Cane morde uomo

Ragazzo gay preoccupato: starò mica diventando cristiano?

A primo sguardo il diciottenne Lucas Faber sembra come qualunque altro ragazzo gay. È membro del coro della sua scuola, gli piace fare shopping nei centri commerciali, e fa del sesso con gli altri ragazzi della sua età. Ma recentemente, una crescente preoccupazione ha cominciato a turbare questo giovane ragazzo omosessuale. Una sensazione angosciante che lo fa dubitare ch’egli non sia, in realtà e nel profondo, un integralista cristiano destrorso.

«Non so cosa mi sta succedendo» ammette Faber ai giornalisti «è come se io avessi questi strani bisogni ogni tanto, e improvvisamente sono tentato di andare in chiesa o censurare i libri della biblioteca in qualche modo. Anche il solo pensiero di organizzare un rogo di CD mi eccita».

«Sono così confuso».

«È come se io non sapessi più chi sono» dice l’adolescente spaventato «Tenere nascosta questa mia segreta ossessione per i dogmi della destra radicale nascosta ai miei genitori, insegnanti, e compagni di classe mi sta dilaniando».

Questa parodia della classica descrizione del ragazzo timido e timorato che scopre di essere omosessuale è esilarante, smascherà tutti i cliché che – tutti noi – abbiamo incastonati in testa.
Potere leggerne il resto, in inglese, qui.

Jorgensen! Jorgensen! Jorgensen!

Una volta dovrò raccontare approfonditamente dell’anno in cui feci l’abbonamento alla Fiorentina, da Roma, e andavo tutti i week-end a Firenze (uno sì e uno no), per vedere la partita. Avevo 17 anni e fu l’anno in cui la Fiorentina di Trapattoni rischiò di vincere lo scudetto, restando in cima alla classifica per due terzi del campionato: poi Batistuta si infortunò, ed Edmundo andò al Carnevale.

Fu anche l’anno in cui la Fiorentina, in casa, era imbattibile e vinse le prime undici partite (poi, nella storiografica calcistica Batigol s’infortunò, sennò avremmo vinto lo scudetto, altroché). Alla fine, nonostante le sciagure finali, il ruolino di marcia casalingo fu di 13 vittorie, 4 pareggi, 0 sconfitte – tutte partite a cui fui presente – la Fiorentina non faceva così bene al “Franchi” dal ’59.

Ovviamente il merito era mio. Che ero lì. E non solo per la “mera” presenza (che costituiva già capitale importanza nei successi della Viola), ma anche perché ogni domenica mi impegnavo per lei. Prendevo il treno all’andata e al ritorno, ma soprattutto sbagliavo piano. Nella prima partita che mi aveva visto spettatore la Fiorentina aveva vinto al 92° minuto. E io, in ascensore con mio zio, avevo sbagliato piano. Andava da sé che tutte le domeniche successive dovessi – apposta – ripetere l’operazione. Premere il primo piano, aprire la porta, e poi – finalmente – premere il piano terra. E infatti la Fiorentina continuava a vincere. Il calcio funziona così.

Da quel tempo ho maturato un approccio più paraculo e più sano al calcio. Serve per prendere in giro gli amici e farsi prendere in giro (che è il senso vero del calcio), serve per scegliere l‘abbigliamento adatto alle cerimonie e serve per socializzare in qualunque parte del mondo tu vada, dalla Palestina al Burkina Faso (Zambrotta! Del Piero! [brrr]).

Io me la godo abbastanza perché, come dicevo, ho trovato la mia misura paracula di nazionalpopolarità: se la Fiorentina vince sono contento per tutta la giornata, di domenica. Faccio le cose di buon uomore, e le faccio meglio. Se invece la Fiorentina perde «beh, è solo un gioco». Potrò mai arrabbiarmi per una partita di calcio? Però quando vince son contento davvero, mica scherzo!

Quando ne ho l’occasione, però – un paio di volte l’anno vivendo lontano dalla mia squadra (ho elaborato una teoria per la quale è lei a vivere lontano da me) – vado allo stadio. E lo faccio con gusto. È l’unico posto al mondo dove c’è una vera intersezione sociale, e dove il ricco il povero, il terrone e il negro, il frocio e l’impiegato, il meccanico e il vegetariano si abbracciano senza conoscersi, e per qualche attimo – davvero – si vogliono bene.

Bene. Se siete arrivati fin qui, potete fare un passo avanti, e andare a leggere le stesse considerazioni, e altre storie, raccontate dal prof Silei.

