Perché il voto all’ONU sulla Palestina è una cosa buona

per il Post

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Il problema del conflitto israelo-palestinese è sempre stato che le due parti non hanno mai voluto la pace: per essere garbati, questo pensiero si formula con “non sono disposti a fare le concessioni necessarie alla pace”, che però vuol dire la stessa cosa. Più precisamente, non hanno mai voluto la pace nello stesso momento: ogni tanto una delle due parti si è mostrata più disposta a trattare, ma questa buona disposizione non è mai venuta in contemporanea.

Questo non è un caso: da sempre il conflitto arabo-israeliano è un conflitto che non si basa sulla conciliazione, ma sulla dimostrazione di forza. L’Egitto non avrebbe mai accettato la pace con Israele, se Israele non si fosse dimostrato invincibile, nel ’48, nel ’56, nel ’67. Ma Israele non avrebbe accettato la pace con l’Egitto se, nel ’73, non avesse avuto la dimostrazione che gli egiziani non avrebbero perso per sempre. Si può dire la stessa cosa della Giordania, e di tante piccole vicende nelle quali la pace è sempre stata una resa al realismo: non c’è modo di liberarcene, dovremo conviverci.

Per questo, e per quanto cinico possa sembrare, ciascuna delle due parti rimaste – Israele e Palestina – è sempre stata disposta a fare concessioni nel momento di maggior forza (contrattuale, non necessariamente militare) della parte avversa. È un circolo vizioso nel quale, ineluttabilmente, quando una mano si avvicina l’altra mano si allontana, ed è un meccanismo che difficilmente verrà spezzato dalle due parti in causa, specie se si considera la totale sfiducia reciproca maturata negli anni. È perciò una coazione a ripetersi che si può (e si deve) infrangere solo con degli interventi esterni.

In questo momento la parte meno disposta alle trattative è certamente Israele – tengo un momento da parte Hamas, su cui tornerò. La società israeliana ha vissuto il rifiuto dell’accordo di Camp David-Taba del 2001-02 come un tradimento dei proprî migliori sforzi, e il successivo lancio della seconda intifada come la dimostrazione che i palestinesi non fossero veramente interessati alla pace. Da lì in poi, i partiti più inclini alle trattative hanno continuato a perdere consensi (nelle ultime elezioni il partito laburista, quello che aveva governato Israele per i primi trent’anni di vita, quello erede di Ben Gurion, Golda Meir e Rabin, è sceso sotto al 10%), e l’opinione pubblica ha maturato un cinismo ben rispecchiato nella politica di Benjamin Netanyahu nei confronti del processo di pace: processo di pace? Quale processo?

Anche nello spiegare questo passaggio ci vuole un bagno di cinismo: la costruzione del Muro e la conseguente, virtuale, fine del terrorismo suicida ha privato l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) del proprio potere contrattuale. È per questo che la promessa della fine degli attentati, che negli anni ’90 era stato il principale impegno che i palestinesi avevano messo sul piatto, non conferisce la forza che aveva in sede di trattativa. Per questo in Israele si sono avvicendate due politiche: quella di Sharon e Olmert che si poteva, icasticamente, riassumere in «non ci possiamo fidare dei palestinesi, decidiamo noi cosa sarà Israele e cosa Palestina senza consultarli», e quella di Netanyahu che, altrettanto icasticamente, si può riassumere in: «non ci possiamo fidare dei palestinesi, facciamoli crescere economicamente e si dimenticheranno che gli manca uno Stato».

In questo senso Netanyahu sa che Israele non potrà mai aspirare, territorialmente, a niente più dello status quo – escludendo, ovviamente, deportazioni di massa, Ramallah o Jenin non potranno mai tornare sotto il controllo israeliano come prima degli Accordi di Oslo. Perciò il rimandare ogni trattativa è il modo migliore per evitare qualunque concessione. Allo stesso tempo, e proprio in ossequio al meccanismo richiamato sopra, l’ANP è disposta ad accettare concessioni e compromessi come mai era stato nella storia. Questa disposizione alla trattativa non può essere sempre pubblicizzata, perché non incontra il favore dell’opinione pubblica (come del resto è stato per ogni precedente trattativa, anche quelle poi andate in porto), ma è un dato di dominio pubblico almeno dalla pubblicazione dei “Palestine Papers“.

