Piccole grandi soddisfazioni

Marco è un uno dei volontarî che era stato a Katsikas e che, poi, era tornato in Grecia per dare una mano a Second Tree nei primi, importantissimi, sei mesi di vita. Dopo aver lasciato la Grecia, ha cominciato un master in Olanda, per il quale ha deciso – non poteva stare lontano per tanto tempo! – di fare una tesi di ricerca sull’integrazione dei profughi nei Paesi scandinavi.

Così è andato in Svezia e in Finlandia, dove molte delle persone che erano nel campo di Katsikas sono state rilocate, ed è passato a visitare tutti, facendo interviste per la sua ricerca e chiacchiere sulle loro vite, ora. Il giorno che è ripartito ha scritto a me, e a un gruppo di volontari di lunga data, questo stupendo messaggio. Con il suo consenso l’ho tradotto e lo pubblico qui sotto:


Ciao habibati! Attenzione: questo è un messaggio lungo, ma positivo. Prendetevi il vostro tempo per leggerlo.

Come molti di voi sanno, attualmente sono in Svezia a fare un progetto di ricerca sulle persone di Katsikas e ho incontrato molti dei nostri vecchi amici di “Katsikas prima generazione”. Sto per tornare in Olanda ora e, prima di essere risucchiato nel processo di scrittura della tesi e dimenticarmene, voglio condividere con voi alcuni pensieri sugli effetti del lavoro che abbiamo fatto assieme a queste persone, specialmente per coloro che non hanno avuto la possibilità di incontrare la gente di Katsikas dopo che ha lasciato la Grecia.

Marco

Marco distribuisce fette di torta ai tavoli di famiglie afgane e greche in uno dei nostri eventi del progetto di gemellaggio

Ho fatto molte interviste e conversazioni con i nostri amici, e una cosa che tutti sembrano condividere è un intenso sentimento di gratitudine nei nostri confronti. Di volta in volta, i vostri nomi sono venuti fuori durante le conversazioni e le interviste; molti dei nostri amici mi hanno detto spontaneamente quanto il lavoro dei volontari fosse stato importante per loro. Per usare le parole di Afaf e Aead, “i volontari hanno reso le nostre vite migliori”. Penso di non aver pienamente compreso l’impatto del nostro lavoro, quanto i nostri sforzi abbiano aiutato le persone di Katsikas in un frangente che alcuni hanno definito come il momento peggiore della loro vita. Non l’ho capito finché non li ho sentiti parlare di quel periodo in retrospettiva.

Ma oltre alla gratitudine c’è dell’altro, e riguarda ciò che resta del nostro lavoro ora che queste persone sono sparse per l’Europa e stanno costruendo una nuova vita per se stesse. Il team di Second Tree ricorderà bene quelle lezioni di inglese semi-improvvisate che tenevamo a Exohi. Bene, qui in Svezia sto assistendo in prima persona a come il poco inglese che siamo riusciti a trasferire nelle teste dei nostri amici li sta aiutando ad andare avanti. In un nuovo Paese in cui devono imparare ancora un’altra lingua per sopravvivere, essere in grado di comunicare almeno con un inglese di base significa molto. Coloro che hanno fatto amicizie svedesi spesso parlano con loro in un mix di svedese e inglese. Inoltre, l’inglese aiuta le persone a imparare lo svedese più velocemente a causa delle somiglianze tra le due lingue e inoltre aiuta anche a studiare, a comunicare con gli insegnanti a scuola e a parlare con lo staff dei comuni in cui vivono quando i traduttori non sono disponibili. Una delle ragazze di Ghazi mi ha detto che ha fatto amicizia con una ragazza svedese a scuola perché possono parlare inglese assieme. Anche Habibi.Works è ricordato con grande affetto, specialmente dagli scout.

Quindi, se vi scoprite a chiedervi se il vostro lavoro ha avuto un qualche impatto a lungo termine per le persone che abbiamo cercato di aiutare, posso rassicurarvi che è successo. Forse non quanto volevamo o speravamo – del resto non sarà mai abbastanza fino a che non saranno loro garantiti gli stessi diritti e le stesse opportunità di cui godiamo noi – ma sicuramente ha lasciato un segno.

Spero che queste parole vi diano la fiducia per continuare il vostro lavoro, specialmente a quelli di noi che stanno ancora affrontando lo stress di lavorare sul campo.

Sentitevi liberi di condividere questo messaggio con quelli che ho dimenticato di includere. Grandi abbracci a tutti voi da Malmö.

Un messaggio che riscalda l’animo ma soprattutto inorgoglisce.

Second Tree

Second Tree

È da tanto tempo che manco di aggiornare su cosa mi sta succedendo qui, su quali siano i miei progetti, su cosa mi tiene occupate le giornate. Beh, la risposta a tutte queste domande è una, Second Tree.

Ora, i più affezionati lettori avranno già identificato l’origine del nome, sì, quel proverbio che mi piace tanto:

Il miglior momento per piantare un albero era vent’anni fa; il secondo miglior momento è ora.

Second Tree LogoLa storia è questa: lo scorso novembre, con tutto quello che era successo a Katsika, assieme ad altri volontarî indipendenti che avevano lavorato nel campo, abbiamo deciso che il miglior modo per continuare il nostro lavoro era creare una ONG greca. Così abbiamo creato Second Tree.

Al momento siamo attivi nell’area urbana di Ioannina, dove continuiamo il lavoro iniziato a Katsika e aiutiamo i profughi che sono in campi, appartamenti o alberghi con programmi di assistenza, educativi e di integrazione. Una cosa della quale siamo particolarmente orgogliosi è che alcuni profughi che erano a Katsika, ora ci aiutano come volontarî: è un messaggio molto positivo che le persone che sono state aiutate in passato, ora hanno voglia di aiutare le nuove generazioni di profughi che si trovano nelle condizioni nelle quali loro erano.

Il campo di Katsika è ancora chiuso, e mentre aspettiamo che riapra, stiamo lavorando in diverse aree. In collaborazione con altre ONG, distribuiamo pannolini, salviette per bambini e kit igienici per garantire standard igienico-sanitari accettabili per adulti e bambini.

Grazie alle donazioni lasciateci da volontarî che erano stati a Katsika, abbiamo fornito l’accesso a cure oculistiche e dentistiche a 200 persone che dal campo erano state spostate in alberghi prima di essere nuovamente spostate. Abbiamo organizzato appuntamenti dal dentista e dall’ottico coprendo interamente i costi delle visite, delle operazioni, degli occhiali e del trasporto. In questo momento stiamo raccogliendo fondi per estendere il programma del dentista ad altre comunità di profughi che vivono a Ioannina (sia di Katsika che di altri campi) dato che al momento nessun’altra organizzazione fornisce questi servizî.

Abbiamo offerto lezioni di inglese per adulti, per uomini donne e bambini, nell’hotel Exohi da gennaio a giugno, quando questo ha chiuso abbiamo cominciato a dare le stesse lezioni nel Community Centre a Ioannina, e successivamente abbiamo cominciato a dare lezioni d’inglese nel nuovo campo di Agia Eleni. Abbiamo inoltre collaborato con altre ONG e offerto il trasporto per attività ricreative, come il cinema e il parco giochi per i bambini, e accompagniamo gli scout nelle loro escursioni. Proprio lo scorso fine settimana c’è stato un passaggio di testimone, abbiamo assistito gli scout di Katsika nel cominciare un nuovo gruppo di scout ad Agia Eleni che continueremo a supportare nelle settimane a venire.

Infine, stiamo portando avanti il Refugee Twinning Project (progetto di gemellaggio per profughi), un programma di integrazione che abbina famiglie di profughi con persone greche per incoraggiare legami di amicizia e solidarietà. Il progetto è indirizzato ai profughi che hanno fatto richiesta di asilo in Grecia, e dà loro l’opportunità di incontrare persone nuove e di adeguarsi più facilmente alla loro nuova vita qui. Abbiamo già gemellato sette famiglie afgane alle loro controparti greche e ora siamo nel pieno del secondo giro, al quale partecipano siriani e greci. È un programma di cui sono molto orgoglioso perché mira davvero all’integrazione delle persone.

Insomma, siamo piccoli ma facciamo già tante cose belle.

Ah, Second Tree ha anche un sito e una pagina Facebook.

Per chi suona la campana

WhatsApp Image 2017-05-25 at 00.45.04Ieri ho postato su Facebook questa foto, ho scritto: “L’unica persona che conosco che riesce a portare sulle spalle il mio peso e quello del mondo (non so quale dei due sia più pesante!) mantenendo il sorriso. Buona fortuna Maestro Firas, per la tua nuova vita”. Firas è partito per Atene, dove starà un mese prima di prendere un volo per la Svezia, il suo Paese di destinazione.

