Nel mezzo del cammin

Oggi ho 35 anni. Quando ho aperto questo blog ne avevo 25, e stavo per partire come volontario nei campi profughi della Palestina. Ora sono in Grecia, dove ho creato e dirigo una piccola ONG che si occupa di costruire un presente e un futuro migliore ai profughi qui. A leggerla così sembrano due fotografie di un percorso coerente e deciso, e invece no. In mezzo c’è di tutto. In questi dieci anni ho fatto tante cose (ne ho fatte anche troppe poche), ho incontrato molte belle persone (e qualche stronzo), ho cambiato un sacco di idee, ho scelto abbastanza ma avrei preferito scegliere di più, mi sono fatto domande. Ho pensato molto. In generale, sono stato molto fortunato.

È difficile fare un bilancio senza sopravvalutare il presente. Tutto viene inevitabilmente misurato e prende una piega a confronto con l’oggi: sono più o meno felice di dieci anni fa? E di cinque? E di due? (meno, boh, più). Sono più realizzato? Mi sono capito? Ho trovato la mia strada? (forse, penso di sì, macché). Sono diventato più bravo? Più forte? Più buono? (dipende, no, sicuramente). Se il me di dieci anni fa mi vedesse cosa penserebbe di me? Cosa cambierebbe del percorso fatto? Accetterebbe di diventare quello che sono ora? (non capirebbe, poco ma significativo, mi sa di no).

Una cosa che ho capito, e mi ci è voluto molto tempo, è che – 1) ciò che sei bravo a fare; 2) cioè che ti piace fare; e 3) ciò che è giusto fare – sono cose diverse. Solo alcuni di noi hanno la fortuna, e il privilegio, che almeno due di queste cose coincidano. Gli altri devono faticare d’insoddisfazione, fare un po’ e un po’, barcamenarsi fra l’uno e l’altro, tirare a indovinare. E alla fine fare una scelta. Io ho capito – ci ho messo molto, ma l’ho capito; lentamente e grazie all’influenza di alcune persone importanti della mia vita, una in particolare – che l’unica cosa che davvero vale la pena è la terza: fare ciò che si ritiene giusto, provare ad aiutare chi è vulnerabile. Almeno così è per me.

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Probabilmente alcuni saranno stupiti nel leggere queste considerazioni: non pensi di essere bravo in quello che fai? E, soprattutto, non ti piace? Quanto all’essere bravo, boh, penso di cavarmela. Penso che con un minimo di attenzione e un po’ di voglia di imparare si possa fare decentemente qualsiasi cosa. Ma, di certo, non direi che districarmi nella politica delle ONG è il mio talento. Quanto al piacermi del mio quotidiano, beh, obiettivamente no. Non mi sveglio con la gioia di vivere la giornata che verrà, ma questo dipende anche dal fatto che quello che faccio è molto cambiato da quando abbiamo cominciato Second Tree.

Avevo già raccontato come è andata: dopo aver lavorato per quasi un anno a Katsikas come volontarî indipendenti, assieme ai migliori fra i ragazzi coi quali avevo collaborato nel campo, abbiamo capito che la maniera per diventare più efficaci nel nostro sforzo d’aiuto era – anche in questo caso grazie al casuale incontro con le persone giuste – creare un’organizzazione locale. Era il modo per mantenere un notevole livello d’indipendenza e di autodeterminazione del proprio lavoro e dei proprî principî, ma al tempo stesso essere presi più seriamente dalle organizzazioni internazionali e dallo Stato greco. Per diverse ragioni più o meno incidentali abbiamo deciso che fossi io a coordinare l’organizzazione.

