Perdere l’umanità

Ieri è successa una cosa che mi ha intristito e fatto arrabbiare con me stesso. Mi sono domandato se avesse senso raccontarla qui, in fondo è un luogo pubblico. Ma è anche il mio diario, perciò – ho pensato – non mi devo fare troppi problemi a raccontare i miei stati d’animo. Mentre lo faccio, mi rendo conto che c’è un rischio di essere narcisista nello scrivere questo post, perché mi aspetto reazioni di sostegno, e invece penso di meritarne di diverse. Vabbè, non c’è modo di uscirne.

Ho deciso di lavorare al negozio perché penso sia una delle attività più importanti per il buon andamento del campo, e perché penso che il mio contributo lì sia importante: ho sviluppato il file excel con cui viene gestito, e sono il responsabile dell’amministrazione. Stando qui da un po’ di tempo, poi, è normale che i nuovi volontarî abbiano me, e gli altri più esperti, come punto di riferimento su cosa fare.

Non è però il lavoro più appagante – anche per questo mi ritaglio il tempo per giocare con i bambini – perché la maggior parte delle volte si tratta di dire dei “no”. Tutti sono estremamente insistenti, e l’operazione di “fare il cattivo” a fin di bene è spesso molto sfiancante. Bisogna dire tutti questi no perché chiunque salti la fila ritarda il momento in cui tutti gli altri, quelli che non provano a saltarla, avranno i vestiti. Allo stesso modo, una volta che qualcuno ha avuto i proprî vestiti deve aspettare che tutti gli altri abbiano avuto il proprio turno per averne degli altri o fare dei cambî.

Ma ogni giorno ci sono decine e decine di persone che vengono a domandare di saltare il proprio turno, alcune delle quali insistendo per moltissimo tempo: è una cosa triste ma in parte inevitabile, anche perché spesso chi fa lo stesso lavoro in maniera meno attenta ai più deboli – come, ad esempio, l’esercito turco con cui tutti hanno avuto a che fare – “premia” i cattivi comportamenti per non avere problemi: gli do quello che vuole, così non mi scoccia più. Così facendo tutti sono incentivati ad adottare questo comportamento, e i meno prepotenti finiscono sempre per avere la peggio.

Quello che è successo è che, quando il negozio era già chiuso, è venuto un ragazzo a chiedere di avere i proprî vestiti: io lo conoscevo, mi avevano detto che “bisognava trattarlo bene” perché era amico dei boss del campo (sì, c’è un gruppetto di profughi che viene chiamato scherzosamente “the mafia”). La cosa mi aveva già disposto male nei suoi confronti. Inoltre era venuto nell’orario di chiusura, istituzione che cerchiamo di rispettare, perché il luogo dove c’è il negozio è anche il luogo dove serviamo la cena e la sovrapposizione delle due cose crea significativi problemi logistici.

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La fila per la cena, l’entrata dell’hangar dove i volontarî stanno dando il cibo è anche l’entrata del negozio

Gli ho spiegato che era l’orario di chiusura, e che non diamo vestiti quando il negozio è chiuso. Tanto più che oggi non era neppure il suo turno. Lui ha detto che la volontaria che era stata lì la mattina gli aveva detto di tornare a quell’ora, cosa in effetti molto strana: ho controllato e non era vero. Una volta che ha visto che la bugia non aveva funzionato, e che non avrebbe avuto degli altri vestiti, mi ha detto che aveva bisogno di mutande perché gliele avevano rubate. Vista la precedente bugia non mi sono fidato, e gli ho detto di no, che sarebbe potuto tornare il giorno dopo.

Lui ha insistito, insistito, insistito e io ho continuato a dire di no fino a che i ragazzi che lavoravano con me mi hanno fatto ragionare sul fatto che, effettivamente, poteva essere vero che gli avevano rubato le mutande e che aveva senso fare un’eccezione per lui. Dopo una lunghissima discussione, appena gli abbiamo dato le mutande, è andato via.