È quello che sta succedendo in questi giorni a molti siriani che sono arrivati qui in Grecia prima del 20 marzo del 2016, quando l’accordo fra la Turchia e l’Europa è entrato in vigore. Gli afgani e le persone arrivate dopo quella data non hanno questo diritto e devono chiedere asilo in Grecia. Ma, almeno per i siriani che erano a Katsika, qualcosa si muove. Molti di loro hanno ricevuto la loro chiamata e altri la riceveranno nelle prossime settimane, dopo 15 mesi in uno stato di perenne attesa. Chi invece ha un parente di primo grado in Europa (figlio minorenne, marito o moglie), per la gran parte in Germania, e ha fatto domanda per il ricongiungimento familiare dovrà aspettare ancora moltissimo. È di pochi giorni fa la notizia che la Germania accetterà soltanto 70 persone al mese per i prossimi anni per il ricongiungimento familiare, a questo ritmo dovranno aspettare anche tre anni prima di tornare a vivere con le persone cui vogliono bene. Provate a immaginare cosa vuol dire essere separati dalle persone che si amano per più di quattro anni.

Almeno per le persone come Firas, però, questa lunga attesa – che è come una drammatica e del tutto casuale chiamata alle armi, per chi suona la campana – sta arrivando al termine, e questa è una bella notizia. Firas era il direttore della scuola del campo di Katsika, un’esperienza molto importante che ha dato a tutti i bambini che erano nel campo la possibilità di continuare con la loro educazione quando, per tanti mesi, non c’era alcun supporto dalle grandi organizzazioni o dallo Stato greco. Firas era quello che si svegliava la mattina e andava a suonare la campana della scuola per il campo. Firas era la persona che organizzava gli incontri con gli insegnanti, molti volontarî ma soprattutto molti abitanti del campo, che provavano a dare un po’ di normalità a quei bambini. Firas era l’anima di quella scuola. Più di tutto il resto, Firas è ormai un amico.

Non ho mai visto Firas triste. L’ho visto sorridere, come scrivevo. L’ho visto arrabbiato, qualche volta; l’ho visto scherzare, giocare, prendersi in giro. Ma no, non l’ho visto mai triste, nonostante tutto, nonostante mesi e mesi di vita in una tenda. E ovviamente non l’ho mai visto piangere, neppure di gioia, quando è nata sua figlia Mary, la sua primogenita, una delle bambine nate nel campo profughi di Katsika. L’ho visto piangere ora, per la prima volta, quando sono andato a salutarlo prima che prendesse il bus per Atene. Gli ho portato la campana della scuola – la si vede in quel sacchetto nella foto – che avevo conservato per lui. Quando ha aperto il sacchetto e l’ha vista è scoppiato in lacrime, immagino quanti ricordi gli siano passati davanti. Gli ho promesso che lo andrò a trovare in Svezia e, insieme a Mary, suoneremo quella campana.

p.s. In molti mi hanno chiesto cosa sto facendo io ora che il campo ha chiuso, in questi mesi abbiamo cominciato un piccolo progetto assieme a un gruppo di volontarî che era a Katsika, presto ne scriverò!

 

Oggi ho pianto tanto

Oggi c’è stato l’annuncio tanto atteso: tutti i 170 profughi ancora a Katsika saranno spostati in un albergo a un’ora e mezza da qui. Domani sarà il momento di pensare a tutte le cose da fare, a come aiutare queste persone e a quando, probabilmente presto, ne porteranno tante altre dalle isole; ma oggi è quello delle lacrime, della commozione, per questo momento atteso nove mesi.

Passano i mesi

A Katsika le cose cambiano, lentamente, ma cambiano. Chiunque sia stato qui in estate e torna in inverno trova una situazione molto diversa, per tre ragioni: una è che ci sono molte meno persone. L’ultimo censimento dice che ce ne sono 172, sono le più sfortunate, perché tutti gli altri sono stati portati in alberghi prima di essere trasferiti in altri Paesi; la seconda è che fa freddo, molto freddo. La notte si arriva a diversi gradi sotto lo zero, temperatura spesso accompagnata dal vento: vige la regola non scritta, che al bagno si va solo di giorno, perché anche solo affacciarsi fuori porta le maledizioni dei compagni di container o di tenda. I bambini, anche grandi, che non possono resistere, indossano pannolini; la terza ragione è che sono arrivati i container. Siamo al terzo stadio, c’erano le vecchie tende, poi ci sono state le nuove tende, ora ci sono i container, che sono obiettivamente un netto miglioramento delle condizioni in cui vivono le persone. Il colpo d’occhio del campo, oggi, è qualcosa di simile:
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Tutti vivono nella più grande incertezza: c’è chi dice che il campo chiuderà a breve, c’è chi dice che porteranno altre cinquecento persone da altri campi. Si vive alla giornata, e nessuno sa molto del proprio futuro.

Nel frattempo una delle organizzazioni che lavorava nel campo, Olvidados, è stata cacciata dall’esercito. Nessuno ha chiaro cosa abbiano fatto di preciso, ma sembra abbiano fatto arrabbiare un generale in un altro campo. Olvidados pagava molti dei servizî che offrivamo nel campo, quindi queste settimane le ho passate a provare a riorganizzare le cose. Non è facile, ma le cose si stanno mettendo per il meglio, e anzi, complice la diminuita popolazione, siamo riusciti ad avviare un nuovo servizio: dare verdura fresca una volta alla settimana.

In tutto questo, una nota di colore. Questo qui è Ferchu, un volontario che lavora con l’associazione Pangea:

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Notate qualcosa? Forse no. Beh, ha un’orecchino, un piercing. Se l’è fatto qui. Un gruppo di altri volontarî gli aveva detto: se fai fare un piercing ti diamo 300 euro. Lui non se l’è fatto dire due volte. Detto fatto, eccolo lì che festeggia in posa il suo successo. Ovviamente i 300 euro li ha investiti per la gente del campo.

Soldi

Ad aprile scorso, prima di venire qui a Katsika, ho lanciato una raccolta fondi che mi avrebbe permesso di fare il volontario per qualche mese. In pochi giorni ho raccolto quasi sei mila euro (5753 per la precisione). Non sapendo quanto sarei rimasto, raggiunta questa cifra ho preferito chiudere la raccolta. Alle varie persone che mi hanno chiesto successivamente di contribuire, ho sempre detto che per il momento non c’era bisogno di inviare altro denaro, e che quando ne avessi avuto la necessità avrei fatto una nuova raccolta.

Questo post è per dire che non ce ne sarà bisogno. Un insieme di onlus piemontesi, il Consorzio Coesa, che è venuto a Katsika e ha visto il mio lavoro, si è offerto di coprire le mie spese fino a fine anno. Dopodiché vedremo la situazione del campo, e decideremo se continuare.

Alcuni dei soldi delle donazioni li ho spesi per il campo, la maggior parte per il mio sostentamento. Mi sono avanzati 620 euro, che investirò come donazioni per migliorare le condizioni del campo.

Le attività

Da giugno ho lasciato la gestione del negozio e faccio il coordinatore delle attività nel campo. Queste attività sono state create e vengono svolte ogni giorno da volontarî indipendenti (come me) e quelli di tre ONG spagnole che operano qui: Olvidados, Aire e Pangea.

Chi è stato a Katsika conosce bene queste attività, e le riconosce come uno dei tratti distintivi del campo. Ma chi non è mai venuto (e se non siete venuti, pensateci: perché non venite?) non le conosce e potrebbe non immaginare quante cose si possono organizzare in un campo profughi.

wp_20160902_10_44_14_proLa lavagna sulla quale ogni mattina assegniamo le attività per la giornata

C’è la scuola, che abbiamo costruito assieme e ora è gestita dalla comunità, alla quale noi forniamo insegnanti per le lingue straniere, principalmente inglese e tedesco (tutti vogliono andare in Germania, e se sanno un po’ di tedesco hanno più possibilità di essere mandati lì). C’è un asilo, per i bambini che non vanno ancora a scuola. C’è il cinema, che facciamo due volte a settimana, e mostriamo film – quasi sempre cartoni animati, ma va fortissimo anche Mister Bean – con un proiettore e delle casse.

