Lunedì degli aneddoti – XXXIV – Batigol

interesse 4 su 5

Batigol – La differenza che passa fra un campione e un vero fuoriclasse

Questa è la ragione per la quale, quest’anno, la Roma vincerà lo scudetto nonostante Francesco Totti. Ed è il motivo per il quale le partite si vincono con i piedi, ma gli scudetti si vincono con la testa. È anche il motivo per cui mi sono laureato con questa maglia e non altre.

Francesco Totti esordì in prima squadra con la maglia giallorossa in un Brescia-Roma del 1993. Otto anni dopo non aveva ancora vinto lo scudetto, né aveva mai rischiato di vincerlo: il miglior piazzamento era stato un quarto posto, lontano 5 punti dall’Udinese sul podio, e 15 dalla Juventus scudettata – l’anno dopo arrivò a 4 punti dalla terzultima, rischiando la retrocessione.

Gabriel Omar Batistuta esordì con la maglia giallorossa nel settembre del 2000. Otto mesi dopo la Roma aveva vinto lo scudetto. Gliel’aveva fatto vincere lui, e così tre mesi dopo la Supercoppa. La ragione per la quale Batistuta avrebbe fatto vincere lo scudetto alla Roma si capì, ancora una volta in un Brescia-Roma, in quell’autunno del 2000. La Roma veniva dalla sconfitta contro una diretta concorrente, l’Inter: la prima défaillance dopo una serie di vittorie. Tipica occasione in cui la Roma delle annate precedenti era sprofondata: diversi successi, tanta euforia, poi una batosta e il crollo emotivo.

E invece, a Brescia, la Roma aveva reagito ed era passata in vantaggio: gol di Vincent Candela. Di lì a poco, però, era calata l’oscurità: il Brescia aveva pareggiato, Bisoli. Poi si era addirittura portato in vantaggio, del tutto immeritatamente, con un gol su rigore del vecchio Dario Hubner. Come nel peggiore degli incubi, andando prima in vantaggio e poi venendo rimontati, ecco che si profilava un’altra sconfitta, e la fine dei sogni di gloria, per la squadra capitolina. Poi che succede? Sale in cattedra il fuoriclasse, quel Gabriel Omar Batistuta. Una palla gli rimbalza in area, lui la butta dentro e segna il 2-2. Ma non è questo il punto. Niente di strano, per lui, fin qui.

Quello è, però, il momento in cui Batistuta insegna alla Roma come si vince uno scudetto. Marco Delvecchio, il compagno di reparto, fa per abbracciare Bati, i compagni si dirigono verso di lui per festeggiare il gol: tutto sommato un pareggio fuori casa va bene, la Roma viene da una sconfitta, e pareggiare in casa del miglior Brescia della storia – quello di Baggio, che arrivò settimo – è un risultato più che degno. Poi per come s’era messa la partita! Accontentiamoci del 2-2.

L’unico che non ragiona così è Batigol: non festeggia, non va a cogliere l’esultanza di nessun compagno. Si dirige verso la rete che ha appena trafitto, raccoglie il pallone da dentro la porta e punta verso il centrocampo. Quando Delvecchio gli si para davanti per un abbraccio e la consueta esultanza, Batigol si divincola. Raggiunge il cerchio del centrocampo, fa cadere il pallone sulla linea di metà campo, e con la suola dello scarpino la aggiusta sul disco di gesso da cui il Brescia batterà il nuovo calcio d’avvio.

Indovinate un po’ chi mancava nella Maggica quel giorno? Proprio lui, il campione, Francesco Totti. La settimana successiva la Roma incontrò la Reggina e poté facilmente riconquistare la vetta della classifica, per non lasciarla più e avviarsi a vincere l’unico – per ora – scudetto della ventennale storia calcistica der Pupone in giallorosso.

Ma il match più importante era stato vinto sette giorni prima, dal carattere di un vero fuoriclasse. Già, perché quella partita cruciale era poi finita 2-4. Con tre gol di Gabriel Omar Batistuta.