A posteriori penso che, indipendentemente dalla prima bugia, stesse dicendo la verità, che le mutande gliele avessero davvero rubate, e che avesse approfittato della questione per chiedere altre cose, sperando che gli andasse bene. Io, lì per lì, non me ne sono reso conto e, probabilmente, se non fossero intervenuti gli altri volontarî non gliele avrei date.

È come se dentro di me fosse partito un software che mi faceva reagire a ogni stimolo senza riconsiderare, ogni volta, le circostanze. In altre parole, è come se avessi perso l’umanità. È il contrario della banale, e sbagliata, dicotomia fra emotività e razionalità: qui era l’emotività a farmi dire «no» e sarebbe dovuta essere la razionalità a farmi analizzare le cose serenamente, cosa che – evidentemente – non sono riuscito a fare. In fondo era solo un ragazzo che aveva bisogno di mutande.

Ci sono due cose che mi preoccupano del mio comportamento: la prima è che una persona più disponibile e meno insistente sarebbe tornata alla propria tenda senza mutande; la seconda che mi sembra di non avere gli strumenti per capire l’istante esatto in cui dal dover dire no a tutti si può far un’eccezione. Ora erano le mutande. E i calzini? E una maglietta? E se facciamo eccezioni per tutti cosa succede a chi rispetta la fila?

Non so dare risposte a queste domande e mi rendo conto che è un problema banale, che si verifica in tanti altri contesti. So solo che ieri sono andato via dal campo con una sensazione di disagio addosso.

9 Replies to “Perdere l’umanità”

  1. Una delle prime cose che si imparano nei corsi di tecniche di relazione di aiuto è proprio la necessità di accogliere e tollerare i propri sentimenti di impotenza , inutilità, negatività. Le situazioni estreme mettono a nudo i nostri limiti, i nostri pregiudizi, i nostri sentimenti negativi e le cose di noi che non ci piacciono. Riconoscerle è un ottimo punto di partenza per superarle ed essere migliori, la volta successiva. L’amaro dalla bocca non te lo leva neanche lo zucchero candito, però. Ahimè, tocca conviverci e sapere che da lì si deve ripartire.

  2. Capisco la sensazione di disagio, ma secondo me in realtà non ne hai motivo.
    Intendo: se vogliamo, dal punto di vista morale hai fatto bene in entrambi i momenti, prima dicendogli di no e poi, quando gli altri ti hanno aiutato a ricalibrare il giudizio, a dire sì.
    E’ un po’ la distinzione (mi pare che ne parli Habermas, da qualche parte) fra il fondamento e l’applicazione del giudizio: da un punto di vista di principio, non c’è modo di argomentare che è sbagliato dire “no”. Dal punto di vista formale, l’unica posizione universalizzabile (e quindi “corretta”) è per l’appunto quella che dice “no” per tutti i motivi che hai ricostruito benissimo tu stesso. Quindi, moralmente non se ne esce: hai ragione a dire no.
    Ma il punto è che quello è solo il momento del fondamento del giudizio, a cui segue quello dell’applicazione, che però a volte (anzi, spesso) in qualche modo diverge o è più complesso rispetto al fondamento – banalmente: non viviamo in un esperimento morale di filosofia morale, quindi può succedere e anzi succede spesso che dover applicare il giudizio morale trasformandolo in un’azione concreta porti ad agire in modo un po’ diverso rispetto a quanto il fondamento prescriverebbe.
    C’è un contesto, cioè, che col tempo iniziamo a comprendere meglio, a individuare con più chiarezza, magari proprio grazie all’aiuto di altri che hanno una maggiore esperienza in quel contesto lì (e quindi sono magari più “bravi” a riconoscere i dettagli della situazione che abbiamo di fronte): e questo ci permette di ricalibrare il nostro giudizio morale, a passare dal fondamento del nostro giudizio all’applicazione – e magari a passare dal dire “no” perché è “no a tutti” a dire “sì, a te e questa volta”. (Per farti arrabbiare: un po’ il concetto kantiano di “buona ragione”, che ci permette di flettere un po’ l’imperativo categorico).
    Il nostro senso di giustizia, insomma, è proprio la continua raffinazione della nostra capacità di disinguere i diversi contesti in cui dobbiamo agire moralmente, ma questa cosa possiamo farla solo in parte “da soli”, perché l’altra parte richiede necessariamente che “entriamo in contatto” con il contesto che abbiamo di fronte – quindi anche grazie agli altri, che ci rivelano cose e circostanza che magari ignoravamo, e dunque ci aiutano a costruire un quadro sempre più dettagliato del contesto. Come diceva Stanley Cavell, ci sono contesti di “giustizia” e contesti di “cura”: e parte del nostro senso morale è anche e proprio sviluppare la nostra capacità di distinguerli.