C’è il baby food, che è l’attività con la quale diamo ogni giorno frutta fresca ai bambini dagli 0 ai 3 anni. C’è il Milky Way, che è la tenda nella quale diamo alle donne incinte o quelle che allattano, latte in polvere, pannolini, salviette, verdure e nutrienti. C’è una palestra, che abbiamo costruito con l’aiuto della comunità, e che ora è gestita da loro stessi, nella quale vengono svolte attività sportive ma anche di riabilitazione (ci sono persone nel campo che hanno subito le conseguenze della guerra). C’è la distribuzione dei sacchetti della spazzatura: vogliamo che le persone raccolgano la spazzatura loro stessi, ma noi forniamo i sacchetti, tenda per tenda. In questo modo abbiamo anche la possibilità di vedere se ci sono dei problemi nelle tende, se qualche bambino è malato, o cose di questo genere.

C’è un attivissimo gruppo di scout, diviso in diverse fasce d’età, che fa escursioni in tutto l’Epiro. C’è un gruppo di infermieri che porta le persone in ospedale (o le famiglie, per delle visite), segue i loro casi e le riporta a casa. Noi, non essendo ong mediche (qui nel campo c’è Medici del Mondo) non possiamo operare come dottori, ma svolgiamo queste attività di supporto coordinandoci con i medici.

C’è il negozio, che è dove diamo i vestiti: naturalmente non si paga, ma non abbiamo trovato un nome migliore di “shop”. Qui, ogni mese, tutti gli utenti del campo – seguendo un ordine sorteggiato – possono venire e prendere dei vestiti. All’inizio c’era una vera e propria emergenza, perché nessuno aveva altro che i vestiti che aveva indosso, ora che abbiamo fatto cinque volte il giro del campo cerchiamo di offrire un’esperienza più piacevole, senza corse, come fosse un vero negozio in una vita normale.

Poi c’è la porta, che è la difficilissima attività di tenere i bambini fuori dal magazzino. Gestiamo infatti due magazzini: quello più vecchio è un ex hangar all’interno del campo dove teniamo ciò di cui abbiamo bisogno per le attività giornaliere e per i bisogni della settimana corrente. C’è poi un nuovo magazzino, molto più grande e poco fuori dal campo, dove teniamo tutto il resto. Il materiale che teniamo nel nuovo magazzino non serve soltanto il campo di Katsika e l’edificio di Faneromeni (dove sono gli yazidi), ma i 5 campi profughi della regione dell’Epiro.

Durante l’estate abbiamo avuto la fortuna di avere tanti volontarî e questo ci ha permesso di mettere in piedi e mantenere attive tutte queste attività, ora che ce ne sono meno stiamo cercando di darci da fare per fare il possibile.

The story of Mohammed, Ahmed and Farhad

Versione italiana                                  

I’ve been working as a volunteer in the Katsika refugee camp in Greece, where I started writing a journal, since last April. The population of Katsika is made up of Syrians, Iraqis, Afghans, Kurds, as well as multiple other communities. They all got stuck here when the borders were closed, and they now live in tents set up by the Greek army, waiting for their turn, during a very slow registration process. Mohammed also lives in Katsika, with his cousins Ahmed and Farhad, and four others, with whom they share a tent. Telling their story might help the public understand the impact that our immigration policies have on humans, those who are at the receiving end of these policies, the ones that we are so used to overlooking. Yet, these people exist.

Mohamed just turned 18, but he is still 17 years old for the Syrian government. He was born in QāmishlÄ«, northern Syria, an area of the country with a large Kurdish population.  His dream used to be to become a physicist in the future; his WhatsApp chat with his cousin Ahmed is made of a long list of English words: every time he learns a new English word, he gets his phone out and sends it to Ahmed, saying, don’t worry, Ahmed will definitely be happy to learn it, too. His dream is to go study in Finland, because he read that the Finnish school system is the best for those who would like to study physics – who knows where he got that information? Actually, going to Finland used to be his dream once. Today, his dream would just be to “get out of here”.

Ahmed and Farhad are brothers, and they also come from northeastern Syria, around QāmishlÄ«. They’re 18 and 19 years old today, and they started their journey a year ago. Their Kurdish identity, their belonging to the largest stateless ethnicity,  was maybe one of the things that most influenced their childhood: they couldn’t speak their language, because “the Arab-speaking kids, or the teachers, may have snitched on us, and if Assad’s police found out about that, nobody would have ever heard of our family again”, tells us Mohammed. Farhad remembers when the teachers once slapped him after she heard him speak Kurdish with a schoolmate: “I still remember her name, Marae.” Ahmed also thinks about this issue, when remembering school: he tells of a massive fight, involving rocks and rods, between Kurdish and Arab boys.

ahfarhAhmed and Farhad as kids

Mohammed’s family, which is a good family, but also a poor one, due to an unwise investment, moves to Damascus and participates in the 2004 protests against the regime, for Kurdish independence. 6-year-old Mohammed sees the police threaten demonstrators with rifles from his window. A few days later, the police surrounds the Kurdish areas of town, tear gassing the streets for a week, ultimately locking people in their homes.

His family decides to flee to QāmishlÄ« again. At a police checkpoint, the officers see on Mohammed’s mother’s papers that they come from a village bearing an Arab name, which is why they are given right to pass. The village is actually Kurdish, though, it was the Syrian government that had forced them to have an Arabic name on the papers. A few days after the family flees, Assad’s militias attack the area of Damascus that was under siege, and incarcerate all Kurdish males over 18, to torture them with water, and electricity.

2010 sees the start of the Arab spring, and lots of demonstrations in Syria: a lot of Kurds move to Damascus to join them. Assad decides to respond with repression, a few of Mohammed’s friends disappear into thin air. Their fate is still not known today. When civil war breaks out, Mohammed’s family runs off to QāmishlÄ« again, while their father stays in Damascus. Mohammed becomes the head of the house for three months, despite being only 15 years old: “You grow up faster, in Syria,” he says.

“Finding food or electricity was like a dream back then” On top of all that, the tensions between Arabs and Kurds are also perceived strongly at school, with constant fights between the two groups. Mohammed stops attending school altogether, in the most important school year possible for someone attending the Syrian system. He studies at home, on his own, studies and studies, mostly physics and the English language, but also other stuff. He has to carry on studying in candle light at night. “I was afraid of sleeping because I didn’t know what would happen to me: but all this studying turned me into someone new.” One night, he overhears a voice in his doorway, and he is conscious that it is up to each individual to defend themselves in Syria at this point in time. His mind starts racing, asking in a panic, “what’s going to happen? What’s going to happen?” His mother also wakes up, and starts crying in fear. That’s life during civil war. Then, the voice disappears for a few minutes. Minutes become hours. They will never find out whether it was a thief, a militia man, or who else, but the voice doesn’t come back.

A few days later, the FSA (Free Syrian Army) attacks QāmishlÄ«. Russians aren’t happy about this, and they start bombing the area, helicopters flying overhead. Mohammed’s house shakes, once again everyone is weeping in fear. The following week, an airstrike hits an area near QāmishlÄ« where plenty of civilians had gathered to get shelter from the bombings. 25 people lose their lives, 12 of which are Mohammed’s relatives. “One of my cousins died because she ran to her mum when she heard the plane, instead of listening to her sister. She died with her mum.” The area surrounding QāmishlÄ« goes from Assad-controlled area, to FSA-controlled area, to Jabat al Nusra-controlled area, then Kurdish-controlled area. The city stays under Assad’s control, ISIS start attacking it, every month sees at least 5 car bombings happen.

%d9%a2%d9%a0%d9%a1%d9%a6%d9%a0%d9%a2%d9%a0%d9%a9_%d9%a0%d9%a9%d9%a1%d9%a6%d9%a0%d9%a3Mohammed in Iraq, wearing his favourite sweater: I still haven’t had the heart to tell him that “Ferrari” is misspelt

Ahmed and Farhad’s father is an electrician. When he works outdoors, he always wears a yellow hat, to show military planes that he is a worker, not a militia man, and avoid getting bombed this way. One day, Ahmed hears a mortar shot near his house. They get out to go help their neighbours, but they hear another shot, followed by many others, and they go back home. Ahmed, Farhad and their mother decide to find shelter at an uncle’s house, and while they’re on their way, another mortar shot goes off 20m away from them.

The danger that ISIS gets closer and closer to QāmishlÄ« becomes more and more concrete. Mohammed’s family decides to flee to Iraq, where they are welcomed, so to say, in one of the worst organised camps ever. Terrible bathrooms, not enough accommodation for all, and the accommodation that does get provided is in tents, in the Iraqi climate. Mohammed finishes his school year in the school that the Iraqi government provided for refugees.