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Ascolta un cretino

Precedenti ultimi anni:

2006-7 Fiorentina – Inter 2-3
2007-8 Fiorentina – Inter 0-2
2008-9 Fiorentina – Inter 0-0

Risultati di quest’anno:

Andata: Inter – Fiorentina 1-0
C. Italia: Inter – Fiorentina 1-0

Partite casalinghe della Fiorentina contro le “grandi”:

Fiorentina – Milan 1-2
Fiorentina – Juventus 1-2
Fiorentina – Roma 0-1

Volevo recapitare un messaggio – in punti – ai cospirazionisti:
1) Se mostrate di saperla lunga, dando per scontato che il vostro occhio scafato si manifesterà in un evento che – molto probabilmente – avrà lo stesso esito da voi previsto, indipendentemente, è chiaro che fate una profezia che si autoavvera.
2) Dovete abitare in un mondo davvero brutto. Se la spiegazione più logica per qualunque cosa è sempre la peggiore, e quella che qualcuno vi sta cercando di fregare, dovete vivere in un mondo proprio orribile, con persone che proprio non vale la pena di conoscere.
3) Se tutto avvera la vostra profezia, ciascuna cosa e il suo contrario, non è più una profezia ma un pregiudizio: se l’attaccante di riserva in campo vuol dire che c’è il complotto e lo dimostra, e l’attaccante titolare in campo vuol dire che stanno cercando di nascondere il complotto che quindi c’è, allora vale qualunque cosa: io sono un extraterrestre venuto a distruggere la terra, e ciascuna cosa che vi dissuada dal pensarlo è il mio infingardo travestimento.
4) Fate una vitaccia. Se pensate che ogni semaforo rosso sia rosso perché c’è un agente della CIA che ve lo fa scattare rosso, proprio contro di voi, vivete male. Guardate, meglio vivere sereni e farsi fregare un paio di volte nella vita, che vivere ottant’anni a guardarsi le spalle.
5) Solo per archittettarsi in testa i complotti che vi sovvengono a ogni pie’ sospinto bisogna essere una mente diabolica. Omnia munda mundis. Se per voi disillusione e realtà coincidono, non è così per gli altri: non misurateli col metro altrui – il vostro.
E infine:
100) Nonostante tutto questo: non ci indovinate MAI.

Lunedì degli aneddoti – XXXIII –Ponte Ponente

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Ponte Ponente

Dove sta il Ponte di Londra? Sembra una domanda come il cavallo bianco di Napoleone, eppure la questione è molto ma molto più complessa.  La filastrocca sul London Bridge is falling down, il Ponte di Londra sta cadendo, è conosciuta un po’ in tutto il mondo. Anche in Italia la conoscono tutti, almeno il motivetto. Sembra una canzoncina basata sull’assurdo, e difatti lo è: ma ci fu una volta in cui il Ponte di Londra stava davvero cadendo. Era il 1962 e per quanto fatto di pietre robuste – Stone so strong will last so long, come si conclude la filastrocca – il ponte sembrava non reggere più all’aumentato flusso di corrente del Tamigi.

Il governo cittadino decise allora di demolire il ponte e di costruirne uno nuovo, ma visto il rilievo architettonico e artistico un membro dell’ente di governo della City of London, Ivan Luckin, ebbe un’idea del tutto particolare: perché non metterlo all’asta? Chi poteva essere interessato ad acquistare un intero ponte? Effettivamente all’inizio il vecchio London Bridge sembrava destinato ad andare invenduto, ma poi arrivò il magnate americano Robert McCulloch e un’asta vera e propria non ci fu neppure: offrì due milioni e mezzo di dollari, il doppio della base d’asta, e si aggiudicò così il ponte. McCulloch stava costruendo la sua città, Lake Havasu city, al confine fra la California e l’Arizona, e aveva bisogno di un ponte per collegare le due braccia della città divise da un canale del lago, oltre che di un’attrazione turistica. Con l’acquisto del London Bridge convogliò in una, le due esigenze.

Così fu dato mandato di smontare pezzo per pezzo il ponte sul Tamigi – ogni pietra fu numerata – e di imbarcarlo con destinazione Long Beach, California. Il ponte, smontato, fece il giro di mezzo globo, attraversando lo Stretto di Panama, prima che tutti i pezzi fossero fatti sbarcare in California, e poi da lì portati via terra fino a Lake Havasu city. Ci vollero tre anni e altri 7 milioni di dollari per completare tutte le operazioni, ma alla fine McCulloch ebbe il suo ponte: perfettamente ricostruito nella forma originaria, sotto alla quale per tanti anni era scorso il Tamigi, soltanto che 8500 chilometri più a ponente. È tutt’ora lì, con tanto di Union Jack sui piloni.

