Obamania

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Nonna ObamaDicevaaaano che questo giorno non sarebbe mai arrivato! E invece è arrivato, e domani sapremo. La ragione e i sondaggi dicono che Hillary Clinton è in vantaggio, e che sarebbe il cavallo migliore per fare sì che un democratico torni alla Casa Bianca, specie ora che McCain – per molti versi un liberal – è sulla cresta dell’onda dall’altro lato. L’audacia della speranza (versione contemporanea dell’ottimismo della volontà) fa credere in una vittoria di Obama, ora e fra sei mesi.
Eh sì, perché qui dalle mie parti si tifa Obama, si è presa una cotta per Obama.


LODE ALL’INESPERIENZA
Dunque, provando a ragionare, il senatore Barack Obama ha 46 anni e una brevissima carriera da senatore alle spalle. Ha fatto l’avvocato, il volontario, insegna, poi è diventato senatore dell’Illinos. Soltanto da tre anni è membro della camera alta del congresso. Ha sciolto le sue riserve sull’eventuale candidatura alla nomination democratica neanche un anno fa.
L’accusa che più gli viene rivolta – ovviamente – è quella di essere inesperto: lui glissa in due modi, uguali e contrari – dice che sì, Rumsfeld e Cheeney erano molto esperti, e abbiamo visto come si sono comportati. Mentre uno veramente inesperto c’era, e si chiamava Abramo Lincoln.
Questo modo sornione di rispondere non è soltanto una tecnica retorica (disciplina che mostra di padroneggiare eccellentemente), ma è anche il concetto che sta dietro alla sua idea di politica, di “cambiamento, nel quale si può credere”: la sua generazione è quella che è cresciuta con le grandi contrapposizioni già alle spalle, che sa che i nemici ci sono ma che non ha bisogno di cercarne uno, che non ha introiettato quei pregiudizi ideologici e quei riflessi incondizionati della politica inevitabili, accidentali, per altri.
Molte volte l’esperienza è una qualità, ma è anche – inevitabilmente – un freno. Perché una volta appreso un metodo, quando si riesce a far funzionare qualcosa e ci si abitua a percorrerere quella strada, sarà più difficile cerare un altro viottolo che le faccia funzionare… meglio.

MA IL POTERE È UN’ALTRA COSA
Ovviamente tutto ciò non porta a conclusioni sprovvedute. Ci sono dei campi in cui l’esperienza è utile, e lo sa anche Obama: qualcuno dice che conti l’immagine, il piglio, al resto ci pensano i consiglieri. E difatti Obama sta via via prendendo i congilieri più esperti. Non solo quelli più esperti, ma anche quelli più nel gioco della politica: c’è chi lo accusa di voler fare il clintoniano più dei Clinton, la stessa Hillary – in un incontro televisivo – gli ha quasi rimproverato questo suo contornarsi di ex-clintoniani; la risposta di Barack è stata sferzante, una di quelle che valgono il prezzo del biglietto e anche un bel pacco di voti: «difatti sarò felicissimo che anche tu, mi faccia da consigliera quando sarò presidente».
Ovviamente questo gela le simpatie di molti leftish del partito che non si rassegnano ad avere ancora un cowboy democratico, secondo la definizione di Molinari, come candidato, ma l’uscita dal gioco di Edwards li mette di fronte a una scelta, e a meno di endorsment (possibili) dell’ultim’ora, un’ottima parte potrebbe andare a Obama.
Inoltre c’è un argomento sul quale è Hillary (ed era Edwards) a dover rincorrere il senatore nero, ovvero la Guerra in Iraq: forte dell’appoggio all’intervento di tutti gli altri candidati (lui non era ancora in parlamento, e non ha quindi votato), ha potuto mantenere una posizione ambigua sul tema.
Dice che il ricorso alla forza non è da escludere, ma è l’ultima opzione. Aggiunge, ora, che la guerra è stata stupida perché ha tolto al vero nemico – l’Iran – un nemico, Saddam, ammiccando a una realpolitik che non è nelle sue corde.
I più scafati sostengono che se la cura Petreus continuerà a dare risultati, al momento di eleggere il presidente il tema Iraq sarà assai meno caldo, e tutte le dichiarazioni di ritiro immediato saranno rideclinate.
In ogni caso è dal 2004 che su questo tema, come su altri, Obama porta avanti il messaggio di cambiamento e di coesione che lo contraddistingue: «ci sono patrioti che erano contrari alla guerra in Iraq e patrioti che erano a favore: siamo un solo popolo»