Ahmed and Farhad must cross the Syrian-Iraqi border if they want to join Mohammed in Iraq: the problem is, the border is now closed. While Ahmed, who is still underage, can take the easier way out, for Farhad it might all get more dangerous, as he might get stopped and made to join the Krudish army. This is why he has to make his way around the military checkpoints, and is given a rifle, at one point, to cross the more densely controlled area. “If anyone asks any questions, tell them you’re a Kurdish fighter”, he is told. The entire area they need to cross is where ISIS and Peshmerga fighters are clashing, and Farhad is afraid each time he sees the flashlight of a military checkpoint. Finally, though, he manages to get to Iraq, the last one of the three.

Shortly afterwards, though, ISIS becomes a threat for this area, too. The local Kurdish council has a meeting, both Mohammed and his father add their names to the list, and are given a rifle, waiting for ISIS to come. The international coalition’s intervention changes the development of conflict in the area, though, and ISIS is temporarily pushed back. “There is no future in Iraq — says Mohammed — there is no chance to study or work.” “The only job you can get is that of a soldier, that is the only way to actually get a wage”, adds Ahmed.

Mohammed wants to go to Europe. He discusses the idea at length with Ahmed and Farhad, he wants to get to Germany, or Finland. They get to the conclusion that they want to try. Mohammed’s father doesn’t want to let him go, though, they argue every day — his father thinks that a journey like this will be dangerous, “so many people died”, he says. After months discussing, back and forth, Mohammed threatens his father, “I will run if you don’t give me your permission.” The father tells him “Go, then, but if you die, I will not want to see your body.” Saying farewell to his friends is also not easy: he’s been talking so long about leaving that no one believes he actually will anymore.

Mohammed’s family get in touch with a smuggler, who is connected, according to him, with “the mafia”; the smuggler tells them that he would get them all to Turkey for 350 USD each. Mohammed’s parents sell their house in Damascus, Ahmed and Farhad work for a year and a half to save up the money they need for their trip. The money will not be handed over right away, but when the family actually gets to Turkey. They leave from Dahuk, Duhok in Kurdish, in northern Iraq, where they had fled after ISIS attacked QāmishlÄ«.

dahukThe starting point of the long journey

The day they leave, a car picks them up at the refugee camp and takes them to a village, where they change cars, and get taken to another village. They will have ridden five different cars by the end, some of them belonging to corrupted police officers. Nobody asks any questions. At one point, they have to stop for the night and are put up in one of the smugglers’ home The following day, Mohammed is asked for more money, as apparently horses will be needed, to cross a river. This turns into an argument, Mohammed calls home and his father tells him to go back. In the end, they manage to agree on an amount in between their two ideas, as a compromise. This won’t be the last time somebody will try to cheat the boys. The last car takes them to the Iraqi-Turkish border, and there they start walking and carry on for two hours, guided by one of the smugglers, who leaves them at one point, saying they have to go to the Turkish army checkpoint. He tells them that that is the first step to getting to Europe, since that will take them to a Turkish refugee camp.

When Mohammed, Ahmed and Farhad get to the army checkpoint, the military points a rifle at them. Mohammed raises his hands, tries speaking English: he doesn’t want them to know he is Kurdish, this might be risky with the Turkish army. Finally, the Turkish officer tells them that he is also Kurdish, they have a laugh, they get taken to base, where they get checked and searched. The army says they have to wait for a truck. In the meantime, locals from the nearby villages, also Kurdish, give them some food. The truck comes three hours later, the military cram 40 people into it, one on top of the other. While driving, all kids cry, one woman feels sick. Luckily, the journey is quite short.

“And that’s how we entered hell”, said Mohammed. Hell is a military camp, where people get piled up into a canteen, sleeping on the floor, using their own jackets as a blanket. “I wish! Getting a spot on the floor to sleep was actually a dream. We were all crammed against one another”, tells me Farhad. One night, despite fearing repercussions, they manage to steal a blanket, which is a lot, when you have nothing. Bread is as hard as a rock, there are no showers. At 7AM everyone gets woken up and they have to go on cleaning duty in the camp. Only those who do the cleaning are allowed to charge their phones. That camp is a base for the Turkish army to attack the PKK, they can hear the bombings. They stay here for eight days, eight terrible days in the hands of soldiers who are always fighting with one another, as they can see.

Every day, 200 people are taken and moved to another camp. While this is technically the army’s task, the soldiers don’t take anyone anywhere before they get a bribe. Since this isn’t legal, the soldiers don’t do that in the base, but on the buses. They stop at a gas station, get everyone off the bus and threaten that they will go back. In the end, they agree on a fee of 15USD each.

The new stop is neither an actual refugee camp, nor a military base: it’s a basketball court, where people have to sleep on the ground, crammed against one another. Families are shown to the court, they are given a blanket, the boys, on the bleachers, get nothing. In the morning, they get a little yogurt, lunch is tomato soup, same as dinner. There are no showers, there are two toilets for men, two for women, there’s always a queue to access them. They cannot charge their phones, if they are caught connecting their mobiles to a plug, their phone gets broken. A boy who has a Kurdish flag on his phone cover has his phone confiscated, after which, the soldier throws it to the ground and proceeds to stamp on it with his feet.

6426bdc3-10ef-4cdf-a554-10c3fe29fd03The basketball court that was used as a camp for displaced people

During the days spent there, Farhad writes poetry to pass the time, Mohammed studies physics, and then he decides to start reading a book, Angels and Demons, by Dan Brown. He reads it, eats it up, convinces himself that the sooner he finishes the book, the sooner he will leave this new, horrible pace. Unfortunately, that is not the case. The procedure follows the date each individual got to the centre. After a week, it should be Mohammed, Ahmed and Farhad’s turn, but when the moment comes, their names aren’t called out. They ask the police, they get reassured: it’s a mistake, “we will call your names this afternoon, and you will leave this shitty camp.” In the afternoon, though, this doesn’t happen. They go back to the police that reassures them once more. This goes on for days, every day is the day they might get called, they get reassured and then never get called. “Every day we were waiting for our turn, it was terrible”, tells me Mohammed. They break a bottle and threaten suicide, if they don’t get called. They are reassured, again, this time by a higher-ranking officer, that tomorrow will be their turn. He does it while squeezing his moustache with his fingers, which is a way to swear on your honour in that part of the world. Once again, though, things don’t work out: half of the group in the camp gets taken away, but Mohammed, Ahmed and Farhad are in the half that is supposed to stay. Finally, somebody suggests bribing the interpreter. They go meet him, shake his hand and pass him 150 Turkish liras, about 50 euro. The following day, their three names are called: Farhad, Ahmed, Mohammed. Mohammed doesn’t even wait to hear his surname and rushes to the door. “You cannot imagine how happy I was to get out of there.” Mohammed talks to his family for the first time in a month: they spent 27 days there, in the end.

Unfortunately, this is not the end of their misfortunes. The truck is supposed to take them to downtown Van, but leaves them in an isolated area in the suburbs instead. They are told that they cannot reach the city centre, as they would get arrested by the police; they are directed to two buses, to Ä°zmir and Istanbul respectively. They are given tickets – which will turn out to be fake. They choose to go to Ä°zmir, as they are acquainted with a smuggler there who has promised to help them make their way to Greece. (This man they met online, though they come from the same area). The bus leaves, in theory towards Ä°zmir , but Mohammed has a feeling that something is not quite right: upon reaching a police checkpoint, the driver looks scared.

Meanwhile, Mohammed falls asleep. He awakes when a man wearing plain clothes and a gun tugs at him.The man searches him; he does not find anything on Mohammed, but he finds hashish and other drugs in small black plastic bags on the bus. The man tells the driver to follow him and makes all refugees get off the bus. They are somewhere in between MuÅŸ and Van. They are told that another bus of the same company will pick them up, but no one comes. They end up sleeping in the doorway of a restaurant, huddling together for warmth. They finally decide to rent a share taxi to get back to Van and get their money back. At this point, they are broke: they can only get money from their family once in Ä°zmir. They have no option but to turn to the bus company office in the city centre – yet the employee refuses to refund them. Eventually, they find themselves having to buy new tickets. Juan, a fellow refugee, lends them the money.

20160202_102440Ahmed and Farhad huddle together for warmth, with Juan, who helped them

This time around, they make it to Ä°zmir, where the army stops them and asks who speaks Arabic. Mohammed keeps silent, but Juan volunteers. They are pelted with questions: Where are you going? Why? “Had I been answering them, I would have said: ‘We are going to Greece’, and we would have been arrested and sent to Syria,” Mohammed adds, laughing. “Fortunately for us, this chatterbox was sleepy,” Farhad comments. In Ä°zmir, they manage to get in touch with the smuggler, who meets them at the bus station. After picking them up, he takes them to his place, telling them that they are now “part of his family”. “Liar!” Ahmed remembers. For the first time in days, they get to shower and wear clean clothes. “We feel renewed,” says Mohammed.