Perciò, ecco, se vi chiedono dove sia il London Bridge, ora sapete cosa rispondere: in Arizona.

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Lunedì degli aneddoti – XXXII – Anima pura

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Anima pura

Mi raccontarono una volta che, alla consegna del premio Nobel per la letteratura, chiesero a Quasimodo «è sorpreso di aver ricevuto questo premio?» E lui rispose «No». Però non ho trovato riscontri, ho anche rivisto la cerimonia di premiazione, ma nessun riferimento. Peccato, perché il personaggio si prestava.

Quando, all’università scoprii che – neppure lui! – si poteva considerare a tutti gli effetti un ermetico, ci rimasi male: che Montale e Ungaretti non lo fossero l’avevo imparato al liceo, ma su Quasimodo un’altra mia certezza fu erosa.
Quasimodo era stato introdotto al mondo letterario Fiorentino, quello di Montale appunto, da Elio Vittorini che era diventato suo cognato quando questi aveva sposato sua sorella, Rosa Quasimodo. Fu una specie di fuitina, a 19 anni, e i due si rifugiarono proprio a casa di Salvatore a Udine.

Su Vittorini c’è un’altra cosa divertente: come molti scrittori del tempo era affascinato dalla letteratura americana, e come tutti aveva letto i classici e i romanzi contemporanei. In più aveva lavorato come traduttore, per qualche anno, prima della guerra. Soltanto che non era il tempo di Youtube, e Vittorini non sapeva parlare ingese, non aveva mai sentito l’effettiva pronuncia, sapeva leggere le parole, ma non capiva quando qualcuno le avesse pronunciate: se ne rese conto quando ospitò lo scrittore statunitense William Saroyan con cui non riusciva a comunicare. Superato il primo imbarazzo decisero per il metodo più artigianale di comunicazione: scriversi tutto su dei foglietti, così che l’inglese – scritto – tornasse a essere quello compreso da Vittorini.

Quasimodo aveva un altro amico: Lupo. Un impresario separato dalla moglie da un sacco di anni, e che – per questo divorzio – non vedeva la propria figlia da tanti anni. Forse per ripagarsi di questo senso di colpa, però, ne parlava sempre, chiamandola “la mia bambina”. Ed era così affezionato a lei, o a questo suo ricordo, che aveva la brutta abitudine – per dire una cosa importante – di giurare su propria figlia, «lo giuro sulla mia bambina».
Un giorno Quasimodo gli regalò un libro di poesie, e sulla prima pagina scrisse così: “A Lupo, anima pura, perché non giuri più sulla sua bambina”.

Francesco De Gregori, che era anche lui amico di questo Lupo, ci scrisse una canzone.
Si chiama “A Lupo”, e non parla di grida.

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Lunedì degli aneddoti – XXXI – L’Amabile Audrey

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

L’Amabile Audrey

Fontana è un nome abbastanza comune, e non c’è nessun personaggio di un tale spessore da monopolizzarlo. Chessò, a chiamarsi Colombo tutti ricordano Cristoforo, o sl limite il tenente. Se invece ti chiami Fontana, come mi chiamo, le associazioni sono le più varie: mi chiamavano Jimmy, quando giocavo a pallone, come un cantante, e come due portieri di Serie A – anche io feci il portiere prima di finire centropanchinaro destro. Però quelle che senti dire di più sono sempre le sorelle Fontana. Stiliste, quelle che fanno i vestiti ai ricchi.

Ci fu una volta, però, in cui non fecero un vestito a una persona ricca, ma a una tassativamente povera. In realtà quel vestito doveva andare a Audrey Hepburn, quella Audrey che con il suo profilo aggraziato ancora tormenta l’immaginario femminile. Doveva sposarsi con un Lord, come succede nelle favole, Lord Hanson. Pochi giorni prima delle nozze, però – e questo succede meno nelle favole – il matrimonio fu rinviato e poi annullato: non se ne fece nulla.