(grazie a Andrea)

Evviva il googlismo e la libertà

Google cinaGoogle aveva in passato negoziato con il governo cinese la censura di alcuni contenuti (i classici temi “sensibili” per una dittatura) in cambio della possibilità di lavorare nel Paese più popoloso del mondo. Questa scelta era stata criticata ferocemente da molti utenti di Google, che avevano pure avanzato l’ipotesi di cambiare motore di ricerca.

La notizia di poco fa è che Google ha annunciato un’inversione di tendenza. E che, a quanto si legge, le censure saranno rimosse anche a rischio di dover chiudere google.cn.

Ovviamente fra cinque minuti ci sarà chi dirà che – sicuramente – c’è qualcosa sotto, e che Google l’ha fatto per occulte ragioni economiche: foss’anche così, questa non sarebbe che una buona notizia nella buona notizia – se a una delle più grandi aziende al mondo conviene non assecondare le richieste liberticide della più grande dittatura del mondo, c’è qualche ragione per essere ottimisti nel futuro.

Lunedì degli aneddoti – XXV – La fuga

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

La fuga

La leggenda di Samarcanda, poi cantata da Vecchioni, rimodulava l’eterno tema dell’ineluttabilità del destino: non si può eludere ciò che il fato ci ha assegnato, e se si prova a scappare si finisce per non far altro che andargli incontro. In quella storia c’era un soldato che intravvedeva la morte, e cercava in tutti i modi di fuggirle, per poi ritrovarsela davanti a centinaia di chilometri di cavalcate, con in bocca la frase: «ti aspettavo».
Ce n’è una versione più moderna e, forse ancora di più del destino, è una nemesi. Quasi un insegnamento a liberarsi dalle proprie paure, perché altrimenti se ne finisce ingoiati.

La storia è quella di una coppia di pacifisti canadesi. Per quanto il Canada, agli inizî degli Anni 80 – dove la loro storia è ambientata – non sembrasse il luogo più esposto al rischio di uno scontro bellico, i due erano terrorizzati dal possibile scoppio di una guerra. Da un giorno all’altro sarebbe potuta scoppiare la terza guerra mondiale, pensavano ossessionati, e questa avrebbe coinvolto anche il Canada. Così, nonostante – si può immaginare – tutti gli spiegassero che l’eventualità di vedere dei carri armati alle porte di Toronto fosse davvero remota, presero la decisione di partire. Per dove? Chissà, il posto più lontano dalla civiltà, dai centri chiave di un possibile conflitto, un luogo dove anche soltanto la notizia di una guerra non sarebbe giunta loro. Presero un atlante e lo studiarono a fondo; fino a quando non riuscirono a isolare un minuto arcipelago dell’emisfero australe, quasi disabitato e popolato di sole pecore. Era quello che cercavano: portarono con loro i figli, i proprî averi, e si trasferirono lì.
Il 2 aprile del 1982 scoppiò la guerra delle Falkland.

da qui

[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi qui il sedicesimo: Gagarin, patente e libretto qui il diciassettesimo: La caduta del Muro qui il diciottesimo: Botta di culo qui il diciannovesimo: (Very) Nouvelle Cuisine qui il ventesimo: Il gallo nero qui il ventunesimo: A che ora è la fine del mondo? qui il ventiduesimo: Che bisogno c’è? qui il ventitreesimo: Fare il portoghese qui il ventiquattresimo: Saluti]

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Un bambino felice

Lo so che per moltissimi di voi questo evento non ha alcun significato, e faticate anche a dargliene uno. Ma oggi è successa una cosa che ha dato un senso alla mia vita, quantomeno alla mia vita su Facebook:

abdujaparov

Rosarno

“Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.
Don Milani

Alfredo Marasti

Alfredo è un ragazzo che scrive canzoni, scrive la musica, e scrive i testi. Un tempo si chiamavano “cantautori”. Non c’è solo quello. C’è che è davvero molto bravo.

Ora: io lo so, voi frequentate un sacco di blog ben selezionati che segnalano musicisti – e sarete oberati dai varî «ascolta questo» e «ascolta quello». Il presente blog lo fa così raramente che, per una volta, potete fidarvi: ascoltate le canzoni che metto qui sotto.
Io, pigro, le avevo a disposizione sul PC da un sacco di tempo, e ho iniziato ad ascoltarle solo qualche giorno fa: non fate lo stesso errore!

AlfredoAlfredo Marasti non ha ancora vent’anni (è del ’90), ed è toscano. Ha una memoria di ferro per le cose inutili e una capacità straodinaria di mettere insieme parole semplici fra loro, così come di associarle alla musica. Delle volte mette nei suoi pezzi dei piccoli gioielli di pensiero laterale che fanno ridere o annuire soddisfatti anche al trentesimo ascolto, quando è svanito completamente l’effetto sorpresa e rimane solo l’arguzia.