“As soon as we get the all clear, I’ll take you to the shore”. Six days pass, during which Mohammed, Ahmed, and Farhad live with the smuggler, spending their time and eating with his family. Mohammed only leaves the place once, to go buy a tire. The smuggler recommended doing that: you can swim better with one of those than you can with a life jacket. On the sixth day, the smuggler suddenly comes home saying “It is time. Run.” They get on a car, which takes them to another place, crowded with people ready to make the same trip across the sea. The smuggler leaves, saying he is going to check on the boat and bribe the police. “Do not discuss the price of the ‘service’ with anyone,” is the only warning he gives them. When he comes back, he loads them on a truck, five at a time, to avoid unwanted attention. They ride for 4.5 hours, packed like sardines and curled in fetal position. Within short distance, three rented taxis scour the streets for any trace of the police. They arrive at a village west of Ä°zmir, whence a small lifeboat will take them to a larger boat. It’s 2 a.m.

They wait for two hours, until the Turkish Coast Guard finish inspecting the area. They get onto the boat via the lifeboat, which then goes back to pick up more people. As it is making its way back, it begins sinking. Its passengers throw their belongings overboard and swim to the larger boat. One girl cannot swim: her father, who was already on board, jumps in the water to save her. Fortunately, he catches her in time. Several people are still on land, prompting the smugglers to abort the mission.They take the boat closer to land and order everyone to jump into the water. Then the smugglers get away to avoid been found there by the police. For the same reason, the refugees leave the beach, climb a nearby hill, and light a fire to dry off. Mohammed, Ahmed, and Farhad go without food, in the cold, for 24 hours. They steal some oranges from a hotel, and after hours of waiting, they resolve to take a van to Ä°zmir . Once in Ä°zmir they take a taxi, have the taxi driver talk to the smuggler, who directs them to a street far from his house so as not to be identified. As they get off the taxi, the smuggler is there.

5220b6b0-b94f-4169-bbb5-206b2c03dfd4People leaving the spot where they had had to light a fire to warm up

Four days later, it’s time for a new attempt, at 7 p.m. They quickly leave the smuggler’s house to a different place, where they are loaded on a truck in groups of five. This time, however, the truck jolts to a halt. They see the driver open the door and run away, they catch a flashing light and hear a siren. They all jump off the vehicle and run, run, run, hiding in the alleys. The other truck has been stopped, and its passengers are now in a Turkish prison, but they will not hear about this until later. They go back to the house of the smuggler, as they have before. “We were losing hope,” Mohammed says. The smuggler also warns them — this will be the last attempt. Should it fail, he will give up and refund their money. “We had a guarantee that the smuggler would not betray us or steal our money: his family is from QāmishlÄ«, so we knew them”.

The third time works out. This time around, they gather in a different place, as the old one has come to the attention of the police. The truck travels further, as to avoid the police. They get off in the same place as the first time. A sturdier lifeboat takes them to a larger boat. At this point, the smuggler leaves. The weather is horrible, extremely windy and rainy, with a rough sea. “I was so scared. People were praying,” Mohammed says. Among high waves, they change course multiple times. “My brain looked at water and saw land, and land seemed immensely closer than it actually was,” he adds. They call the smuggler, who tries to provide directions. In the distance, they see a city, and closer, an island, towards which they direct their course, in the dark. Then the island disappears from view.

Mohammed and Ahmed sit at the bow, water splashing their faces. They can neither move nor walk, as people are distributed so that the boat stays upright. When someone stands up, everybody else yells at him to sit down, “before you kill us all.” They see a different rocky island and plan on mooring there, but the light of a torch (which Mohammed brought along for no specific reason) shows there is nowhere to dock. The bay they are aiming for is just a bunch of rocks, into which they just avoided crashing. By now, the smuggler’s phone has been turned off: they are on their own. Over the following hour, they seek somewhere to dock, with the help of the torch, whose battery is running out quickly. The waves rock the boat, and the sun begins to rise. They come to the conclusion that they must “try at the other island, before daylight”.

wp_20160607_18_28_20_proMohammed posing with the flashlight that saved them

The passengers cry and yell “We are going to die!” as the boat goes through a narrow passage. They are not quite through when they see a much larger boat coming towards theirs. Many shriek; they are scared they are going to crash. They decide to switch the engine off. The waves from the larger boat almost capsizes theirs. The engine is switched back on; they are closer to land. Life jackets start floating around them: this is a good sign, they must have been discarded by a previous group of refugees. Someone calls the Red Cross from their phone, then hands it to Mohammed, who speaks English: “Help us get there!”. They make it to the shore. They are now on the island of Chios, Greece, Europe. Some jump into the water in order to drag the boat and help everyone else. Mohammed is the last off, after helping women and children onto land. He finally takes his jacket and socks off and gets into the water: “I was just so, so happy”.

When they speak again with the Red Cross staff, they are told they will have to go back to Turkey. The area is isolated, people are scared: “oh God, are they seriously taking us back to Turkey?”. A boat is approaching quickly, and the crew tell them, in Turkish, to come on board. People run off. “I was not going to run,” Mohammed says, “I knew Turks are not allowed onto Greek land”. That was a NATO boat, with a Sudanese, French, Danish, and American crew, “like a cocktail mix,” Mohammed laughs. They are taken to the town of Chios. Their names are recorded; they are given a map. They buy a bus ticket to the harbour and a ferry ticket to Athens.

After a 24 hour ferry ride, they reach Athens, whence buses take them to Katsika refugee camp and leave with no explanation. “Shit! A tent camp,” Ahmed comments. They get off the bus. “As soon as we are there, we are lined up, given a white card, and directed to a tent. The tent is empty apart from three sleeping bags.” They thought it would be a matter of days; six months later, they have not left the camp. The borders are still closed.

Translated by Paola Natalucci and Annika Gialdini 

 

 

Storia di Mohammed, Ahmed e Farhad

per Il Post

Da aprile faccio il volontario nel campo profughi di Katsika, in Grecia, dove tengo un diario. A Katsika vivono siriani, iracheni, afgani, curdi e diverse altre comunità. Sono rimasti bloccati dalla chiusura delle frontiere e ora vivono in tende allestite dall’esercito greco in attesa di una lentissima procedura di registrazione. A Katsika vive anche Mohammed, assieme ai suoi cugini Ahmed e Farhad, e altri quattro compagni di tenda. Raccontare la loro storia può essere utile a capire l’impatto che le nostre politiche migratorie hanno sugli esseri umani, quelli che subiscono le scelte dei nostri governi, e siamo semplicemente abituati a non vedere. Ma esistono.

Mohammed ha appena compiuto 18 anni, per il governo siriano ne ha ancora 17. È nato a QāmishlÄ«, nel nord della Siria, in una zona a forte prevalenza curda. Da grande vuole fare il fisico. La chat di What’s App fra lui e il cugino Ahmed è una lunga lista di parole inglesi. Ogni volta che dico una parola inglese che non conosce tira fuori il cellulare e la invia a Ahmed: «non ti preoccupare, sarà contento anche lui di impararla». Il suo sogno è andare a finire gli studî in Finlandia perché – chissà dove ha trovato questa informazione – è lì che c’è il miglior sistema educativo per chi studia fisica. In realtà quello di andare in Finlandia era il suo sogno, ora gli basta «andare via di qui».

Anche Ahmed e Farhad, che sono fratelli, vengono dal nord est della Siria, dalla zona intorno a QāmishlÄ«. Oggi hanno 18 e 19 anni, uno in più di quando hanno cominciato la loro lunga traversata. È l’appartenenza alla più grande etnia senza Stato, quella curda, a marcare l’infanzia dei tre: a scuola non possono parlare la propria lingua perché «i bambini arabi, o l’insegnante, avrebbero potuto fare la spia, la polizia di Assad lo sarebbe venuto a sapere e nessuno avrebbe saputo più nulla di me o della mia famiglia», racconta Mohammed. Farhad ricorda di una volta che l’insegnante lo schiaffeggiò per averlo sentito parlare in curdo con un compagno: «a oggi non dimentico il suo nome, Marae». Anche Ahmed, quando pensa ai giorni della scuola, parla dello stesso tema: una gigantesca rissa con sassi e spranghe fra ragazzi curdi e arabi.

ahfarhAhmed e Farhad da bambini

La famiglia di Mohammed, che è importante ma povera per un investimento sbagliato, si trasferisce a Damasco e partecipa nel 2004 alle manifestazioni contro il regime, per l’indipendentismo curdo. All’età di sei anni Mohammed vede, dalla propria porta di casa, la polizia che minaccia i manifestanti con i fucili. Giorni dopo circondano i quartieri curdi della città e lanciano lacrimogeni per una settimana, impedendo alle persone di uscire.