Perciò torniamo all’inizio: l’unica soluzione è l’intervento esterno di qualcuno, principalmente gli Stati Uniti ma il mondo in generale, che spezzi il circolo vizioso e avvicini – anche controvoglia – la mano meno tesa, in questo momento quella d’Israele. È questo il quadro in cui si inscrive il voto di ieri sull’ammissione della Palestina come Stato osservatore all’ONU. Delle varie obiezioni di parte israeliana a quel voto, nessuna tiene conto di questa attitudine. Nessuna mette in conto il rifiuto, a parole (o meglio, a silenzio) e nei fatti (con l’ininterrotta costruzione delle colonie), degli israeliani a qualunque trattativa. Tutti fanno presente l’unilateralità della decisione: in cambio di quel pezzo di legittimazione, che poteva essere usato nelle trattative, non è stato chiesto niente ai palestinesi.

Eppure ricordate quale fu la strada che, dopo Camp David, percorsero gli israeliani? Proprio quella dell’unilateralità. Il ritiro di Sharon da Gaza, fondato sull’idea che qualunque trattativa bilaterale fosse impraticabile, rispondeva a questa logica d’incomunicabilità. Così come la costruzione del Muro disegnava unilateralmente un confine – in diversi tratti oltre la green line, quindi illegale, ma sempre un confine. La stessa sfiducia, oggi, la vivono i palestinesi, e la vive la comunità internazionale, nei confronti d’Israele. È per questo che qualunque passo verso il riconoscimento palestinese è un passo che spinge Israele al tavolo dei negoziati, verso quella che sembra sempre di più una trattativa verticale e non orizzontale.

Due fratelli che non si parlano direttamente, che non si fidano l’uno dell’altro, e che necessitano di un terzo interlocutore – il mondo – per convivere nella stessa casa. È questa terza persona che deve farsi carico delle richieste dei due, così da evitare di personalizzarle: configurare la nascita dello Stato palestinese come una richiesta che fa il mondo, e non soltanto i palestinesi, è anche l’unico modo per impedire l’innestarsi della spirale di recriminazioni: ma loro hanno queste colpe!, anche voi avete quest’altre!, e così via. Tutto vero, ma che non aiuta. Se l’unico modo che i due fratelli hanno per parlarsi, e per convincersi che non c’è altra via alla convivenza, è attraverso la legazione del terzo coinquilino, che così sia.

Poi c’è Hamas sul quale si aprirebbe un discorso ben più lungo e complesso. Intanto c’è un dato: questo riconoscimento diplomatico è una vittoria di Mahmud Abbas (Abu Mazen), e lo è ai danni di Hamas, che ha sempre predicato l’inutilità di qualunque trattativa con un mondo al servizio degli ebrei, e che ora infatti cerca di ascrivere a sé – e all’aver “vinto” il conflitto a Gaza – i meriti della risoluzione. Nel momento in cui si dovesse convincere Israele a sedere al tavolo della trattativa, questa legittimazione risulterebbe ancora più importante. La speranza è sempre quella che un eventuale accordo di pace siglato da Fatah possa spingere un Hamas più debole a riconoscere Israele usando Abbas come capro espiatorio per le concessioni fatte: la partita principale, e cioè il braccio di ferro delle concessioni, non è su Gaza (controllata da Hamas) dove non ci sono più colonie, ma sulla Cisgiordania (controllata da Fatah).

Se si mettono assieme tutte queste cose, il riconoscimento di ieri è un piccolo (piccolo, piccolo) passo verso la pace in Israele e Palestina. Non una pace condivisa, non un cammino di riconciliazione – quello forse (forse) verrà dopo –, non l’abbraccio catartico fra due fratelli litigiosi. Solo la realistica considerazione che non essendoci modo di liberarsene, bisognerà conviverci. Insomma, come disse una volta Shimon Peres, che prima ancora di cercare la luce in fondo al tunnel, bisogna trovare il tunnel.

