Dentro una barzelletta

La dovuta premessa è che io sono un tipo piuttosto ingenuo rispetto alle furberìe – è più facile che mi accorga di cosa si pensa intorno, piuttosto che di cosa succede intorno. Però, almeno, sono consapevole di questa poca avvedutezza e le cose di valore, il portafoglio, l’iPod, il cellulare, li tengo in tasche interne, così dove non arriva la mia percezione, arriva l’impedimento fisico.

Ieri, a Bologna: ero in strada, la sera, per una di quelle vie affollate dove ci sono molti giòvani a gruppi. Avevo staccato le cuffie dell’Ipod perché in treno ci leggevo degli articoli che m’ero salvato nelle note, e sprovvedutamente le avevo riposte nella tasca esterna. Così, a un certo punto Saro, che era con me, mi dice «guarda, quello lì t’ha messo le mani in tasca». Controllo tutto, ma ho tutto: tranne le cuffie. In un primo tempo non me ne accorgo, poi sì.

Torno da questo, che era in gruppo con altri magrebini. Lui marocchino, scoprirò. Prima nega, anche un po’ arrabbiato, poi prende e se ne va. Allora lo seguiamo, e gioco il jolly. Al collo aveva il kafiah, quindi inizio a dirgli le stesse cose in arabo-palestinese, usando quelle poche parole che mi ricordo. Dài, amico mio, sono un volontario per la Palestina, me l’ha regalate una persona a cui tengo, facciamo che ti sono cadute in tasca, come ti chiami?, sù Aziz!

In effetti baravo un po’, ma il tentativo diplomatico è andato a buon fine: prima mi offre una ricompensa – vuoi un po’ di fumo, mi dice, al mio rifiuto insistito (che genererà malumori nella compagnia) fa: vabbè dài, e tira fuori da un cassone un sacchetto dove c’erano le cuffie, appunto. Come ci fossero finite, proprio non lo so, perché l’avevo tenuto d’occhio tutto il tempo. Però, insomma, è finita bene: mi ha anche offerto una birra, e non sono stato a dirgli che è fadiha, peccato.

Allora; c’è un topo che sta passeggiando ignaro, quando un gatto ringhiante gli piomba addosso: il topo, invece di fuggire, fa «miaaaao». Il gatto si gira, e se ne va. Al che i topi compari corrono da lui a chiedergli: «ma come hai fatto?». Lui: «me lo dicevano sempre che è importante sapere le lingue».

Passioni smodate

Oggi mi ha telefonato un amico di lunga data (quello che aveva partecipato alla stesura della Fiera delle banalità, molto tempo fa, poi) mi ha scritto tre e-mail a un indirizzo sbagliato, senza ovviamente riceverne risposta. Un’amica comune, anch’ella di piuttosto lunga data, gli ha commentato: «Se non ti risponde neanche alle e-mail su Obama vuoldire che il vostro rapporto è proprio finito»

Mutando vita

Lorenzo Cairoli racconta della Roma dei barboni che ho avuto modo di conoscere anch’io, lavorandoci, lo scorso anno:

a Roma ci sono tutte le mense che vuoi. Ho un amico rumeno che a Brasov faceva l’autista di pullman. A Natale si è ritrovato la casa infestata da parenti: volevano vedere Roma, il Colosseo, il Papa e Piazza San Pietro. Per un mese li ha scarrozzati da Trigoria ai Fori Imperiali e a colazione e a cena gli ha fatto fare il giro delle mense romane.

La Roma di Veltroni (ma anche della potentissima Caritas) era anche questa, piena di cooperative dai vertici molto compromessi, che però svolgevano il proprio lavoro. E, dopotutto, lo svolgevano bene. Grazie alla sensibilità delle persone che ci lavorano dentro, spesso molto poco professionali, cosa che in fondo si rivelava essere un bene. Perché in quelle situazioni non ci sono molte regole. Ci puoi trovare di tutto, e devi essere sempre pronto: anche senza il manualino. E anche di tutti: il soldato che fa il doppio lavoro senza dirlo ai propri capi in caserma, l’assistente sociale che fa la gavetta, quella che la gavetta l’ha già fatta ma non ha ancora trovato un posto fisso e arrotonda così, il giornalista che vuole provare l’esperienza, e poi i tanti stranieri: il bulgaro che è venuto con la famiglia e fa il portiere, l’eritreo che viene da Lampedusa e dall’essere quasi morto di sete in Sudan che dice «no, a casa non voglio tornare: Italia mi piace», l’albanese che studia giurisprudenza e si paga così l’affitto.

Sempre Cairoli:

Verso dicembre le cose miglioreranno un po’, perchè scatterà l’emergenza freddo e allora per chi dorme in strada potrebbero spalancarsi le porte del paradiso: un letto in un centro o su un pullmino, invece che dormire nel vagone di un treno, su una panchina della Termini, in una macchina, o su un permaflex di cartoni.

Accusavano Veltroni di buonismo, che tante iniziative buone fossero solo di facciata (in effetti l’emergenza freddo è durata esattamente sino al giorno delle elezioni) , ma che intanto ci sono, o c’erano.
Non so come sia la nuova Roma di Alemanno da questo punto di vista, a quanto mi dicono i miei ex-colleghi sembrano esserci pochi cambiamenti, ma tutto deve ancora cominciare.

Anche nella sfiga occorre fortuna. Morale: se proprio devi finire in strada cerca di finirci quando c’è l’emergenza freddo.

Io so che l’anno scorso, all’emergenza freddo, specie nei mesi di gennaio e febbraio erano molti più quelli che eravamo costretti a buttare fuori che quelli a cui riuscivamo a trovare un posto. Non voglio immaginare come sia ora, se davvero hanno tagliato tanti altri c’entri d’accoglienza.

Sono tornati tutti a Brasov più in carne di come erano partiti. Il problema qui non è mai il cibo.

Eh sì: se volete aiutare una struttura come questa non portate cibo, ce n’è tanto, e tanti ne portano – per fortuna: c’è il barista che allunga la strada dopo aver chiuso il bar per consegnare i panini non consumati, oppure c’è quello della parrocchia che raccoglie il cibo e lo porta ogni domenica. Non portate neanche giacche, o piumoni, maglioni. Anche quelli ci sono. Ce ne sono tanti, ognuno ha un maglione di cui disfarsi. Portate scarpe, ma soprattuto mutande. Mutande e calzini, quando uno che è finito in strada smette di cambiarsi le mutande è il principio di un barbone, quando un barbone comincia a potersele cambiare, è il principio di una nuova vita. Perché c’è chi ci riesce, a farsi una nuova vita. Portate le mutande e i calzini, perché nessuno ci pensa mai, e mai se ne trovano.

Vittoria

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N.E. sta per Nonna Elisabeth. Ha due gambe meno forti di un tempo e 86 anni, è diventata americana 70 anni fa, allorché fu costretta a fuggire dalla Germania.
Quando ho letto questa e-mail – in un istante – ho capito veramente cosa vuoldire “la Storia siamo noi”.

Questo giorno, per me, è per lei.

p.s. così, nel titolo c’è l’altra mia nonna.