Cosa pensare delle proteste in Turchia

per Il Post

Questo post dà per scontante diverse cose che avevo spiegato in questo post–bignami, se non l’avete letto è meglio leggerlo per primo.

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È molto difficile analizzare e interpretare il corso e il significato di queste proteste in Turchia. Ed è soprattutto difficile decidere da che parte stare. In realtà è molto facile capire da che parte non stare, quella di Erdogan, per motivi fin troppo ovvî: l’autoritarismo, la rivendicazione del ruolo della religione in politica, la soppressione del dissenso. Ma la grande incognita è: la parte degli altri che parte è?

Questo non l’ha capito nessuno. È una protesta libera e confusa, caotica e disorganizzata, questa è la sua forza, ma anche la sua debolezza. Le stesse fazioni protagoniste delle manifestazioni sono combattute fra il cercare di mostrare un’immagine – più efficace – di una protesta coesa e unitaria, e il tentativo di orientare la protesta a beneficio della propria fazione.

COSA NON VA, SONO POCHI
La prima cosa da non dimenticare è anche la più semplice: questa è una protesta di minoranza. Non si tratta di un giudizio di valore, ma squisitamente numerico. L’AKP, il partito di Erdogan, ha preso il 50% alle scorse elezioni, e nessuno mette in dubbio che sia tutt’ora maggioranza nel Paese – i sondaggi lo dànno addirittura in crescita.

Nel Parlamento turco ci sono 4 partiti, BDP (sx, curdo), CHP (csx, kemalista), AKP (cdx, islamico), MHP (dx, nazionalista): tre di questi, che insieme fanno il 45% dell’elettorato, hanno moltissime differenze, e come unico punto in comune quello di opporsi al quarto partito, che da solo ha più voti di loro. Quelli che manifestano oggi sono coloro che si oppongono a questa egemonia.

Si è parlato anche della fondazione di un nuovo movimento a partire da queste manifestazioni, ma proprio per le stesse ragioni è difficile immaginare quale ne possa essere la base politica, tanto più che la legge elettorale turca scoraggia questo tipo di iniziative (con uno sbarramento al 10%). È possibile che le manifestazioni di questi giorni spostino parzialmente gli equilibrî politici descritti sopra, ma per fare sì che abbiano una vera rilevanza, le opposizioni dovrebbero accordarsi in una comune agenda politica, cosa che – molto semplicemente – non può succedere.

COSA NON VA, SONO TROPPI
La protesta è cominciata dall’iniziativa di un deputato del BDP per impedire la distruzione di un parco a Istanbul; pochi giorni dopo la sede del BDP di Smirne, la principale roccaforte del CHP, è stata presa a sassate (mentre quella dell’AKP è stata data alle fiamme) da quelli che – in teoria – sarebbero gli stessi dimostranti.

In molti, specie fra curdi e ambientalisti, è cominciato a maturare un sentimento di insofferenza e mutilazione per la cannibalizzazione delle manifestazioni da parte dei kemalisti (CHP), e più in generale delle forze nazionaliste (MHP): lo slogan più diffuso è «Erdogan dimettiti», ma il secondo è «siamo i soldati di Mustafa Kemal», cioè Ataturk, e il terzo è «beato chi si può definire turco».

Le manifestazioni sono gonfie di bandiere turche e di ritratti di Ataturk: si può manifestare contro un governo sventolandone la bandiera? E si può manifestare assieme ai rappresentanti di un popolo – quello curdo – che è stato annullato, deportato, e ucciso sotto l’ordine diretto di un personaggio storico, sventolando il vessillo di quello stesso personaggio storico?

È probabilmente inevitabile, e forse anche auspicabile, che in un tipo di protesta come questa si convoglino diverse prospettive, speranze e pretese; ma la reciproca diffidenza delle varie anime che manifestano, e la contraddittorietà delle ambizioni che spingono curdi, laici, militari, nazionalisti e ambientalisti a manifestare, rendono molto difficile che ciascuna di queste istanze si concretizzi in una rivendicazione comune e soprattutto concreta. La società turca è troppo frammentata, balcanizzata in gruppi ideologici e identitarî, e così lo è la parte di Turchia che si oppone all’AKP, con fazioni che si guardano vicendevolmente con ostilità – anzi, inimicizia – e, su alcuni temi, sono anche più vicine all’AKP che fra loro.