Alcune precisazioni sulla mappa bugiarda su Israele e Palestina

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Qualche giorno fa mi hanno segnalato un articolo che si proponeva di rispondere alle cose che avevo spiegato sul Post a proposito della falsa cartina su Israele e Palestina che gira sui social network. Il primo istinto, dato lo stile mellifluo e insinuante (solo nel primo paragrafo mi si accusa di: essere “insidioso”, di “fare finta di schierarmi con la verità”, di “ideologia sionista” e di voler “contribuire alla disinformazione” per alimentare “confusione riguardo il conflitto israelo-palestinese”), era stato quello di non rispondere: in fondo se uno è convinto che tu sia un agente della CIA, non c’è modo di dissuaderlo. Se dirai qualcosa a favore degli Stati Uniti «vedi? È un agente della CIA», se dirai qualcosa contro gli Stati Uniti «vedi? Cerca di nascondere che è un agente della CIA».

Poi, però, alcune persone mi hanno convinto a cambiare idea: intanto perché, come mi ha scritto Enrico, nell’informazione «il mantra “non esiste cattiva pubblicità, solo pubblicità” non funziona; questi blogghini vivono un sacco su un piccolo pubblico agguerrito, e sulla certezza che non riceveranno mai risposta perché appunto nessuno se li caga». E in seconda istanza perché c’è sempre, all’esterno dell’autoreferenzialità del pubblico dogmatico e agguerrito, un gruppo di persone genuinamente disposte a cambiare idea, e che magari hanno letto di sfuggita quello che ho scritto. Insomma: se non credo nel dialogo io, chi ci crede?

Perciò ho deciso di rielaborare una risposta che avevo dato su un social network, consapevole che se uno trova in qualche modo logico, intellettualmente onesto, e in una qualunque misura pertinente, ciò che è lì riportato, sarà ben difficile instaurare una discussione fondata sugli strumenti minimi, logici ed evidenziali, per instaurare un dialogo.

Le critiche che mi vengono mosse sono per lo più politiche – e di una matrice che ognuno può valutare secondo le proprie idee –, mentre il mio articolo vuole essere tutt’altro: un’opera di debunking a beneficio di tutti, nella (ingenua?) speranza che l’imprecisione storica sia nemica di tutti, e non soltanto di coloro che ne sono vittime. In tutto l’articolo, l’unica considerazione a tutti gli effetti politica che faccio è la seguente, che – da sola – sarebbe sufficiente a rispondere a tutte le allusioni sull'”opportunità” di dire le cose che uno pensa.

“La cosa peggiore [a proposito di queste mappe] è che, per descrivere l’erosione di territorio palestinese nel corso di questi decenni, non ci sarebbe bisogno di menzogne o fabbricazioni, basterebbe ricordare cosa sono i territorî del ’67, o parlare della costruzione di un numero sempre maggiore di colonie israeliane al di fuori della green line: in quattro parole, basterebbe dire la verità. Se si combatte per una causa giusta – la creazione di uno Stato Palestinese –, non bisogna usare esagerazioni o montature a fini propagandistici: altrimenti, almeno per me, si è perso in partenza.”

Quello che ho spiegato nel post, è solamente il perché quelle quattro mappe sono bugiarde, senza domandarmi “a chi conviene”, perché l’onestà intellettuale conviene sempre a chi tiene alle cose giuste. Perché, e questo è la dimostrazione che mentire non conviene mai, utilizzare la quarta mappa (quella che trova il suo criterio solo in: “la Palestina è ciò che Israele considera Palestina”) significa _negare_ l’occupazione israeliana. Se, per chi diffonde quella cartina, la Palestina oggi è quella, allora attualmente non c’è alcuna occupazione, perché quel territorio è già palestinese (e lo è, usando quel criterio, da meno di vent’anni).

Ma in fondo la cosa più significativa è che perfino l’articolo di cui sopra riconosce che le mie critiche sono giuste. Dice che quelle mappe hanno valore “simbolico” e non “geografico”. E – qui si raggiunge l’apice della cecità ideologica e del tafazzismo – che è stupido o in malafede chi non lo capisce. Eppure tante persone, ne conosco tante anche io (ed è così che ho avuto lo spunto per scrivere l’articolo), hanno diffuso quell’immagine e quelle mappe pensando proprio che quelli fossero i veri confini della Palestina, che quelle mappe descrivessero davvero l’erosione territoriale, che fossero mappe che rispondono alla verità storica e geografica del conflitto, non che fossero esagerazioni “simboliche”. Onestamente, sarebbe potuto capitare anche a me, su un tema che conosco meno. