L’America è in declino.
Il Nobel per la medicina è andato a tre americani. Il Nobel per la fisica è andato a tre americani. Il Nobel per la chimica è andato a due americani e a un israeliano. Il Nobel per la letteratura non l’hanno dato a Philip Roth, quindi non conta. Il Nobel per la Pace è andato a Obama. Il Nobel per l’economia è andato a due americani.
Insomma: 8 Nobel su 10 sono andati ad americani, 1 a un israeliano e uno non conta
Una crociata persa
Ogni dieci che ne incontro, uno lo riporto: Repubblica sul ministro Bondi:
Foto cult di questa estate com’è accaduto negli scorsi anni adaltri politici fotografati in cannottiera piuttosto che con la bandana o in tuta da ginnastica.
Piuttosto vuoldire “invece di” non “oppure”: scritto così vuol dire che chi è in canottiera viene preso in giro, mentre chi ha la bandana o la tuta da ginnastica sì che ha stile!
(W la tuta da ginnastica!)
Bla, bla, bla
Si dice “nelle file” non “nelle fila”, ‘gnoranti.
Piuttosto m’ammazzo
No, proprio non lo sopporto. Quando ascolto, perfino i più insospettabili, usare “piuttosto” in luogo di “oppure”: fa sentire snob, ma è un errore grossolano – a onor del vero succede molto più al nord, e specie in Lombardia. Ce n’erano un altro paio così, a Firenze ci sono quelli che sonorizzano le s, /kaza/ anziché /kasa/ etc.
Però “piuttosto” in quel modo toglie proprio il respiro. Perché te l’immagini che pensano: oh, come sono bravo.
Quindi ci provo, ancora una volta, qui: “mi piace la Fiorentina piuttosto che la Sampdoria piuttosto che la Juventus” significa che la Fiorentina ti piace un sacco, e sicuramente ti piace più della Sampdoria, la quale a sua volta ti piace più di quello schifo che è la Juventus.
Più tosto, più velocemente, anziché. “Invece” non “oppure”.
Senza sé
In questa bella intervista ad Adriano Sofri sull’Unità, nel riportare le parole, qualcuno ha trascritto un lapsus molto bello: i pacifisti senza sé e senza ma. Senza ma, e senza sé. Come se quando si perdono i dubbi, e i congiuntivi, si perdesse la pienezza della propria personalità, di sé.
Con tutte quelle A
Peccati d’apostrofo: Michele Serra scrive “un’alacre attivismo”.
Voi lì sul divano, mentre io sono qui in mezzo alla guerra
Era un po’ che avevo questa sensazione sgradita, che mi sembrava di stare iniziando a dare – in quello che scrivo – la brutta impressione di pensare che le cose, qui, le capisco solo io perché ci sono. Poi un amico un po’ scemo mi ha scritto:
Inizio con una critica. distanti saluti di oggi -cioè di ieri -, post “ovvio“. leggendo, ho avuto la sgradevole impressione (probabilmente tu non volevi dirlo, ma allora a maggior ragione tieni presente che l’impressione che dai è questa) che tu stia cominciando a fare ragionamenti del tipo “ma che ne sapete voi (voi che non ci avete mai messo piede, voi che vi fate idee da quello che dicono i giornali) della palestina”, “lo so io che sto qui” etc. soprattutto l’ultima frase non fa che accentuare ciò che si percepisce in filigrana fin dall’inizio.
E ha molta ragione, non solo per quel post.
Non è vero che per capire le cose bisogni essere qui, anzi talvolta da lontano le cose si vedono pure meglio.
Quindi ecco, se delle volte vi sembra di leggere che lo penso, da ciò che scrivo, delle due l’una: o penso male, o scrivo male.
p.s. O tutteddue.
È fuffa?
Volevo scrivere: ma come fanno a non rendersi conto della loro cretineria quelli che scrivono, in fondo a un post o in fondo a un commento “meditate gente, meditate”; Magari senza neanche conoscerne l’origine ironica e pubblicitaria?
Poi, dal mio osservatorio lontano, stavo cercando di riportarmi in pari con quello che succede dall’altra parte del Mediterraneo o dell’Atlantico leggendo un po’ di blog, e leggo – linkato da Francesco – un post, risibile nei contenuti, di Gabriella Carlucci che finisce proprio così!
Però poi, vedo che anche Francesco, pochissimo più sotto, termina un post con “tutto il resto è fuffa”, che se non è meditategente, siamo lì. Sarà perché condizionato da quel pizzico di sciatteria linguistica che ho trovato quel post molto scolastico; e visto che poche volte mi trovo in disaccordo con lui sulla politica, e pochissime volte l’uno o l’altro non cambia idea per vicendevole contributo, provo a spiegare il perché.
Dico molto scolastico perché dice, da una parte, cose ovvie: gli elettori di destra non sono geneticamente più portati a delinquere. Ma dall’altra, trascura di approfondire l’argomento: certo che nessuno si rallegra, se il proprio politico di riferimento è un corrotto, ma ci sono diverse sensibilità al tema che Francesco omette. Tendenze diciamo, ovviamente storiche e contestualizzate, come dice lui, ma comunque presenti.