Il vestito da sposa, però, era già stato commissionato alle sorelle Fontana, che ne avevano fatto una delle proprie opere. Così Audrey chiese loro una cosa semplice – datelo a un’altra ragazza che sta per sposarsi, con due condizioni: che fosse la più bella e povera ragazza italiana. La scelta cadde – nomen omen – su Amabile Altobella, una ragazza di Latina che era in procinto di sposarsi con un contadino di nome Adelino Solda.

Il motivo per cui Audrey Hepburn non volle sposare Lord Hanson è che questi l’avrebbe costretta a fare soltanto la moglie e lasciare la sua carriera, Amabile – invece – trovò in quel vestito e in quel matrimonio il proprio compimento. Non saprei dire chi delle due sia stata più felice. Chissà.

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Lunedì degli aneddoti – XXX – L’invincibile Marco Aurelio

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

L’invincibile Marco Aurelio

Secondo me la gente che la vede in foto – o sulle monete da 50 centesimi – non se l’immagina così piccolo e soprattutto così in alto, il Campidoglio, la Piazza del Campidoglio. D’altronde sì, è un colle, ma chissà se uno ci pensa. Comunque, se salite quelle scalette sopra all’Ara Coeli vi ritrovate in quella piazza, con in mezzo la famosa statua equestre di Marco Aurelio. La storia delle Oche del Campidoglio la sanno un po’ tutti, mentre quella della statua, e di come sia finita lì, è un po’ meno nota.

Intanto è lì da poco, 450 anni, per una statua che è in piedi da quasi il quadruplo. Prima stava da un’altra parte, che non si sa bene se sia Piazza Colonna – accanto alla colonna di Marco Aurelio – o il Foro romano. Resistette a un primo spostamento, e anche a un secondo, dal Laterano.
E poi, ve la posso dire una cosa? Secondo me lì in mezzo ci sta male. Ma che ci fa? Talmente ci sta male, secondo me, che son stato contento quando ho scoperto che Michelangelo, quando aveva disegnato la piazza, non ce la voleva mettere lì al centro.
In realtà la statua è illustre, simboleggia l’invincibilità dell’imperatore, e si dice che inizialmente sotto alla zampa alzata del cavallo vi fosse un barbaro vinto. Quella lì è l’unica statua equestre di età classica che sia sopravvissuta alla furia del medioevo cristiano. A quel tempo tutte le statue di personaggi “pagani” venivano fuse. Il nostro Marco Aurelio si salvò per un caso e per l’ignoranza altrui: lo credettero un Costantino, primo imperatore a convertirsi al Cristianesimo, e perciò riuscì a scampare la fusione perché, raffigurando un cristiano, non costituiva idolatrìa.

Si vede che fra intolleranti ci si capisce, perché ci riprovarono i fascisti: centinaia d’anni dopo, nel 1979, una bomba del “Movimento rivoluzionario popolare” esplose in Piazza del Campidoglio. Un temporale salvò la piazza da una strage, e l’invincibilità salvò Marco Aurelio che finì soltanto scheggiato. Fu in quell’occasione che un’indagine dei restauratori scoprì l’allarmante corrosione che stava subendo il bronzo della raffigurazione. La statua fu così rimossa e nella piazza furono costretti a piazzare una copia, mettendo così fine all’invincibilità della statua di Marco Aurelio.
Quello che non era riuscito ai barbari ai cristiani e ai fascisti, era riuscito – gutta cavat lapidem – al Tempo. Lento sì, ma inesorabile.

Grazie a Gabriele

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Talk show metropolitano

Questa cosa della polizia che mi manda via, a dire il vero, mi deprime proprio. Non mi arrabbio neanche, è proprio il concetto dell’utilizzare il proprio piccolo spazio di potere per fare qualcosa che non produce nessun giovamento alla comunità.

L’idea che le regole non servano per rendere vivibile e bella la vita delle persone, ma per essere applicate, anche quando quest’applicazione non sia di alcun beneficio. È una cosa di cui, ogni volta, non mi capacito: ma non faccio nulla di male. Le persone si divertono. Mi metto in un angolo, non infastidisco nessuno, e non c’è nessun fine di lucro.

Anche un sacco di gente che mi legge, e che mi ha scritto non se ne capacita: i più combattivi, Max e Fabio – che non a caso vivono lontano dall’Italia da più di qualche anno – non se ne capacitavamo: «lo sai che qui in America non potrebbe succedere?» «quello è un diritto garantito dalla Costituzione» «certo, ci sono divieti specifici: non si può fare davanti a un ospedale, o a un ufficio postale, per non intralciare. Ma sono divieti sensati. Per il bene di tutti».

