pronostici è la valorizzazione di giovani non ancora affermati, qualità nella quale Zeman è fra i migliori allenatori al mondo, avendo lanciato campioni come Totti o Signori. Quest’anno i giovani promettenti sono molti, basti pensare nell’ultima partita della Nazionale Under 21, vinta 4-1 dall’Italia sulla Scozia, ben quattro degli undici titolari erano giocatori del Pescara: Marco Capuano, difensore pescarese; Marco Verratti, altro pescarese, spostato da Zeman nel ruolo di regista arretrato e che la Juventus sta trattando come sostituto di Andrea Pirlo; Ciro Immobile, attaccante e attuale capocannoniere della Serie B con ben 26 gol; e infine Lorenzo Insigne, il nome che bisogna annotarsi, perché fra qualche anno ne parleranno tutti. Zeman l’aveva avuto lo scorso anno a Foggia, e l’ha portato anche a Pescara. È una seconda punta dalla tecnica strepitosa, ricorda il primo Antonio Cassano, o Sebastian Giovinco: ma, non è un’esagerazione, potrebbe arrivare più in alto.

Verratti “alla Pirlo”

Un gol strepitoso di Insigne, qui ce n’è un altro:

Alla fine del campionato mancano quattro giornate. Vengono promosse in Serie A le prime due classificate, mentre le quattro squadre che seguono disputano i playoff: partite eliminatorie per contendersi il terzo posto disponibile per la promozione. Per i primi due posti sono in corsa quattro squadre: il Torino a 73 punti, il Pescara a 71, il Sassuolo e il Verona a 70, la quinta è molto distaccata. Torino, Pescara e Sassuolo devono recuperare una partita. Il Pescara deve terminare la partita contro il Livorno che era stata interrotta sul parziale di 0-2 per la morte di Piermario Morosini, mentre Torino e Sassuolo giocheranno contro.

Finito il campionato, finirà anche il contratto che lega Zeman al Pescara, e diversi presidenti potrebbero prendere in considerazione l’idea di assumerlo per la prossima stagione: si era parlato dell’Inter e della Fiorentina, più recentemente della Roma e del Catania, ma queste sono speculazioni, o così si augurano i tifosi del Pescara che, naturalmente, sperano che Zeman rimanga. In ogni caso, quale che sia l’esito della lotta promozione, è probabile che l’anno prossimo rivedremo Zeman in Serie A. Il pronostico del Post è che arriverà primo il Torino, secondo il Pescara, e i playoff saranno vinti dalla Sampdoria. Zeman andrà al Palermo.

Le sintesi delle ultime tre partite, tutte molto spettacolari. Vale la pena specificare che queste sono le azioni di entrambe le squadre. È soltanto che il Pescara ne crea troppe di più.

Padova-Pescara 0-6

Gubbio-Pescara 0-2, con il Pescara che ha preso 4 “legni”

Pescara-Vicenza 6-0

Evidentemente a qualcuno ha fatto male, se scrivi queste cazzate

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Quando ho visto quello che ha fatto Delio Rossi, l’allenatore della squadra per cui faccio il tifo, mi sono messo quasi a ridere, archiviando il giudizio etico su una cosa così smaccatamente sbagliata da non doverne neanche parlare. Perciò non riesco davvero a credere che ci sia qualcuno che difende ciò che ha fatto Delio Rossi. Pensavo che “un ceffone non ha mai fatto male a nessuno”  fosse rimasto nella testa solo a qualche vecchio fascista che il tempo si porterà presto via. Invece leggo di no, leggo del “padre saggio che educa i figli”, “uno scappellotto ogni tanto, per insegnare la disciplina”, “lo sbarbatello impertinente”, e tutte queste cretinate.

Quindi ora dovrei scrivere un lungo post in cui spiego anche a quel vecchio fascista che non solo è sbagliato, ma non funziona neanche (il che non vuol dire che se funzionasse, diventerebbe giusto). Oppure un post breve, in cui provo a mettere dei punti fermi sacrosanti, quasi ovvî, ma questo l’ha già fatto perfettamente Francesco. Un altra possibilità sarebbe raccontarvi di quando ero in Palestina, e di come – lì dove l’educazione violenta è una costante – fosse così tremendamente ovvio quali fossero i bambini che venivano picchiati dai genitori, perché erano quelli a loro volta più violenti, più bugiardi, più incattiviti. Oppure ancora, siccome l’esperienza personale non è mai un buon metro per giudicare una vicenda, potrei andare a cercare tutti gli studî psicologici e sociologici che dimostrano com’è del tutto assodato che un’educazione violenta rende un bambino più portato alla violenza, alla delinquenza, ai comportamenti antisociali (negli USA fanno molti di questi studî, perché nella Bible Belt ci sono scuole che permettono le punizioni corporali).

Però non c’ho voglia di fare nulla di tutto ciò, e la ragione è che non ce la faccio a discutere con un tavolo della sala da pranzo. Quindi mi limito a postare la cartina delle nazioni dove lo Stato, il saggio padre di famiglia, adotta punizioni corporali nei confronti dei proprî cittadini irriguardosi: devono essere bei posti dove vivere, se adottano questo metodo educativo sano ed efficace. Diciamocelo, non ha mai fatto male a nessuno.

Fra gli Stati nei quali sareste lieti di educare i vostri figli spiccano Paesi come: Afghanistan, Arabia Saudita, Iran, Nigeria, Pakistan, Somalia, Sudan, Tanzania, Yemen.

Pensare male

Questa è una piccola postilla-anticipata a un post molto più lungo e articolato che dovrò scrivere un giorno. È un tema di cui ho parlato a tante persone, quindi tante di queste si sentiranno destinatarie di quello che sto scrivendo (una in particolare, L., ha più ragione di altri a pensarlo, anche perché gli sono in debito di un’email sentita, voluta e faticosa).

Oggi stavo seguendo la partita del Pescara di Zeman, e la stavo commentando su internet con altri amici tifosi di Zeman. Uno di questi, che non conoscevo e la cui identità è irrilevante, ha scritto (a proposito di un gol): «da approfittarne o da sospettarne – ma io sospetto sempre». Io ho risposto «non te ne vantare, almeno, di sospettare sempre». Lui mi ha chiesto «perché non dovrei?». Io, pensando di fare leva sul sentimento calcistico e scherzando un po’, ho detto: «perché non penso che Giulio Andreotti sia l’intellettuale di riferimento per uno zemaniano». Lui ha risposto che per chi segue il calcio «il sospetto non è un’opzione, è un dovere».

Perché ve lo sto raccontando? Perché novanta secondi dopo, la stessa persona, ha aggiunto: «Si vedono le prime morti improvvise e resurrezioni miracolose», facendo del sarcasmo sulla simulazione che, secondo lui, un giocatore del Livorno stava compiendo. Solo che quel giocatore è rimasto a terra più del previsto. Io ho aggiunto: «ecco, vedi che figure di merda si fanno a sospettare sempre?». Poi è arrivata la barella. Poi l’ambulanza. E poi Morosini è morto.