GIÀ, IL 2004
Questa retorica dell’unione, dell’unico popolo, della ricomposizione delle divisioni, del rivolgersi ai democratici e (ma anche direbbe qualcuno) agli indipendenti, e ai repubblicani, all’America intera degli stati blu in cui – ugualmente – si crede in Dio, e degli stati rossi in cui – ugualmente – si hanno amici gay, affascinò tutti alla convention democratica del 2004, quando si iniziò intravedere il fenomeno Obama: fece un discorso bellissimo, tutto incentrato sul sogno americano e sul tradimento che si recava a quel sogno non aiutando i bisognosi. Paràfraso (pessimamente) per i non ingleseparlanti: <blackquote>oltre al nostro proverbiale individualismo, c’è un altro ingrediente nella lunga storia americana: una convinzione che siamo tutti uniti come popolo. Se nel sud di Chicago c’è un bambino che non sa leggere, questo mi riguarda, anche se non è mio figlio. Se c’è un anziano che non ha i soldi per pagare le ricette mediche, e deve scegliere fra l’affitto e le medicine, questo rende la mia vita più povera, anche se non è mio nonno. Se una famiglia di arabi-americani viene arrestata senza avvalersi di un avvocato, o senza un giusto processo, questo minaccia le mie stesse libertà civili.</blackquote>
Politica e belle parole, si dirà: ma è sempre meglio sentirle che non sentirle, le belle parole: iniziò il suo discorso presentandosi, raccontando la sua storia, dicendo che i suoi genitori l’avevano chiamato Barack, con un nome kenyota, perché sapevano che nella tollerante America un nome non è un limite, una barriera, per il successo.
Sappiamo che non è sempre così, ma l’unico modo per fare sì che lo sia è dirlo, e dirlo forte.
Ne avremo presto una dimostrazione, vedremo come andrà a Barack Hussein Obama.

L’AURA DI INTEGRITÀ
Effettivamente il nostro, nel presentare il suo programma, non è sempre chiarissimo. Le sue ricette sono spesso generiche, e sui piccoli temi va meno forte che sui grandi. Però è proprio questo, Obama sta riuscendo ad appropriarsi del futuro, del far sembrare gli altri candidati l’espressione del passato (obiettivamente in questo è molto aiutato dagli altri), del fare – insomma – la politica delle grandi cose. Le grandi cose come, per dirne una, la politica. Citavo sopra il disilluso ritornello per cui “la politica è un’altra cosa”, sì lo è, dice Obama, è una bellissima cosa. Bisogna restituire alla politica la sua connotazione pubblica, di appartenenza ma anche di responsabilità.
In Italia non è solo il politico di turno a non assumersi la responsabilità del proprio incarico e degli eventuali insuccessi, ma sono anche tutte le persone – noi – a non assumersi le loro responsabilità.
“Non sto chiedendovi di credere nella mia capacità di portare del cambiamento a Washington… sto chiedendovi di credere nella vostra” è il testo che campeggia, per primo e più in alto, sul sito ufficiale.
La vocazione alla responsabilizzazione che – pare assurdo – è racchiusa finanche in quel semplice “yes we can” che conclude ogni comizio, e che non è soltanto un refrain per tentare di coinvolgere propri supporter e non, ma è il sunto della genuina spinta di Obama: wenoi, non smette mai di dirlo, ce la possiamo fare se anche voi lavorate sodo. Il principio dell’accountability, più della mera responsabilità, vale per Obama ma vale anche, in piccola misura, per ciascuno degli americani a cui si rivolge.
Per questo sbaglia chi gli sovrappone l’immagine di un candidato furbetto che lancia messaggi semplici e un po’ populisti (come Edwards): chi ascolta Obama non è rinfrancato dal sentirsi nel giusto, e diverso dalle sporcizie degli altri, avvelenatori del mondo – fattispecie che noi a sinistra conosciamo bene: l’ecumenismo obamiano fa raramente riferimento agli altri, e la convinzione di essere nel giusto che ovviamente c’è – altrimenti non sarebbe politica, ma immobilismo ontologico – è la più grande spinta a darsi da fare. Secondo parole che sono care in questi lidi, se noi siamo i buoni dobbiamo dimostrarlo. Giorno per giorno. Rimboccandosi le maniche.
Per questo parlo di ‘integrità’, e di una politica nobile che si affida alla speranza, senza scorciatoie: <blackquote>Credo che ogni tentativo del Partito Democratico di perseguire una strategia faziosa più tagliente fraintenda il movimento di cui facciamo parte. Sono convinto che ogni volta che esageriamo o demonizziamo, semplifichiamo eccessivamente o amplifichiamo le nostre ragioni, perdiamo. Ogni volta che abbassiamo il tono del dibattito, perdiamo”</blackquote>, dovrebbe essere la nostra cifra.