E va bene, dunque, avete capito: l’autorizzazione della questura per le manifestazioni non serve a nulla perché è il Comune di Roma a doverla dare, per occupazione di suolo pubblico. E quella si deve pagare. Io trovo inconcepibile che si debba pagare, anche pochi euro, per mettersi in strada a parlare con la gente. E allora, sulla scorta della giornata dell’altro ieri in cui era stata la pioggia e non la polizia a mandarmi via, ieri ci ho riprovato.

Però con più caparbietà, ogni volta che mi dicevano «qui non ci puoi stare» «perché?» «perché qui non ci puoi stare» io insistevo un po’ nel chiedere le ragioni, e alla fine mi dicevano «vai più in là che non è di mia competenza». Anche perché molte delle persone che stavano parlando con me s’arrabbiavano, talvolta lasciandosi andare a improperî anche un po’ demagogici: «ma andate ad arrestare chi ruba invece di dare fastidio alla gente!» e così via.
E così io mi spostavo un po’ più in là da Piazza del Popolo a risalire in Via del Corso.

Perciò, così facendo, ho accumulato varie chiacchierate e varie facce, che – allora – vi racconto e vi faccio vedere:

Per primi sono arrivati Leonardo, Giulia e Claudia. Leonardo non si era ancora seduto, ha appoggiato i gomiti sullo stendino, e mi ha chiesto: «beh, allora tu credi in Dio?». Come se fosse un discorso che avevamo lasciato in sospeso quella mattina. Io gli dico: «sei tu Dio?». Dice «ho paura di no». «E allora mi sa che non mi si è ancora manifestato», gli ho detto. Allora Giulia e Claudia hanno iniziato a parlare dei misteri. Bell’argomento i misteri, peccato che ci abbia interrotto la polizia venuta a cacciarmi. Abbiamo fatto in tempo a fare una foto, però (Claudia non ha ancora diciottanni):

È arrivata Francesca, poi, appena riposizionatomi. Mi ha detto «di che si parla?» e io le ho detto «lo chiedo io a te, di qualunque cosa!» E lei, «raccontami una barzelletta, ché mi ci vuole proprio». Le ho raccontato quella di quello con tre palle, che chiunque mi conosca avrà sentito – è uno dei miei pezzi forti – Francesca ha riso tanto, mi ha ringraziato ed è andata. Ecco Francesca (ero di corsa, ho fatto la foto col cellulare):

È arrivato poi Claudio, che mi ha chiesto della mia famiglia, e di dove sono: gli ho detto che è difficile da dire perché tutti, mia madre, mio padre, mio nonno, mia nonna, mio nonno, mia nonna, sono di posti diversi, e io sono nato in un altro posto ancora. Mi ha chiesto della mia nonna materna, e allora gli ho detto che è nata a Sovicille (SI) ed è della contrada dell’istrice. Poi mi ha chiesto della legge sulla par condicio televisiva, ma è arrivato un nuovo allontanamento da parte della politiz – menomale – ché non ero molto preparato! Però così mi son dimenticato di fare la foto, e allora ci metto quella di Gabriele, con cui avevo parlato (taaanto) ieri e non l’avevo messa:

Già su Via del Corso sono arrivati Emanuela e Andrea: Emanuela mi ha detto che la mia iniziativa le ricordava un video-musicale-di-un -cantante-americano che andava in giro con scritto “free hugs”. Le ho detto che un abbraccio, se voleva, potevo darglielo anche io. Ma che c’erano altre persone che lo facevano, di abbracciare gratis.
Poi, proprio mentre stavano lì, si è affacciato un ex-collega di Andrea, che abita a Napoli e capitava per caso a Roma! Il collega ci ha fatto la foto:

Con Jacopo e Christian abbiamo cominciato a parlare di Israele e Palestina, perché mi avevano chiesto cos’avevo fatto negli ultimi due anni. Poi però siamo passati alle crociate. La mia personale crociata contro gli spremi agrumi elettrici. Ho spiegato loro che spremere le arance è l’unica cosa al mondo che, mentre la fai, pensi solo a quello. Mentre leggi, giochi al computer, guidi, pensi sempre a qualcos’altro: ma se spremi un’arancia no! Pensi solo a quello. Mi hanno detto che non ci avevano mai fatto caso e che la prossima volta ce lo avrebbero fatto. «Allora la prossima volta che spremerete le arance penserete a me?» «Sì», mi hanno detto, sciagurati: «ma allora non avete capito niente: mentre si spremono le arance non si deve pensare a nulla!».