La sua famiglia decide di fuggire nuovamente a QāmishlÄ«, si presentano al posto di blocco e mostrano i documenti della madre di Mohammed: i militari vedono che il suo villaggio d’origine ha un nome arabo e per questo vengono fatti passare. Il paradosso è che il villaggio è curdo, ed era stato lo stesso governo siriano a imporre la cancellazione del nome curdo sui documenti. Qualche giorno dopo le milizie di Assad attaccano la zona assediata e incarcerano tutti gli uomini curdi sopra i diciotto anni per poi torturarli con l’elettricità e l’acqua.

Nel 2010 comincia la primavera araba, in Siria ci sono diverse manifestazioni: tanti curdi si trasferiscono a Damasco per parteciparvi. Assad decide di rispondere con la repressione, un paio di amici di Mohammed spariscono nel nulla: a oggi non si sa che fine abbiano fatto. Quando arriva la guerra civile la famiglia di Mohammed scappa nuovamente a QāmishlÄ«, mentre il padre rimane a Damasco: per tre mesi Mohammed diventa “l’uomo di casa”, benché sia solo quindicenne. «In Siria si diventa uomini prima», dice lui.

«A quel tempo, trovare cibo o avere l’elettricità era un sogno». In più le tensioni fra arabi e curdi si riflettono anche a scuola, dove ci sono risse quotidiane. Mohammed smette di andarci, in quello che è l’anno più importante del sistema scolastico siriano. Studia a casa, e studia, e studia. Principalmente fisica e inglese, ma un po’ di tutto. La notte lo fa al lume delle candele, «per la paura di dormire, non sapevo cosa mi sarebbe potuto succedere: ma tutto questo studio mi ha reso un’altra persona». Una notte sente una voce dentro al portone di casa – in Siria non c’è governo e ognuno deve difendere sé stesso – comincia a pensare mille cose, a domandarsi «cosa succederà? Cosa succederà?» rapito dal panico; anche la mamma si sveglia, e comincia a piangere per la paura. È così che si vive in quei giorni di guerra civile. Poi la voce non si sente più: passa qualche minuto, poi qualche ora: chissà se era un ladro, un miliziano o chissà chi altro.

Qualche giorno dopo l’FSA, l’esercito libero siriano, attacca QāmishlÄ«. Ai russi non fa piacere, e un elicottero del Cremlino comincia a bombardarli. La casa di Mohammed trema, ancora una volta tutti piangono per il terrore. La settimana successiva un aereo colpisce un’area, nei pressi di QāmishlÄ«, dove si sono raccolti molti civili per sfuggire ai bombardamenti. Muoiono 25 persone, 12 appartengono alla famiglia di Mohammed. «Una mia cugina è morta perché, anziché obbedire alla sorella, quando ha sentito l’aereo è corsa dalla madre ed è finita uccisa con lei». La zona intorno a QāmishlÄ« passa dal controllo di Assad, a quello della FSA, a quello di Jabat al Nusra, a quello curdo. La città rimane sotto Assad, l’Isis comincia ad attaccarla, ogni mese esplodono qualcosa come cinque autobombe.

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Mohammed in Iraq, qui indossa la sua felpa preferita: non ho ancora avuto cuore di dirgli che c’è un errore d’ortografia nella scritta Ferrari

Il padre di Ahmed e Farhad lavora come elettricista, quando opera all’aperto indossa sempre un cappello giallo: serve a segnalare agli aerei militari che è un lavoratore e non un miliziano così da non essere bombardato. Un giorno Ahmed sente un colpo di mortaio esplodere vicino casa. Escono per cercare di aiutare i vicini, ma sentono un altro colpo, poi un altro, poi un altro ancora. Tornano a casa. Ahmed, Farhad e la madre decidono di scappare a casa di uno zio, mentre sono per strada un altro colpo di mortaio esplode a 20 metri da loro.

Il pericolo che l’Isis arrivi a QāmishlÄ« diventa sempre più concreto, e la famiglia di Mohammed decide di scappare nel nord dell’Iraq, dove vengono accolti – si fa per dire – in un campo profughi dei peggio organizzati. I bagni sono indegni, non ci sono alloggi per tutti, quelli che ce li hanno devono comunque vivere in una tenda nel clima iracheno. Mohammed finisce l’anno scolastico nella scuola per rifugiati istituita dal governo iracheno.

Per raggiungere Mohammed in Iraq, Ahmed e Farhad devono passare il confine siriano, che ora è chiuso. Mentre Ahmed, che è ancora minorenne, può prendere la via più facile, Farhad, che è maggiorenne, potrebbe essere fermato e reclutato nella leva curda. Per questo deve aggirare gli appostamenti militari posti sulla via civile, e in un tratto – quello con più controlli – riceve un fucile e: «se qualcuno ti chiede qualcosa, di’ che sei un combattente curdo». Tutta la zona che passano è teatro di guerra fra l’ISIS e i Peshmerga, e Farhad è impaurito a ogni torcia di ogni poliziotto di ogni posto di blocco. Alla fine, ultimo dei tre, anche lui riesce ad arrivare in Iraq.

Qualche tempo dopo, però, si concretizza il rischio che l’Isis arrivi anche qui: si riunisce il consiglio dei curdi della zona, sia Mohammed che il padre danno i proprî nomi e vengono dotati di un fucile in attesa dell’invasione dello Stato islamico. L’intervento della coalizione internazionale ribalta le sorti del conflitto, in quell’area, e lo Stato islamico viene temporaneamente scacciato. «Ma Iraq non c’è futuro – dice Mohammed – non c’è la possibilità di studiare o di lavorare», «l’unico lavoro che si può fare – aggiunge Ahmed – è il soldato, solo a quel modo puoi avere uno stipendio».

Mohammed vuole andare in Europa, ne parla a lungo con Ahmed e Farhad, vuole arrivare in Germania o in Finlandia. Arrivano alla conclusione che ci vogliono provare. Il padre di Mohammed, invece, non lo vuole lasciar andare; lui discute ogni giorno con suo padre che teme che un viaggio simile sia pericoloso, «tante persone ci sono morte», gli dice. Dopo un tira e molla che dura mesi, Mohammed minaccia: «se non mi fai andare scappo di casa», il padre gli risponde: «va bene, vai, ma se muori non vorrò vedere il tuo corpo». Anche il saluto con gli amici non è il migliore: ha detto talmente tante volte che sarebbe partito che questa volta, che lo fa per davvero, non gli credono più.

La famiglia di Mohammed conosce un trafficante, che aveva legami con quella che lui definisce «la mafia», che per 350 dollari a persona li avrebbe fatti arrivare in Turchia. I genitori di Mohammed vendono la casa che hanno a Damasco, Ahmed e il Farhad lavorano per un anno e mezzo per mettere da parte i soldi necessarî al viaggio. Il denaro non viene pagato subito, ma sarà pagato dalle famiglie all’arrivo in Turchia. Partono da Dahuk, o Duhok in curdo, nel nord dell’Iraq dove erano fuggiti per l’attacco dell’Isis a QāmishlÄ«.

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Dove comincia il loro lungo viaggio

Il giorno della partenza una macchina li va a prendere al campo profughi, li porta in un villaggio, dove vengono caricati su un’altra macchina, che li porta in un altro villaggio. Alla fine cambieranno cinque automobili, alcune della polizia, corrotte dai trafficanti. Nessuno chiede loro nulla. A un certo punto devono fermarsi per la notte e vengono portati a dormire in casa di uno dei trafficanti. Il mattino seguente i trafficanti chiedono loro più soldi: servono dei cavalli per attraversare un fiume, a quanto pare. Ne nasce un litigio, Mohammed chiama a casa, il padre gli dice «torna indietro». Alla fine riescono ad accordarsi per una cifra di mezzo. Non sarà l’ultima volta che qualcuno tenterà di ingannarli.

L’ultima macchina li porta sulle montagne fra la Turchia e l’Iraq, da lì camminano per due ore, guidati da uno dei trafficanti. Questi, a un certo punto, li abbandona dicendo loro che basta proseguire per arrivare all’appostamento dell’esercito turco. È lì che devono consegnarsi: arrendersi ai militari Turchia è il primo passo per arrivare in Europa, perché saranno loro a portarli in un campo profughi in Turchia.