E HILLARY?
Nelle scorse settimane, però, lo scontro fra i due principali candidati democratici si era acuito: e Obama non ha risparmiato colpi al limite della cintura; lui si difende dicendo di aver soltanto risposto agli innumerevoli attacchi dei (sic) Clinton. Sono vere entrambe le cose. In ogni caso, sebbene molti analisti dicano che l’ampio respiro del discorso obamiano non si trovi a proprio agio nei dibattiti serrati, Barack è sempre riuscito a parare i colpi bassi. Il tono del dibattito si è molto raddolcito, comunque, dopo l’uscita di scena di Edwards: tirate per la giacca a quest’ultimo e smancerie, direbbero i cinici. A seguito del fair play messo in scena nell’ultimo dibattito tutti i gironali italiani (tranne il Manifesto) hanno parlato di ticket, spero e credo che non succederà.
Dico per ultima la cosa che andrebbe detta per prima: ‘avecceli. Ad avercela noi una corsa simile una passione politica così sana, dei caucus in cui le persone – orgogliose della propria preferenza – cercano di convincere il macellaio/il fruttivendolo che conoscono da una vita, delle primarie così vere e combattute: questi meravigliosi antidoti all’antipolitica.
E ad averceli noi due candidati come questi, un quarantenne e una donna, entrambi credibili: quanto dovremo aspettere perché accada una cosa simile in Italia? Tanta, tanta invidia. Neanche tanto in fondo invidia anche per un candidato “conservatore” come McCain, che nonostante l’età da politico italiano, è tutto fuorché un tradizionale conservatore.
Se vincerà McCain gli Stati Uniti cascheranno in piedi (a onor del vero, Bush spiana la strada), se vincerà Clinton non cascheranno affatto, e se – per avventura – dovesse vincere Obama, beh avremo lo stato più importante del mondo calling for change.

I COLORI DELL’AMERICA
C’è chi si domanda se gli Stati Uniti siano pronti per un presidente nero. La trovo una domanda per nulla ficcante, che ha citttadinanza più sui giornali che nelle teste delle persone statunitensi. Anzi, sembra essere un quesito vissuto molto più in Europa che negli USA dove sembra essere tutt’al più una nota… di colore.
Forse una domanda meno oziosa sarebbe se gli Stati uniti siano pronti a un presidente nato mussulmano, ma anche qui l’impressione è che chiunque volesse agitare questa bandiera si troverebbe screditato agli occhi del 95% degli statunitensi.
Non c’è un’America blu (democratica) e una rossa (repubblicana) e non c’è un’America bianca e un’America nera, dice Obama. Se lo dice lui, c’è da credergli.

NONNE E NIPOTI
Nonne e nipoti per Barack, potrebbe essere uno slogan della campagna elettorale di Obama, e invece è una strana convergenza che dà la misura al suo messaggio di speranza, di quanto riesca a raccogliere consensi fra i più lontani.
Come si preparano giovani e diversamente giovani all’avvenimento di domani sera? Con Sergio e Francesco – obamiani della prima ora – abbiamo programmato una notte brava a base di frittissime patatine del Burger King, schifezzissime introvabili come lo sciroppo d’acero, e birre annacquatissime come la Budweiser. Se intorno alle quattro di notte di domani vi tradirete ad avere un’improvvisa voglia di cantare “Yes, we can”, sappiate – almeno – che non sarete i soli.

E LE NONNE?
La sua e la mia. La nonna del senatore dell’Illinois vive in Kenya, nello stesso villaggio rurale dove nacque Barack Obama senior: coltiva granoturco e prega Allah perché il nipote diventi presidente degli Stati Uniti. Anche mia nonna, quasi novant’anni, cittadina americana e conservatrice da sempre, lo spera: «È il miglior messaggio che l’America possa dare al resto del mondo», dice.

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3 Replies to “Obamania”

  1. Non trovo assolutamente interessante che Obama per meri scopi elettoralistici dica “saro’ anche il presidente degli animali”.
    Pensi ai 6000 soldati che ritornati dall’IRAQ si sono suicidati,pensi ai 3500 che sempre in IRAQ sono stati uccisi,dica al mondo cosa fanno gli Americani in IRAQ e perche’ ci sono andati,dica cosa fara’ Lui dopo essere stato eletto per risolvere il problema IRAQ.

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