E così è oltre un anno che il mio lavoro non è più stare a contatto con le persone, gestire i piccoli conflitti quotidiani, prendermi cura direttamente. No, la mia giornata tipo è raccontata molto di più dal rispondere a email, partecipare a meeting, incontrare questo o quella per un caffè, scrivere un budget, andare in giro a cercare fondi. Soprattutto cercare fondi. Sì, nei fatti, l’80% di quello che faccio è una qualche forma di chiedere soldi o pensare a come ottenerli (e mi conoscete: l’ho detto che non sono tanto bravo a fare quel che faccio!). Ovviamente posso partecipare alle attività che facciamo: vado a molti degli eventi del nostro programma d’integrazione, ogni tanto assisto alle nostre classi di lingua, delle volte rinuncio al mio unico giorno libero per passare la giornata in una delle escursioni che facciamo coi nostri ragazzi: e in generale tutti sanno – e spesso succede – che possono rivolgersi a me se c’è un problema. Tutti mi conoscono per nome, ma io non conosco più per nome tutte le persone che vivono nei cinque campi in cui lavoriamo. è una differenza significativa e che ferisce la parte più narcisista di me: quella che vuole “sentire” di fare la cosa giusta, più che farla.

Anche questo è cambiato: ho imparato a tenere a bada quella parte di me. So che quello che faccio è importante, che parlare con il ministero per avere accesso a un campo o raccogliere fondi per cominciare un’altra attività, è semplicemente fondamentale e influenza il bene che possiamo fare molto più che il mio piccolo gesto di testimonianza, e se – per varie ragioni – ha più senso che lo faccia io, è giusto che lo faccia io. Non so cosa mi riserverà il futuro: se mi chiedessero “sarai ancora in Grecia a lavorare con i profughi fra due anni?”, risponderei “molto probabilmente no”, ma del resto se mi avessero fatto la stessa domanda due anni fa, avrei dato la stessa risposta, e invece eccomi qui. Certo, life-is-what-happens-to-you-while-you-are-busy-making-other-plans, ma l’aver creato qualcosa che dà compimento a ciò che pensi sia giusto fare è inevitabilmente difficile da lasciare. Mi verrebbe da usare l’abusata metafora del figlio.

Insomma, è questo che voglio dire quando dico che mi sento molto fortunato: e quando lo dico non intendo (soltanto) rispetto all’essere nato e morto di fame in un Paese dell’Africa centrale, penso davvero di essere fortunato rispetto alla larga maggioranza delle persone. Ogni volta che mi guardo indietro mi ritrovo a essere contento: lavoro quotidianamente per qualcosa in cui credo molto, e che investe di significato la mia vita, e lo faccio con persone che stimo molto che ho scelto e mi hanno scelto. So che in pochi hanno questo privilegio. Il fatto che i piccoli gesti che servono a comporre quel quadro non siano del mio massimo gradimento è, obiettivamente, una minuzia.

10 Replies to “Nel mezzo del cammin”

  1. Sei diventato grande, eh?
    Giusto porsi delle domande sul tuo percorso, fai bene a porti dei dubbi.
    Ma non ti crucciare troppo, sai bene che giudicare se stessi è cosa molto difficile. Accontentati del giudizio dei tuoi amici che, come me, sono tutti orgogliosi di quello che hai fatto e continui a fare.

  2. È una crescita tua personale… che però se la usi bene può far crescere la ONG e tutto quello che gli sta intorno.

    Sei cresciuto, ma non invecchiato. Bravo! 😉

  3. Che percorso Gionanni, impegno incondizionato anche se sei nel ruolo dell’organizzatore, e non ‘senti’ direttamente che stai FACENDO LA COSA GIUSTA….tu stai facendo la cosa giusta, necessità è organizzare LA COSA GIUSTA!!!
    Tanti complimenti!!! Continua così!!!

  4. Che coincidenza, questo tuo post si incastra perfettamente in una serie di approfondimento sulla Divina Commedia che sto vedendo su YouTube in questi giorni.
    Si intitola “Nel mezzo del cammin” e sono delle lezioni tenute dal professor Franco Nembrini in cui racconta l’opera di Dante.
    Che, spiega lui, parla proprio di questo: il coraggio di prendere le decisioni, il seguire dei maestri che ci aiutino a percorrere la strada…
    Ne consiglio fortemente la visione, che Nembrini è proprio bravo e piacevole da ascoltare, anche se mi pare di capire tu non abbia molto tempo libero 😉
    Un abbraccio!

  5. ciao giovanni, mi fa piacere tornare a legger un tuo post.
    mi piacerebbe leggerti piu’ spesso, come accadeva in passato, qualche anno fa.
    complimenti per quello che fai, magari un giorno passo a trovarti.
    ciao!

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