  3. Giovanni, sei un essere umano! Va bene analizzare quello che hai provato e la tua reazione. Però, non provare disagio e non essere scontento, non ne hai motivo. Decidere è faticoso, e arriva un momento in cui, banalmente, non ce la fai. Forse sono semplicistica, ma io la vedo così.
    Ciao!

  4. Edoardo scrive::

    Tu riusciresti a mettere Habermas anche dentro alla ricetta delle melanzane al forno!

    Intendo: se vogliamo, dal punto di vista morale hai fatto bene in entrambi i momenti, prima dicendogli di no e poi, quando gli altri ti hanno aiutato a ricalibrare il giudizio, a dire sì.

    Il problema è che: “Io, lì per lì, non me ne sono reso conto e, probabilmente, se non fossero intervenuti gli altri volontarî non gliele avrei date.”

  5. @ Giovanni Fontana:

    Il problema è che: “Io, lì per lì, non me ne sono reso conto e, probabilmente, se non fossero intervenuti gli altri volontarî non gliele avrei date.”

    Ma il mio punto è proprio quello: è grazie all’ “esposizione” agli altri, all’aiuto che ricaviamo dal far parte di una comunità di persone (e quindi, per esteso, di una società) che riusciamo a raffinare il nostro senso morale e la sensibilità a contesti diversi che possono richiedere azioni diverse, ma tutte “morali” o moralmente giustificabili. Se non fossero intervenuti gli altri, avresti tenuto un comportamento moralmente corretto, perché in linea ai principi formali di universalizzazione che stanno alla base del giudizio morale; avendoli ascoltati, però, hai potuto raffinare la tua sensibilità al contesto specifico che richiedeva, probabilmente, un’azione diversa. E ora che li hai ascoltati, potrai riferirti a questa situazione come esempio per problematizzare altre situazioni simili in cui ti troverai – che è esattamente il modo in cui grazie agli altri ci alleniamo a distinguere i diversi piani dell’agire morale, e a sviluppare una capacità di giudizio morale sempre più sofisticata.
    E comunque Habermas fa delle melanzane al forno della madonna.

  6. Non c’è purtroppo un istante per passare dal dover dire di no a tutti a poter fare un’eccezione: le giuste regole devono essere rigorosamente applicate e fatte rispettare,ma anche, in casi eccezionali, interpretate proprio perché rimangano giuste.
    La scelta può essere estremamente difficile ed indurre ad errore, non resta che sperare di non sbagliare dopo aver fatto tutto il possibile, in piena coscienza e in spirito di giustizia.
    Giolitti scriveva che le regole sono ferree per i nemici, interpretabili per gli amici .
    Unico caso nel quale sentirsi davvero in colpa. Altrimenti ,coraggio e ancora buon lavoro

  7. Riprendo per una precisazione che peraltro ritengo superflua: la frase di Giolitti che ho sopra riportata è -ovviamente- usata in senso amaramente ironico

  8. Temo che l’unica soluzione sicura sia quella di stabilire regole strette condivise con I rappresentanti dei vari gruppi/etnie, condivise quindi nelle scelte e nelle responsabilita’per evitare interpretazioni fantasiose a seconda di chi e’ presente al negozio.Giovanni con la sua conoscenza profonda del campo potrebbe non essere sempre presente per garantire un atteggiamento coerente e di rispetto delle regole, base del vivere in una comunita’ democratica

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