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Mohammed sulle montagne fra Iraq e Turchia

Appena Mohammed, Ahmed e Farhad arrivano all’appostamento dell’esercito, si vedono puntare addosso un fucile. Mohammed alza le mani e prova a parlare in inglese. Non vogliono mostrare di essere curdi, perché potrebbe essere rischioso con l’esercito turco. In realtà il militare stesso dice loro «guardate che sono curdo anche io». Si fanno una risata. Vengono portati alla base militare, lì li controllano, li perquisiscono. L’esercito dice che devono aspettare l’arrivo di un camion, nel frattempo i civili – curdi – dei villaggi vicini danno loro del cibo; tre ore dopo il camion arriva, i militari ci caricano quaranta persone schiacciate l’una sull’altra. Durante il tragitto tutti i bambini piangono, una donna vomita. Per fortuna il viaggio è corto.

«È così che arriviamo all’inferno», dice Mohammed. L’inferno è un campo militare, dove vengono accatastati in una mensa, dormendo per terra, con la propria giacca come coperta. «Magari! – dice Farhad – trovare un posto per terra per sdraiarsi era un sogno, eravamo tutti schiacciati gli uni contro gli altri». Una notte, a rischio di pesanti ritorsioni, riescono a rubare una coperta: per il nulla che hanno è già molto. Il pane è legno, non c’è la doccia: alle sette del mattino vengono svegliati per pulire, e solo chi fa le pulizie nel campo ha il permesso di caricare il cellulare. Da quel campo l’esercito turco attacca il PKK, loro sentono i bombardamenti. Rimangono nel campo per otto giorni, otto giorni terribili in mano a soldati che vedono regolarmente scazzottarsi fra loro.

Ogni giorno 200 persone vengono spostate a un altro campo: ufficialmente è compito dell’esercito, in realtà se non pagano la mazzetta non ce li portano. Dato che non è legale, non lo fanno nella base, ma quando sono sul pullman: si fermano in un’area di servizio, fanno scendere tutti e li minacciano di tornare indietro. Alla fine si accordano sul pagare 15 dollari a persona.

La nuova tappa non è né un vero campo profughi né una base militare, bensì un campo da basket dove le persone sono costrette a dormire per terra, stipate l’una di fianco all’altra. Le famiglie vengono accomodate sul terreno di gioco, e ricevono una coperta; i ragazzi sugli spalti, e non ricevono nulla. Al mattino gli viene data una ramaiolata di yogurt, a pranzo zuppa di pomodoro, a cena lo stesso. Non c’è la doccia, ci sono due bagni per i maschi e due per le femmine, e in ogni momento del giorno c’è una fila lunghissima per arrivarci. Non possono caricare il cellulare, se li beccano collegarsi a una presa elettrica glielo rompono. Un ragazzo che aveva una bandiera curda sulla mascherina del cellulare se lo vede sequestrare, poi il soldato lo sbatte per terra e lo calpesta con gli stivali.

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Il campo da basket trasformato in campo profughi

Nei giorni lì, per passare il tempo, Farhad scrive poesie, Mohammed studia fisica, poi decide di cominciare un libro: Angeli e demoni di Dan Brown. Lo legge, lo fagocita, fra sé e sé si convince che prima finirà il libro, prima verrà portato via da questo nuovo posto orribile. Purtroppo non succede: la procedura è basata sul giorno di arrivo nella struttura, e dopo una settimana dovrebbe essere il turno del gruppo di Mohammed, Ahmed e Farhad. Arriva il momento e non vengono chiamati. Vanno a chiedere alla polizia che li rassicura: è un errore, «chiameremo i vostri nomi nel pomeriggio e lascerete questo campo di merda». Nel pomeriggio, però, saltano il turno di chiamata. Ritornano dalla polizia, che li rassicura nuovamente. Questa tiritera va avanti per giorni, nei quali sperano di essere chiamati, ricevono garanzie in questa direzione e poi non vengono chiamati: «ogni giorno aspettavamo il nostro nome, era terribile», dice Mohammed.

Rompono una bottiglia e minacciano di ammazzarsi se non verranno chiamati il giorno successivo, questa volta un graduato dell’esercito promette loro che l’indomani sarebbero andati, e lo fa stringendosi i baffi fra le dita, un modo mediorientale di giurare sul proprio onore. Purtroppo neanche questa volta va a buon fine: prendono metà del gruppo, Mohammed, Ahmed e Farhad sono nell’altra metà. Alla fine qualcuno suggerisce loro di corrompere l’interprete, vanno da lui, gli stringono la mano con in mezzo 150 lire turche, 50€. L’indomani arrivano i tre nomi: Farhad, Ahmed, Mohammed. Mohammed non aspetta neanche che dicano il suo cognome e corre verso la porta. «Non puoi immaginare quanto ero felice di andare via da quel posto». Mohammed parla con la propria famiglia per la prima volta dopo più di un mese. Sono rimasti lì per 27 giorni.

Purtroppo le disavventure non finiscono qui: il camion che doveva portarli nel centro della città di Van li lascia invece in un posto abbandonato della periferia. Dicono loro che non possono andare nel centro cittadino perché la polizia li arresterebbe; invece indicano loro due bus per Smirne e Istanbul. Danno loro dei biglietti che si riveleranno essere falsi, pagano la tratta per Smirne, perché è lì che conoscono il trafficante che ha promesso di farli arrivare in Grecia (si sono conosciuti via internet, per quanto siano originarî della stessa zona). Il pullman parte, teoricamente alla volta di Smirne, ma subito Mohammed nota che c’è qualcosa di strano: a un controllo della polizia il guidatore sembra impaurito.

Nel frattempo Mohammed si addormenta, si risveglia quando viene strattonato da un uomo in vestiti civili, ma con una pistola. Questi lo perquisisce, e ovviamente non trova nulla, ma in un compartimento del pullman trova hashish e altre droghe dentro sacchetti di plastica nera. L’uomo dice al guidatore di seguirlo e fa scendere tutti i rifugiati, fra le città di Mus e Van. Promettono loro che un altro bus dalla compagnia arriverà. Nessuno arriva. Finiscono a dormire di fronte a un ristorante, abbracciandosi per il freddo. Quindi decidono di affittare un taxi collettivo per tornare indietro a Van e riavere i soldi. A questo punto sono completamente al verde, perché altri soldi dovrebbero arrivare loro dalla famiglia una volta a Smirne. A questo punto sono costretti ad andare nel centro città, ma l’inserviente della compagnia si rifiuta di ridar loro i soldi. Alla fine sono costretti a ripagare il biglietto, i soldi glieli presta un altro profugo che è con loro, Juan.

20160202_102440Ahmed e Farhad si stringono per il freddo, assieme a loro Juan, che li ha aiutati

Questa volta riescono ad arrivare a Smirne, ma in città vengono fermati dall’esercito che chiede loro chi sappia parlare arabo. Mohammed non dice “io”, ma Juan dice di sì: cominciano le domande. Dove andate? Che fate? «Se avessero fatto le stesse domande a me, avrei risposto “andiamo in Grecia”, ci avrebbero arrestati e mandati in Siria», dice Mohammed ridendo. «Per fortuna quel chiacchierone era assonnato», commenta Farhad. A Smirne riescono a mettersi in contatto con il loro trafficante, che dice loro di incontrarsi alla stazione dei bus. Lì li raccoglie, li porta nella propria casa, e dice loro: «ora siete parte della mia famiglia». «Che bugiardo!», ricorda Ahmed. Per la prima volta dopo giorni riescono a farsi una doccia e cambiarsi i vestiti: «siamo persone nuove», dice Mohammed.

«Aspettiamo che la strada sia libera, poi vi porto al mare». Passano sei giorni, nei quali Mohammed, Ahmed e Farhad vivono a casa del trafficante, mangiando e passando il tempo assieme alla sua famiglia. L’unica volta che Mohammed si allontana dalla casa è per andare a comprare uno pneumatico. È il trafficante stesso a dirgli che è meglio di un giubbotto di salvataggio perché con lo pneumatico puoi nuotare meglio. Poi, durante il sesto giorno, da un momento all’altro, il trafficante arriva in casa e dice: «è il momento, correte». Prendono un’auto che li porta in un’altra casa dove è presente un nutrito gruppo di persone che deve fare la stessa traversata. Nel frattempo il trafficante si allontana, dice che va a controllare la barca e corrompere la polizia. L’unica indicazione che dà loro è «non parlate con nessuno del prezzo del “servizio”». Quando torna dice a tutti di raggiungere – cinque alla volta per non dare nell’occhio – un camion sul quale li fa montare schiacciati in posizione fetale per quattro ore e mezzo gli uni contro gli altri. Attorno al camion ci sono tre taxi affittati dai trafficanti per perlustrare le strade prima che passi la polizia. Arrivano in un villaggio a ovest di Smirne, dove c’è una piccola scialuppa che li deve portare alla barca più grande. Sono le due di notte.

