Giovedì 20 novembre

La falsa questione dei profughi – Diario dalla Palestina 99

Uno dei nodi che vengono sempre tirati in mischia quando si parla di Israele e Palestina è quello dei profughi. Tutti i trattati di pace si sono, in un modo o nell’altro, invischiati in questo problema e in quello di Gerusalemme, senza mai uscirne veramente. Ma se la questione di Gerusalemme è un problema lacerante – sebbene risolvibile con profusione di pragmatismo e volontà* – quella dei profughi, ho imparato giorno per giorno, è una vera non-questione, un gonfalone ideologico che è stato agitato negli anni – si badi – da entrambe le parti.

La storia, per sommi capi, la conosciamo: nel ’48 all’indomani della dichiarazione d’indipendenza d’Israele, gli stati arabi mossero guerra allo Stato ebraico. I capi religiosi e militari arabi, incitarono mussulmani e palestinesi a venire via da Israele. Alcuni seguirono questi proclami, molti altri furono cacciati dagli israeliani con questo alibi e spesso mascherandolo come azione di guerra; l’obiettivo era quello di ebreizzare la parte maggiore possibile di Israele: dopo l’evacuazione di interi villaggi, una vera e propria “normalizzazione” – case nuove, onomastica nuova, etc.
Ovviamente, come in questo e tanti altri casi, ognuno riconosce solo la parte di storia che fa tornare i propri conti: non si parla di dichiarazione di guerra, non si parla della “chiamata alle armi” fra i palestinesi, e non si parla di Nakba (distruzione) – se non, molto timidamente, negli ultimi vent’anni, per mezzo dei cosiddetti nuovi storici – in Israele.

I 700.000 profughi palestinesi del tempo si disperdono fra Palestina, Giordania, Libano, Siria e (in misura minore) altri stati arabi. Ma, invece di ottenere la cittadinanza lì**, conservano questo inusitato status perpetuandolo a tutta la progenie. A complicare la questione è l’occupazione (fino al ’67) da parte giordana dell’attuale Palestina, cosicché la maggior parte degli attuali profughi ha un documento giordano. Nel frattempo tutti, Giordania, Libano, perfino Israele, cercano di strumentalizzare questa bomba demografica, innescandola come risultato.

Ora. Le persone che hanno lo status di profugo sono più di 4 milioni: pochissimi erano lì nel ’48, pochi nel ’67, la maggior parte hanno ereditato il titolo insieme alle chiavi della vecchia casa, che ora non c’è più, chiavi che si tramandano di generazione in generazione, e per le quali è in vivo un vero e proprio culto (questa foto dell’entrata di Aida, un campo profughi presso Betlemme dovrebbe darvi l’idea).
I campi profughi, come avevo fatto vedere qui, non sono quello che ci si aspetta. E – probabilmente per un (giusto) senso di colpa – sono molto coccolati dall’ONU: vi basti sapere che alle Nazioni Unite esistono due istituzioni che si occupano dei profughi nel globo – una è l’UNHCR, che si occupa dei profughi in tutto il mondo: Africa, Asia, Europa, America; Sudan, Somalia, Birmania, etc. L’altra è l’UNRWA e si occupa soltanto dei profughi palestinesi. Considerati tutti i limiti endemici all’ONU, l’UNRWA fa delle cose molto positive, e difatti è forse l’unica istituzione ufficiale a non essere unanimemente sprezzata.

E allora, se la situazione è così intricata, perché dico che quello dei profughi è un falso problema?
Le istanze di miglior volontà, Camp David 2000 e (pochi) seguiti, israeliane sono state formulate sulla base di Gerusalemme Est, quasi totalità dei territori 48-67, e il via libera all’ingresso (in Palestina) della totalità dei profughi ora in Giordania, Libano e Siria, mentre soltanto una quota simbolica di circa 100.000 potrebbe tornare in Israele, agli altri andrebbe un indennizzo economico tarato su il costo della vecchia terra, pagato in misure da definire da Israele/USA/ONU/Mondo. Si dice: se Israele accogliesse 4 milioni di palestinesi, con il tasso di natalità che si riscontra fra gli arabi, ben presto sarebbe cancellato.

Io non so se sia giusto che i cento (non esagero***) bisnipoti di un esiliato sessant’anni fa abbiano un diritto morale su quel pezzo di terra, trovo alcuni argomenti a favore e alcuni contro, ma so che – chi talvolta mi legge perdoni la ripetizione, è il mio mantra – spesso ciò che funziona è più giusto di quello che è giusto.
Ma so una cosa ancora più importante: la maggior parte dei profughi palestinesi non vuole tornare dov’era.

Non parlo degli aiuti economici, dell’elettricità, dei rifiuti, dell’acqua e del gas pagati dalle Nazioni Unite: non è un’agevolazione rateizzata che può estinguere quella che è la più legittima delle rivendicazioni, nella pressione etica di ciascun palestinese.
È semmai una considerazione concreta, quotidiana: quanti di coloro che rivendicano il diritto ad avere una casa al di là della linea verde ci andrebbe veramente a vivere? Quanti accetterebbero di essere cittadini di uno stato che si chiama Israele? Di abitare in una nazione che non è la, loro, Palestina? Di più, nello stato che più è considerato come un intruso nell’arco di migliaia di chilometri?

Pochi, pochissimi. Per la mia esperienza di Palestina, direi nessuno, forse una soltanto fra tutte le persone che ho conosciuto. Ciò non è un’inferenza o un processo alle intenzioni, è la registrazione di un rifiuto deliberato e legittimo (in un mondo libero), e soprattutto ragionato.
E allora cosa succederebbe a quell’ipotetico mezzo milione di proprietà, di pezzi di terra, di case che furono ingiustamente sottratte, mai restituite – e spesso abbattute – ai legittimi poprietarî?

Quale altra possibilità che queste ter vendute a un prezzo di mercato in modo da incassare una somma sufficiente a comprarne di altre in Palestina. E cioè ognuno di questi profughi – soprattutto coloro che vivono in Giordania, Libano, Siria, Arabia Saudita, Egitto, etc – otterrebbe il sacrosanto diritto (che ora gli è negato) di tornare in Palestina e i mezzi economici per esercitarlo.

Che è dove si era arrivati a Camp David, precisi precisi.

* Si può dire, con una buona dose di approssimazione, che il primo manchi ai palestinesi e la seconda agli israeliani.
** In Israele si obietta su questo, sottolineando che i 600.000 profughi espulsi dagli stati arabi nel ’48, e fuggiti in Israele, sono a tutti gli effetti cittadini israeliani: l’obiezione è solo parzialmente valida, perché non è delle colpe algerine o irachene che deve rispondere l’auspicabilmente venturo Stato palestinese.
*** Il tasso di natalità sfiora il 40% a Gaza e il 35% in Cisgiordania (in Italia è l’8%).
**** Questo scritto ha avuto una lunga, lunga gestazione –

4 Replies to “Giovedì 20 novembre”

  1. scusa, concordo praticamente su tutto ma non ho capito bene quali sono le tue conclusioni: ovvero, il “problema profughi” consiste nel fatto che da parte palestinese si vuole sancire il “diritto al ritorno” in israele, che gli israeliani negano. intendi dire che bisognerebbe concederlo, tanto nessuno se ne avvarrebbe?

  2. Beh, dipende cosa intendi per il diritto al ritorno: perché far ritornare delle persone in delle case che non ci sono più è impossibile. Credo che sì, la questione sia sopravvalutata da parte israeliana, e pretestuosa da parte palestinese.

    p.s. Giovanna, per ingrandire ctrl +

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