Come quando qualcuno obietta che no, non è vero che i romeni rubino di più degli italiani. Faccio questo esempio perché sapete come la mia posizione sull’immigrazione sia più a sinistra (o più liberale, libero scambio di merci o persone) di chiunque, ma è vero che – date le condizioni storiche, sociali, etc – attualmente i rumeni, in Italia, sono più portati al furto.
Allo stesso modo, sì, andando in giro per mercati ho sentito elettori dire: «tanto tutti rubano» e sì, incidentalmente, erano molto più elettori di destra che di sinistra. Io non credo al feticcio della legalità né a un fenotipo di elettore berlusconiano, ci sono persone per bene, liberali convinti (che faticano un po’ ad aprire gli occhi), ne conosco. Neppure credo al rispetto della legge in quanto legge (questo sì una cosa di destra) ma so che nella grandissima maggioranza dei casi l’osservanza della legge, è bene.
È una cosa endemicamente di sinistra? No. Chi vota a sinistra è moralmente superiore? No. Però è vero che – con tutte le eccezioni del caso, senza nessuno psicodramma se dovessi scoprire l’opposto – se dovessi decidere fra votare Rifondazione Comunista (che sapete tutti quanto non sia il mio partito ideale) o Forza Italia, sarei poi meno stupito di un’indagine (e di una condanna) ai danni del secondo che ai danni del primo. Così come, sono certo, lo sarebbe meno Francesco. Ripeto, è solo una tendenza.
Un suo commentatore dice: “a me non interessa che Churchill fosse onesto, è quello che ci ha salvato”. Beh, a me sì, e questo non mi vieta di considerarlo “quello che ci ha salvato”.
Se il mio partito si dichiarasse non “il partito degli onesti”, ma “uno dei partiti degli onesti” io ne sarei contento, non perché questo costituirebbe una garanzia, ma perché alzerebbe l’orizzonte d’attesa: ed è questo che predichiamo, no?
Alla prima assemblea nazionale dei Mille venne il momento di pagare la sala – eravamo rimasti in pochissimi, accanto alla cassa soltanto io e Marco Simoni – e qualcuno suggerì di trovare un escamotage per non pagare le tasse sull’affitto della sala, eravamo un movimento appena nato, e quindi non avevamo mica le risorse che avevano altri partiti, con ben altri finanziatori: «non siamo mica Forza Italia!».
Ricordo bene l’argomento, scherzoso ma serio, con cui Marco rifiutò: «appunto».
Lo so, non muóre nisciune
Guia Soncini fa un post che mi è quasi liberatorio (e per il quale mia sorella vorrebbe farla ministro dell’istruzione) domandandosi perché nelle scuole non si insegni un po’ di dizione. Dice Soncini – dopo la tenace visione di mezz’ora d’intervista a Villari: ma non è importante distinguere una e chiusa da una e aperta?
Ecco, io me lo sono sempre chiesto come mai la dizione sia così trascurata in confronto all’ortografia: non vedo nessun motivo logico, che non valga per entrambe.
Certo, si potrebbe dire che mi siedo sull’essere fiorentino (che poi, quanto aiuti e quanto danneggi, è tutto da vedere…), però dicevo cortese con la “s” sorda, ho imparato che si dice con la “s” sonora, e l’ho corretto. Dicevo “bigné”, e ora provo a ricordarmi di dire “bignè”. E così via. Non si tratta, ovviamente, di stare lì a cavillare su ogni cosa detta da chiunque, ma di provare a parlare correttamente. Di errori se ne fanno, se ne faranno. E poi l’importante non è farlo, l’errore, ma non sapere che lo è.
Di più, l’importante non è neanche parlare correttamente – potrei negare la leggiardia ruvida del romanesco, usato con gli interlocutori familiari? – ma saperlo fare quando serva: come appunto in un’intervista, o in qualsiasi altra sede più “neutra”.
E non è la solita storia per cui, specie in Italia, la correzione è un’offesa piuttosto che un aiuto: perché se spiego che, essendo toscano, confondevo “tu” e “te” ma ora ho imparato a non farlo, vengo encomiato; se invece considero rilevante la differenza fra dire “bène” e “béne” sono pedante. Io na’a vedo tutta ‘staddifferenza.
Eppure tante persone che hanno una prosa ineccepibile e un’acribia invidiabile (anzi, invidiata) nell’uso dei vocaboli, trascurano completamente quest’altro aspetto: ce ne sono moltissimi, ma il primo che mi viene in mente è lui, ché l’ho letto appassionarsi a disquisizioni linguistiche (una così valevole da essere finita negli scritti altrui) e inorridire al raddoppio di un plurale straniero; ma che ascolto – alla radio – trascurare completamente le “e” e le “o” che si dovrebbero dire aperte o chiuse.
Credete che sia questione di non essere troppo giustizialisti? Ci ho pensato, io credo di no: il giustizialismo è un metodo, non un’applicazione di esso, e basta essere un po’ consapevoli dei rischi del precisismo pirla, sempre per usare le parole di quell’altro, per non fare la fine dei maniaci.
Detto questo, vale il titolo.
Perseverare
nelle fila di Fiorentina e Milan