Cosa penso? Che se nei prossimi anni non sentirete parlare di lui – se non avrà successo – vuoldire che il mercato italiano delle canzoni funziona davvero nel modo sbagliato. E siccome ho la quasi certezza che sia così, metto un po’ di sue canzoni qui così qualcuno in più può ascoltarlo. Se poi diventa famoso, beh, l’avevo detto io!

Cosa gli manca? Mi concedo un gioco che faccio sempre: trovare un difetto semplice e uno complesso alle cose che mi piacciono. E dunque: il difetto conciso è che nell’incrocio fra De Gregori, Branduardi e De André manchi un po’ di personalità – del resto è un fatto assai preventivabile in un artista così giovane. È probabile che, crescendo, Alfredo crescerà anche uno stile più proprio.

L’altro, più articolato, riguarda gli attori delle sue canzoni: i personaggi che crea non sono molto “possibili”; e pure affidandosi allo slancio narrativo, trascuratane l’inumanità, sono spesso incoerenti al loro interno e contraddittorî rispetto alle premesse conferitegli, per quanto strampalate.
Ma anche qui: chi scrive canzoni non vive in questo mondo, non ha necessità di persone vive e incontrabili. Sulla sua strada si imbatte in individui dagli sguaiati pregi e dagli sguaiati difetti, e li racconta. E nell’ombra di questi personaggi-limite ben raccontati, in qualcuno dei loro drammi, ci ritroviamo tutti.

E quindi, ecco: cinque delle migliori canzoni in un ordine non particolare (pensate che non ci ho neppure messo quella con cui ha vinto il Premio De André, La luna e il ladro, secondo me appena un gradino sotto):

Aggiornamento del 22/07/2018.

Questo post è ormai invecchiato, e tanto, come anche Alfredo, che è più maturo e consapevole. E, in questa sua consapevolezza, mi ha chiesto di rimuovere da questo post i link a quelle canzoni: erano schizzi giovanili, e con una qualità dell’audio non eccelsa. Mi sembra giusto. Sappiate insomma che quelli qui sotto che commentavano quanto erano piaciute loro le canzoni non erano ubriachi (o magari sì, ma non per questo).

E pensano che il problema di Berlusconi siano le parolacce

Comunque il fatto che tutti i commenti scandalizzati sulla torta di compleanno di Berlusconi vertano sul trascurabile dito medio riprodotto, e non sul cameratesco accostamento – per “il compleanno più bello” – a una biondona tettuta col sorriso da televendita abbrancata con la mano del pappone, la dice lunga sul tasso di perbenismo e l’inossidabile maschilismo di tutto il nostro Paese, anche di quella che dovrebbe esserne la “parte buona”.

Berlusconi dito medio

Lunedì degli aneddoti – XXIV – Saluti

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Saluti

Che il saluto italiano per eccellenza venga dal Veneto, e voglia dire “schiavo”, nella forma di cortesia “tuo schiavo”, lo sanno un po’ tutti. È una parola che ha avuto un tale successo da colonizzare un sacco di altre lingue, anche se tutti faticano a capire come in italiano si dica “ciao” sia quando l’interlocutore arriva che quando questi va via, così tradendone un po’ l’etimologia verosimilmente originatasi per un incontro e non per un commiato.

E l’invenzione di Edison? No, non la lampadina (che è pure disputata) ma una cosa perfino più comune: hello. Per quello bisogna tornare a un’altra invenzione disputata, quella del telefono: provando per la prima volta il nuovo congegno, Thomas Edison espresse la propria sorpresa con l’equivalente di “accidenti” nell’inglese di allora, ovvero «hullo». Quella quasi-interiezione di Edison, mal trascritta, soppiantò presto l’originario «ahoy», che era più facile da perdere nei disturbi delle linee.

Da lì l’espressione “Hello”, per rispondere al telefono, si è fatta strada a tutti i capi del mondo, ed è trasversale: dall’arabo all’ebraico, dal solitamente sciovinista francese al russo. Fra i pochi che non rispondono al telefono con “hallo”, ci sono gli italiani. Nel Belpaese si dice “pronto”, una parola che non ha nulla a che vedere con un saluto e di cui mi è più volte capitato che gli stranieri mi chiedessero conto.
Anche per questo, ovviamente, c’è una ragione: le prime telefonate venivano effettuate tutte attraverso degli operatori, ed era a questi terzi che si diceva dove indirizzare la telefonata. Lo stesso operatore, poi, metteva in contatto il chiamante con il ricevente; ma non prima di essersi accertato che il ricevente fosse desideroso e in grado di ricevere la chiamata. E così la chiamata vera e propria cominciava quando chi riceveva la chiamata diceva – appunto – di essere “pronto”.

Grazie a Matteo

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