Aspettano due ore perché la guarda costiera turca sta perlustrando la zona. Con la scialuppa arrivano alla barca più grande, poi la scialuppa torna indietro a raccattare altre persone. Quando ritorna, la vedono in lontananza che comincia ad affondare. Quelli che sono sulla scialuppa buttano tutti i loro averi in mare e arrivano a nuoto alla barca. Una bambina non sa nuotare, il padre, che era già sulla barca, si butta in acqua per salvarla, e per fortuna fa in tempo. Diverse persone sono però rimaste a terra, quindi i trafficanti decidono di abortire la missione: portano la nave vicino alla riva e poi dicono a tutti di buttarsi in acqua. I trafficanti fuggono via per non essere trovati dalla polizia; per la stessa ragione, anche le persone che erano sulla barca scappano lontano dalla spiaggia, salgono su una collina adiacente, accendono un fuoco e si asciugano. Mohammed, Ahmed e Farhad restano affamati e infreddoliti per 24 ore, rubano delle arance in un albergo, poi dopo altre ore e ore di attesa decidono di prendere un furgone per Smirne. Una volta arrivati a Smirne prendono un taxi, fanno parlare il tassista con il trafficante che indica al tassista una strada dove vedersi, lontana dalla propria casa, cosicché questi non possa rintracciarlo. Scendono ed è lì che il trafficante li raccoglie.

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La carovana di gente che si allontana dal luogo dove hanno acceso il fuoco per riscaldarsi

Dopo altri quattro giorni è la volta di un nuovo tentativo, alle sette di sera, con la stessa modalità: in quattro e quattr’otto escono, arrivano in un’altra casa, vengono fatti salire a cinque a cinque su un camion. Questa volta, però, nel tragitto avvertono una brusca frenata, poi vedono il guidatore aprire lo sportello e scappare, intravedono un lampeggiante e sentono una sirena, tutti scendono di corsa e corrono, corrono, corrono, per nascondersi nelle viuzze. Verranno a sapere che l’altro camion è stato intercettato e i profughi che erano a bordo sono ora in un carcere turco. Nella stessa maniera della volta precedente tornano a casa del trafficante. «Avevamo perso le speranze», dice Mohammed. Anche il trafficante annuncia loro che questo è l’ultimo tentativo, se non va a buon fine restituirà loro i soldi e abbandonerà l’intento. «La nostra garanzia che il trafficante non ci avrebbe ingannato o derubato era nel fatto che questi fosse originario di QāmishlÄ«, perciò conoscevamo la sua famiglia».

Il terzo tentativo è quello buono: stavolta cambiano rifugio, perché la polizia è a conoscenza di quello vecchio. Il camion fa molta più strada, in modo da evitare la polizia. Arrivano allo stesso luogo della prima volta: c’è una scialuppa migliore che li porta a una barca più grande. Il trafficante li porta a questa barca poi va via. Il clima è pessimo: c’è molto vento e piove, il mare è molto agitato. «Ero molto impaurito, la gente pregava», dice Mohammed. Sbagliano rotta più volte, in acque molto mosse. «Il mio cervello pensava che l’acqua fosse terra, e la terra sembrava enormemente più vicina», aggiunge. Telefonano al trafficante che prova a dare loro indicazioni. Vedono una città in lontananza, e un’isola più vicina, quindi decidono di dirigersi verso quest’isola, più buia, e l’isola scompare.

Mohammed e Ahmed erano a prua e le onde sbattevano loro in faccia: non potevano spostarsi né camminare perché tutte le persone erano posizionate per lasciare la barca in equilibrio; a un certo punto una persona si alza in piedi, gli altri gli urlano «siediti, ché ci fai morire tutti!». Vedono un’altra isola rocciosa, dove vogliono attraccare, ma – grazie a una torcia che Mohammed aveva portato senza una vera ragione – si rendono conto che non c’è alcun punto di attracco, e la baia dove stanno dirigendosi è invece un agglomerato di rocce, scampando così a un naufragio. A questo punto il trafficante stacca il telefono, e li lascia al loro destino. Per un’ora cercano un punto d’attracco, con la batteria della torcia che sta finendo. Le onde cominciano a prendere possesso della barca, intanto sorge il sole dell’alba. Si dicono: “dobbiamo provare ad andare all’altra isola, prima che ci sia troppa luce”.

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Mohammed sorride in posa con la torcia che li ha salvati

La barca passa per uno stretto, tutti piangono, la gente grida “moriremo!”; quando arrivano nel mezzo dello stretto vedono una barca molto grande dalla parte opposta, tutti urlano, hanno paura di andargli contro, decidono di fermare il motore. Le onde provocate dalla barca più grande porta la loro quasi a rovesciarsi. Riaccendono il motore, si avvicinano a riva. Cominciano a vedere dei giubbotti di salvataggio in acqua: è un buon segno, sono quelli abbandonati dagli altri profughi. Alcune persone dalla barca telefonano alla Croce Rossa, il telefono viene passato a Mohammed perché parla inglese: «dateci indicazioni!». Riescono ad arrivare alla costa: sono sull’isola di Chios, in Greca, in Europa. Scendono in acqua per trascinare la barca e portare a riva le persone. Mohammed è l’ultimo a scendere, aiuta donne e bambini. Poi lancia la sua giacca, i calzini, e si butta in acqua «ero molto, molto felice».

Riparlano con la Croce Rossa che dice loro: «dovete tornare in Turchia». Sono in una zona disabitata, tutti sono impauriti: «o mio Dio magari ci portano davvero in Turchia». Vedono una barca che si avvicina velocemente nella loro direzione. L’equipaggio della barca dice loro, in turco, “venite”. Tutti scappano. «Io non scappo – dice Mohammed – sapevo che i turchi non possono avvicinarsi alle coste greche». Era una barca della NATO, l’equipaggio era sudanese, francese, danese, americano, «come un cocktail», dice Mohammed ridendo. Li portano alla città di Chios. Lì registrano i loro nomi e danno loro una mappa. Comprano un biglietto dell’autobus per il porto e uno della barca per Atene.

Dopo 24 ore in barca arrivano ad Atene, lì li aspettano degli autobus che – senza spiegare loro nulla su dove li stiano portando – li lasciano nel campo profughi di Katsika e se ne vanno. «Cazzo, è un campo di tende», commenta Ahmed. Scendono dal bus. «Quando arriviamo ci mettono in fila, ci danno una tessera bianca e ci indicano una tenda. La tenda è completamente vuota, ci sono solo tre sacchi a pelo». Pensavano di stare lì per qualche giorno, sono passati sei mesi e sono ancora qua. Le frontiere sono ancora chiuse.

La manifestazione

A Ioannina il clima è pessimo. L’estate è calda, e l’inverno è molto freddo, oltre a essere tutto l’anno una zona molto umida e quindi piovosa. Mentre in estate ci si arrangia con i ventilatori, quando arriverà il freddo, quello vero, sarà davvero dura. Le Nazioni Unite hanno preso l’impegno di non far passare l’inverno in tende a nessuno dei profughi che ora sono in Grecia, soltanto che – come molte volte accade – il tempo sta passando e le soluzioni non sono pronte.

Per questo dopo ripetuti incontri nella quale la situazione non si sbloccava, i profughi del campo di Katsika hanno deciso di organizzare una marcia: l’altro ieri sono usciti dal campo, e hanno percorso la strada che li separa dal paesino di Katsikas.

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Dopodiché si sono fermati nella piazza centrale del paese e si sono accampati lì. Chiedono un impegno scritto con una data in cui avranno edifici, prefabbricati o container.

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Nessuno è intervenuto, la polizia controlla la situazione ma lascia fare. Per quello che vedo io, le possibilità che questa manifestazione risulti in qualche cosa sono davvero poche. Se UNHCR dovesse concedere qualcosa ai profughi di Katsika, si ritroverebbe con tutti gli altri campi in strada.

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Spero di sbagliarmi, ma ho paura che sarà un ulteriore sacrificio inutile.