COSA VA
Sembra una battuta, ma non lo è: questa è una delle poche volte, almeno in Medio Oriente, che chi scende in piazza vuole meno Dio in politica rispetto a chi è al potere. Chi protesta, protesta – anche – contro una legge che vieta gli alcolici durante le ore notturne, contro scuole elementari sempre più confessionali, contro un’islamizzazione simbolizzata, in questi giorni, da un episodio di cui si è parlato molto in Turchia: il divieto, espresso da un funzionario dell’AKP di Ankara, a due ragazzi di baciarsi in pubblico.

Questo fattore – quello della lotta popolare per la laicità – è ancora più importante in Turchia, dove per decenni c’è stata una parte politica, quella che ora sostiene l’AKP, che si è sentita defraudata della propria legittimità popolare, attraverso i colpi di Stato dell’esercito; questo ha fatto sì che fino a pochi anni fa la lotta per la laicità delle istituzioni sia sempre stata associata – anche simbolicamente – all’autoritarismo. Qualunque turco laico si è sentito spesso accusare di essere “al soldo (o schiavo) dell’esercito”.

Inoltre, per la stessa ragione la risposta alle due domande sopra potrebbe essere, genuinamente, «forse sì». È possibile manifestare contro un governo portando la bandiera di quello stesso governo? È possibile che rappresentanti di un popolo sfilino assieme a chi inneggia al padre della patria che ha, coscientemente, annichilito quello stesso popolo? Forse sì. Forse in Turchia, uno dei Paesi più nazionalisti al mondo, è addirittura necessario.

L’affezione, che spesso sfocia in suprematismo, è una parte imprescindibile della storia e dell’identità turca, e muove moltissime scelte politiche, militari ed economiche. Per fare un esempio poco conosciuto in Occidente, i turchi finanziano la costruzione e il mantenimento di numerose scuole turche all’estero (i figli dell’aristocrazia in molti Paesi arabi o ex sovietici vengono mandati alle scuole turche, come un tempo accadeva per quelle francesi), nel nuovo Iraq sono già 30.

Si può considerare negativamente il nazionalismo, o molto negativamente come faccio io, ma una maggiore integrazione di una società estremamente polarizzata, quasi atomizzata, non può che passare attraverso la costruzione di un’identità condivisa. È un processo che, come dicevo, molti Paesi europei hanno fatto uno o due secoli fa, ma che in Turchia non è mai avvenuto, anzi manca del tutto: ci sono i turchi “bianchi”, i turchi “neri”, e i curdi (oltre a mille altre minoranze intrecciate, spesso tutt’altro che piccole, come gli aleviti). E, naturalmente, questo ipotetico processo di identificazione collettiva dovrebbe passare anche attraverso una perdita di memoria. Come diceva Renan, raccontarsi delle frottole sul proprio passato è parte essenziale dell’essere una nazione.

COSA SUCCEDERÀ, I PERICOLI
Nel breve termine i pericoli sono molto chiari, e di speranze se ne vedono davvero poche. La cosa più probabile è che queste proteste si disperdano via via e, lentamente, muoiano nella constatazione che nulla sta cambiando concretamente. Tranne nell’ipotesi, oggi molto remota, di una nuova discesa in campo dei militari, è molto difficile che queste proteste operino un cambio di regime, rispetto a un partito che ha tuttora una solidissima base elettorale.

Se è vero che l’AKP ha ancora un largo consenso, è anche vero che Erdogan ha fatto molti errori nella gestione di queste proteste. Ha mantenuto, e anzi rivendicato, un pugno duro contro i manifestanti che lo ha identificato – non a torto – come il principale responsabile del comportamento della polizia. In questo senso Erdogan sta giocando molte delle sue carte in un gioco particolarmente rischioso, che potrebbe tranquillamente perdere se un altro membro dello stesso partito – o di quell’area culturale – decidesse di prendere una posizione più dialogante, come il presidente Abdullah Gul aveva accennato a fare durante la prima settimana di proteste.

Ma il vero pericolo per Erdogan non è costituito da Gul, personaggio notoriamente più moderato e meno populista, ma suo amico personale e riconosciuto contraltare. Piuttosto, una figura da tenere presente è Fetullah Gulen, guida del “Gulen movement”, un movimento religioso che – attraverso i suoi aderenti – costituisce la base di una buona parte del consenso dell’AKP. Se si vuole fare una similitudine spericolata, solo per capire da una prospettiva italiana, si può dire che se Erdogan ha molto di simile a Berlusconi, il Gulen movement ricorda una turca Comunione e Liberazione, ma più potente e con un peso politico molto maggiore (molto maggiore, sì, avete capito bene). E sarebbe un paradosso che da una protesta che ha come tema cardine la laicità, ne traesse giovamento un leader religioso.