Poi sono arrivati Leone e Mattia, a Mattia ho chiesto immediatamente una foto: e sapete perché? Altro che mondo piccolo, lui s’era già fermato a parlare con me quest’estate! Quella che vedete qui sotto non è una “V” di vittoria, ma un 2! Come le due volte che ci siamo incontrati:

A Leone, invece, ho detto che avrei potuto parlargli di qualunque cosa. Ma non solo, tenendo qualunque posizione. Lui mi ha chiesto, allora, di convincerlo che “Berlusconi è bravo”. Niente di più facile. Gli ho raccontato di come Berlusconi avesse eluso il divieto di trasmissione su scala nazionale per le TV private con un espediente: facendo trasmettere a un bastione di televisioni locali lo stesso programma alla stessa ora.
Poi Leone era talmente tanto bravo a parlare che gli ho offerto il mio posto, sono andato di là, e mi sono fatto dare un po’ di consigli sulla mia vita. Vedremo quando li metto in pratica:

Un sacco di gente passava, come al solito, e si metteva a ridere, o commentava: «grande!»: ma il commento più bello è stato di un ragazzo che è passato insieme alla fidanzata, e mi ha fatto «guarda, questa nun parla manco a me, figurati».
Uno che invece parlava troppo era Michele, talmente tanto, che per allenarlo ad ascoltare i suoi amici, un altro Michele e Giovanni, mi hanno chiesto il rotolo di scotch e l’hanno piazzato così davanti a me:

Con gli altri suoi amici ci siamo messi a parlare di tag, e di scritte sulle metropolitane. Ho detto loro che i disegni mi piacciono, ma le scritte no. Poi hanno fatto battute omofobiche sul “rompere il culo” e abbiamo iniziato a parlare di omosessualità, di froci. Mi hanno detto che i gay sono contronatura. Forse avete anche ragione, ho detto loro, anche se ci sono un sacco di scimmie omosessuali. Ma anche il matrimonio è contronatura: avete mai visto due scimmie sposarsi? Eppure nessuno dice niente. Giocare alla Playstation è contronatura: però ci gioco. E così via.
Peccato che l’altro Michele e Giovanni non si siano voluti far fotografare: solo la mano:

Poi è venuta questa signora spagnola, mi ha chiesto se parlavo di qualunque cosa solo in italiano. Le ho detto che lo facevo anche in inglese, ma lei mi ha chiesto se lo facevo anche in spagnolo. Le ho detto: beh, proviamo, e mi son messo a provare a rispolverare i miei due esami universitarî di lingua spagnola, rendendomi conto che non mi ricordavo NULLA. Si chiamava Suzana, la signora, e nel nostro comunicare maccheronico ci siamo capiti un po’. Mi ha detto che fa l’insegnante di sostegno, e io le ho detto che anche mia madre è stata insegnante di sostegno per tanti anni, e poi che non crede in Dio. Neanche io ci credo, le ho detto. Mia madre invece sì, pure troppo.

Intanto si era creata una folla di persone che si erano messe ad aspettare per parlare con me, saranno state venti. A un certo punto erano talmente tante che ho fatto una foto. Così sembrano passanti, ma in realtà erano lì ad aspettare!

Sono poi venute Livia e Selene, entrambe piccoline, sedici anni. Mi hanno iniziato a spiegare come i loro coetanei sono stupidi perché seguono i Tokio Hotel anziché i Green Day. Accidenti, i Green Day, ho pensato. E gliel’ho detto: all’età loro andai a un concerto a Marino che fecero. Esistono ancora, dunque.

Selene mi ha detto che si faceva la foto ma con la mano davanti, perché non voleva che sua madre la vedesse (che poi dubito che la mamma di Selene legga questo blog). Livia invece, alla sua, ha voluto fare la linguaccia:

Alla fine sono venute Sabina, Pamela, Giovanna e Andreia, avevamo iniziato a parlare in quel momento quando sono arrivati di nuovo e definitivamente a cacciarci. Ci siamo fatti la foto quando, ancora ignari, pensavamo di farci una bella chiacchierata: invece sullo sfondo si vede la poliziotta che verrà a mandarci via. Il colmo è che accanto a noi c’erano due o tre macchine parcheggiate in stradivieto di sosta che occupavano molto più “suolo pubblico” su Via del Corso.
Avevamo iniziato a parlare del volontariato, tre di loro erano delle volontarie che aiutavano la quarta, sulla sedia a rotelle. Sarebbe stata una bella chiacchierata, anche a giudicare dalle facce:

Poi basta, sono andato via. Ero un po’ stufo di sparaccare e ribaraccare, e poi stava venendo il freddo.

Quanto al titolo, beh, grazie a Davide: questo sì che è un Talk Show – tanto talk, e un po’ di show – mica Bruno Vespa!

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

from: V. Fantechi
to: G. Fontana
date: Tue, Feb 9, 2010 at 1:01 PM
subject: rettifica

Ti chiedo una rettifica sul blog così concepita. – mia nonna mi chiede di pubblicare questa rettifica: «nonno Vittorio mi avrebbe apprezzato ed amato moltissimo perchè era capace di riconoscere il buono anche laddove certi atteggiamenti e qualche idea non collimassero con i suoi. L’aver rinnegato senza ripensamenti la sua infatuazione giovanile per Mussolini lo dimostra. Mi ha anche, come previsto, precisato che l’albero non era il nespolo ma era ed è il noce, risaputamente lento a crescere e fruttificare, e molto longevo».

Lunedì degli aneddoti – XXIX – Morto un papa

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Morto un papa

Permettete una volta, negli aneddoti, di raccontare una storia di casa mia, perché – anche se non è storico o accaduto a qualche personaggio celebre – trovo che questa valga la pena di essere raccontata. Talmente ne vale, che sfido il rischio – pressoché certo – che domani mi arrivi un’email dei nonni che si lamentano per l’imprecisione nei particolari di queste memorie («era un albero di albicocche, non di nespole!»).

La mia bisnonna si chiamava Lina, ogni volta che viene rievocata, assieme a lei viene evocata anche la sua proverbiale maestria nel giocare a carte, e soprattutto la sua mefistofelica attitudine nel bluffare: «ho delle carte orribili», diceva sempre Nonna Lina; si vestiva d’una faccia sconsolata e tutti finivano per crederci. Poi in quattro e quattr’otto chiudeva la partita. Ma la volta dopo, ancora, e quella successiva «ho delle carte orribili»: recitava di nuovo la stessa parte, e non ce n’era uno che una buona volta smettesse d’abboccare.

Nonna Lina era sposata con Nonno Vittorio, io non ho conosciuto né l’una né l’altro: forse è stato meglio così perché so che non gli sarei andato troppo a genio – Vittorio era un uomo d’ordine, severo e all’antica. Fascista della prima ora, fece anche la Marcia su Roma, per poi scoprire negli anni Trenta che il Duce non era – né aveva – una promessa mantenuta. Su di lui si racconta della piantina di nespole che aveva piantato negli ultimi anni della sua vita, per farne un albero, anche se ci avrebbe messo decenni a crescere: lui diceva «non le mangerò io, le nespole, ma qualcuno le mangerà per me». (buone!)

Nonno Vittorio era un omone alto quasi 1.85, che per il tempo era tantissimo. Lui e Lina non se li davano neanche gli appuntamenti: non c’erano telefoni, ma che bisogno ce n’era? Quando Vittorio arrivava in piazza, Lina lo vedeva da lontano stagliarsi su tutti gli altri: era il più alto del paese. E si vedevano – o meglio, lei vedeva lui – così.