Il rischio maggiore, però, è certamente quello che l’indebolimento di Erdogan possa minare il processo di pace fra Stato turco e milizie curde, firmato recentemente da Ocalan (capo del PKK in prigione) e lo stesso Erdogan, certamente la miglior cosa fatta dal primo ministro turco negli ultimi anni. Sia il CHP che i nazionalisti, com’è tradizione, si sono detti contrari a questo processo di pace, e anche Gulen ha sempre espresso alcune riserve. Una perdita di forza di Erdogan potrebbe mettere un freno alla realizzazione dei successivi passaggi dell’accordo, quelli più impegnativi per lo Stato turco dopo il ritiro – avvenuto come da patti – delle milizie del PKK dalla Turchia. Questo sarebbe un vero disastro.

COSA SUCCEDERÀ, LE SPERANZE
Come detto, nel breve termine si stenta a vedere una possibile evoluzione positiva di queste proteste, specie dopo il corso, ancor più autoritario e repressivo, scelto da Erdogan. Forse, però, alzando lo sguardo un po’ più lontano si può riuscire a intravvedere qualche speranza.

Il grande dibattito sulla società turca, quello più interessante e più gonfio di significati profondi e conseguenze ideali, è sempre stato quello sul kemalismo: il processo, profondamente riformatore e secolare, ma al tempo stesso autoritario, di Ataturk è stato un successo oppure no? Ataturk ha tentato, nello spazio fulmineo di una di un paio di generazioni, di modernizzare – sul modello europeo – una delle società più conservatrici del tempo, quella ottomana.

Per forzare quegli stessi processi che negli Stati Europei avevano impiegato due secoli, ha usato un autoritarismo oligarchico. Ha fatto pulizia etnica, ha soppresso il dissenso, e ha cercato di escludere – per legge – qualunque manifestazione pubblica della religione, con le leggi più severe e intransigenti che qualunque Paese non comunista al mondo abbia mai visto. Questo dibattito sulla secolarizzazione forzata è anche, ovviamente, un dibattito sulla possibilità di una democratizzazione dell’Islam.

I successivi decenni del ventesimo secolo possono essere visti come i rigurgiti, di quella società conservatrice, contro un’innovazione avulsa e forzata. Religiosi che riguadagnavano il potere, e seguaci di Ataturk – nella forma dell’esercito – che facevano un colpo di Stato per riprenderselo, e riassicurare la tutela della laicità. In questo ultimo decennio, con la salita al potere dell’AKP e l’indebolimento dell’esercito, il quesito al centro del dibattito è cambiato: l’arrivo al governo di una forza islamica, ma certamente meno integralista di quelle passate, è il tradimento del sogno di Ataturk o ne è il suo compimento?

La vittoria dell’AKP è la sconfitta del secolarismo kemalista o è il successo di quel processo di secolarizzazione che ha reso possibile la creazione di un partito d’ispirazione religiosa, ma responsabile e senza spinte teocratiche, equivalente a un partito cristiano-democratico europeo (come dice spesso Erdogan)? Nei primi anni 2000, anche grazie alle aperture all’Europa e alla democratizzazione, la risposta sembrava essere l’ultima: l’AKP sta diventando un centrodestra europeo.

Negli ultimi anni, però, con il continuo accrescimento del potere, e la svolta confessionale e autoritaria che il governo Erdogan ha preso, si è tornata a fare strada la prima ipotesi: un partito d’ispirazione religiosa, per di più islamica, comincerà inevitabilmente a reclamare un’invasività nelle scelte delle persone, sull’istruzione, sugli stili di vita. Non è un caso che, nelle proteste di questi giorni, una delle accuse trasversalmente più diffuse sia stata proprio quella di “mettere bocca nel proprio stile di vita”.

La preoccupazione, quindi è che Erdogan voglia trasformare la Turchia in una sorta di Dubai (o Qatar, o per fare un esempio al di fuori del mondo islamico, il Cile di Pinochet), uno Stato con grandi libertà economiche, ma confessionale e autoritario, con limitate – o limitatissime – libertà di dissenso, e di comportamento. Delle preoccupazioni ben riassunte in questa bella foto:

Per questo è importante che queste proteste siano, e auspicabilmente si mantengano, plurali e multiformi. Come dicevo, è difficile immaginare che attraverso delle dimostrazioni si rimarginino ferite profonde un secolo; però, in un passaggio storico per la Turchia, come saranno certamente ricordate queste proteste, un piccolo tassello – se proprio ci sforziamo a essere ottimisti – si sta costruendo in questi giorni, su due fronti.

Per prima cosa, il solo fatto che curdi e kemalisti, non dico manifestino insieme, ma condividano una protesta è già degno di nota (per chi conosce un po’ di Turchia, anche soltanto questa foto scattata a Londra è assurda). E in questo senso – al contrario di quanto detto prima – il fatto che i contenuti delle manifestazioni siano impostati molto sui principî e meno sui dettagli concreti è un vantaggio.

Inoltre, e questa è forse la cosa più importante, il fatto che molte anime protestino in piazza per la laicità e contro l’islamizzazione di una società cardine del Medio Oriente, quella a cui tutte le rivoluzioni arabe hanno guardato, è estremamente positivo. È importante che la parte laica della Turchia guadagni una consapevolezza e una coscienza civica che – quasi inevitabilmente – nei decenni passati è sempre stata demandata alla tutela dell’esercito che ne custodiva il valore, ma anche il monopolio.

Questo è significativo anche per quell’altra parte di Turchia, quella che vota l’AKP, e che per la prima volta vede nella laicità un principio difeso da un’opposizione democratica – un’opposizione che, perciò, dovrà cercare di guadagnare consenso, anche il loro – e non come un’istituzione imposta dai militari. Naturalmente non c’è alcuna garanzia che le cose andranno così, che la laicità diventi un patrimonio condiviso di tutta la Turchia. Ma l’alternativa non c’era: non si poteva continuare a colpi di Stato per sempre.

10 Replies to “Cosa pensare delle proteste in Turchia”

  1. ho messo in condivisione su faccialibro, ma di piú, adesso chiedo a una persona di cui potresti aver sentito/letto, siriano, di darci una letta.

    saluti da York

    Mac’s Family

  2. Grazie Giovanni. Aggiungo alla tua analisi un pezzetto: una % significativa dei manager che dirigono il settore privato (banche, compagnie telefoniche, grande distribuzione, le filiali turche delle multinazionali IT, etc.) sono 40-50enni che hanno studiato e vissuto negli USA, in UK, in Germania e sono rientrati in Turchia dopo le prime liberalizzazioni. Sono tutti molto vicini all’AKP ma allergici all’intrusione della politica e della religione nella vita privata.

  3. Devo, e voglio, proprio ringraziare l’autore. Finalmente qualcuno che prova a spiegare, che si pone le domande che da giorni mi ponevo anch’io senza trovare soddisfazione sulla grande stampa e che a quelle domande prova a dare delle risposte minuziose e argomentate. Il pezzo mi è stato segnalato da un amico proprio perché lamentavo l’assenza di analisi convincenti. Dunque, grazie anche a quel mio amico

  4. Complimenti per il quadro che ci hai fatto.
    A questo punto però mi sfugge un dettaglio: perchè, dopo essersi speso per anni per avvicinare la Turchia nell’UE, Erdogan l’altro giorno ha attaccato ferocemente il parlamento europeo, solo perchè aveva criticato le repressioni?
    Cos’è, ha ormai rinunciato all’idea di far parte dell’UE e si sta riposizionando?

    Infine, è un semplice caso che esattamente quando polemizza con l’Europa riceve in pompa magna Hamas? (lo farà proprio oggi tra l’altro).
    Ha deciso di essere leader in Medio oriente invece che uno dei tanti nell’UE?

  5. Grazie per l’articolo, molto informativo. Personalmente però ho un dubbio, che parte proprio dalla “testa”, ovvero dalla certezza che l’unica cosa sicura è di non stare dalla parte di Erdogan. Al netto però della situazione particolare turca non posso evitare un parallelo con una situazione tutta italiana, quella della TAV in Val Susa. Il parallelo nasce dal fatto che (superficialmente) si tratta in entrambi i casi di una decisione presa da una maggioranza eletta riguardante uno spazio pubblico, contrastata da una minoranza (per quanto vocale ed agguerrita).

    E il problema è questo: io, in Italia, sto dalla parte di chi la TAV la vuole e ritiene che le proteste dei valligiani siano sia fuori misura sia da reprimere nel momento in cui impediscono i lavori (ovviamente nel rispetto sia dei diritti che delle leggi). Perché se una decisione viene presa a maggioranza, in democrazia, si rispetta il dissenso, ma si esegue comunque – dando la possibilità di rimettere in discussione la decisione alle elezioni successive, ovviamente. L’altro problema è che, come insegna Pinker tra gli altri, uno stato moderno si caratterizza anche per avere il monopolio della violenza, monopolio strettamente regolato da leggi di vario grado. Nel momento in cui i manifestanti ricorrono alla violenza vanno a contrastare direttamente questo assunto di base (è uno dei motivi che mi spinge ad essere dalla parte dello Stato italiano in Val di Susa – anche perché l’occupazione di un terreno e il respingere con maniere forti chi tenti di lavorarci rientra nella violenza).

    La mia domanda è quindi: è un paragone scorretto? Perché se non lo fosse, dovrei ritenere la situazione più grigia di quanto altri non pensino.

  6. fabio nolli scrive::

    Erdogan l’altro giorno ha attaccato ferocemente il parlamento europeo, solo perchè aveva criticato le repressioni?
    Cos’è, ha ormai rinunciato all’idea di far parte dell’UE e si sta riposizionando?

    Non solo Erdogan, ma la Turchia. È già da qualche hanno che è così: hanno vissuto con offesa i veti (talvolta pregiudiziali) dell’Europa, e ora si sono quasi invertite le parti. Difatti, se ci fai caso, il dibattito sull’entrata in Europa della Turchia non è quasi più così corrente.

    fabio nolli scrive::

    Infine, è un semplice caso che esattamente quando polemizza con l’Europa riceve in pompa magna Hamas? (lo farà proprio oggi tra l’altro).
    Ha deciso di essere leader in Medio oriente invece che uno dei tanti nell’UE?

    Una delle grandi differenze nella Turchia degli ultimi dieci anni – come dicevo nel post precedente – è l’allontamento dall’Occidente. La Turchia è il secondo esercito della NATO, ma dopo aver fatto per decenni una politica estera kemalista (quindi di basso profilo e filo-occidentale), l’AKP ha deciso di svoltare verso la “profondità strategica” – cito il titolo del libro di Ahmet Davutoglu, ministro degli esteri turco e cervello di tutta la politica estera di Erdogan da una dozzina d’anni a questa parte.

    I dogmi kemalisti erano:
    – Pro occidente. Soprattutto gli Stati Uniti.
    – Non siamo arabi, stiamo lontani dagli arabi perché possono portarci solo sventure.
    – Zero problemi con i Paesi confinanti (a eccezione della Grecia).
    È quella che è sempre stata chiamata la fobia di Sèvres.

    Ora queste tre cose sono saltate: la Turchia fa da modello a molti Paesi arabi, ed Erdogan viene accolto nei Paesi delle varie primavere arabe un po’ come Obama da noi. Al tempo stesso Erdogan non si è fatto problemi a essere l’interlocutore principe e il pacificatore in molti di questi Paesi, e quindi a mettersi contro dei vicini come la Siria.

    L’idea è quella di parlare con tutti, senza privilegiare alcuno, e – in una prospettiva economica – di aprirsi a ogni mercato, e di fare scelte esclusivamente nell’interesse nazionale.

  7. Luca Venturini scrive::

    La mia domanda è quindi: è un paragone scorretto? Perché se non lo fosse, dovrei ritenere la situazione più grigia di quanto altri non pensino.

    Beh, naturalmente la questione del parco è un pretesto. Le proteste sono molto molto più ampie: di sicuro in Italia non vengono arrestati dei giornalisti di alcune minoranze perché scrivono articoli critici nei confronti del governo.

  8. Giovanni Fontana scrive::

    Luca Venturini scrive::
    La mia domanda è quindi: è un paragone scorretto? Perché se non lo fosse, dovrei ritenere la situazione più grigia di quanto altri non pensino.
    Beh, naturalmente la questione del parco è un pretesto. Le proteste sono molto molto più ampie: di sicuro in Italia non vengono arrestati dei giornalisti di alcune minoranze perché scrivono articoli critici nei confronti del governo.

    Capisco, grazie della risposta. Speriamo che la situazione si evolva in maniera più civile di quanto accaduto finora; anche perché per i motivi che citavi nella risposta a Fabio Nolli, la Turchia sarà da esempio a molti altri paesi nel prossimo futuro. Nel male e nel bene.

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