Nonno Vittorio e Nonna Lina si fidanzarono abbastanza presto. Si racconta che lui fosse molto innamorato di lei. Però successe un fatto: quando Vittorio partì per fare il militare erano ancora fidanzati, con la prospettiva abbastanza concreta di sposarsi al suo ritorno. Durante la leva, però, gli vennero alcuni dubbi, o forse – chissà – dei capricci: si domandava se era davvero sensato quel matrimonio, se quei loro sentimenti fossero genuini, e tanti pensieri più articolati di così. Perciò prese carta e penna e si mise giù a scrivere, e a scrivere, una lunga lettera in cui esprimava alla sua ventura sposa tutti i suoi dubbi, le sue perplessità, le ragioni che lo spingevano a dubitare: che forse questo matrimonio non s’aveva da fare. Tutto ciò senza trascurare la possibile reazione della fidanzata, premurandosi di come Lina avrebbe ricevuto questa lettera, industriandosi a scrivere perché non ne soffrisse troppo, e cercando di metterci tutta la delicatezza di cui le sue corde erano capaci.

E, a onor del vero, di scenate Lina non ne fece proprio. Quando ricevette la lettera, la prese in mano, la lesse da cima a fondo, con attenzione. Poi volle rispondere – prese carta e penna anche lei, e ci scrisse la bellezza di otto parole: «morto un papa se ne fa un altro».
Beh, non si lasciarono più.

(Con rettifica)

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Lunedì degli aneddoti – XXVIII – Teorema della cacca di cavallo

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Teorema della cacca di cavallo

Quando c’è un problema che pare non avere soluzione e tutte le strade prospettate sembrano essere state battute, è facile supporre che la soluzione – semplicemente – non esista. Invece una via c’è sempre, e se non la vediamo è perché il futuro è così imprevedibile e ricco che basarsi sui dati che si hanno al momento per fare delle speculazioni è non solo peregrino, ma anche fuorviante. Questo concetto, foriero d’ottimismo (ma anche d’impigrimento: perché se non si può sapere cosa fare, non si fa) ha una sua propria storia e definizione: la parabola, il teorema, della cacca di cavallo – se c’è un problema irrisolvibile la soluzione arriverà, inaspettata.

Nel 1898 si tenne a New York la prima conferenza di pianificazione urbana della storia; il problema più grande di cui dovevano discutere le delegazioni arrivate da tutto il mondo era un problema ben serio: la cacca di cavallo. Il cavallo era, da sempre, il mezzo di trasporto privilegiato dall’uomo e nel corso del tempo la diffusione degli animali e il concentramento delle persone, nell’era post-industriale, attorno ad agglomerati urbani sempre più grossi aveva acuito fino a livelli mai affrontati il problema dei “rifiuti” che questi cavalli producevano. Ancora prima dell’avvento di un prototipo di trasporto pubblico le città venivano attraversate sostanzialmente a piedi, e i cavalli si usavano su distanze più lunghe: ancora all’inizio del 1800 in pochissimi possedevano un cavallo. Ma già nel 1853 centoventimila persone nella sola New York viaggiavano sugli omnibus, sorta di carrozze pubbiche con tragitti prefissati nelle aree urbane. Ovviamente questa quantità di carrozze aveva bisogno di una quantità di cavalli che aveva bisogno di una quantità di cibo che veniva restituita in letame in quantità. Ma tutta quella cacca come e dove si poteva mettere?
Esperti del tempo calcolarono che ogni cavallo produceva qualcosa come 8-10 chili di letame al giorno, nel 1880 – ancora lontano dal picco nella popolazione equina che sarebbe stato riscontrato 20 anni dopo – soltanto a New York e Brooklyn ogni giorno venivano prodotte quasi duemila tonnellate di cacca di cavallo. Nel 1894 il Times di Londra stimò che, continuando allo stesso ritmo, nel 1950 ogni strada della città sarebbe stata coperta da più di due metri e mezzo di letame. La questione è che nessuno sapeva trovare una soluzione a questo problema, perché i cavalli erano necessarî alla vita delle città.
Il convegno urbanistico fu un disastro completo, nessuno riuscì a produrre idee funzionali: l’incontro si concluse in un insuccesso talmente evidente da far sì che gli organizzatori decidessero di chiuderlo dopo soli tre giorni, anziché dopo i dieci della durata prevista. Tutti si arresero all’idea che il problema della cacca di cavallo fosse insormontabile, che nulla si potesse fare per invertire la rotta verso il baratro.
Invece, inopinatamente, il problema si risolse come nessuno aveva previsto, e con eterogenesi dei fini: l’invenzione dell’automobile.

(un omaggio a Luca e Matteo)

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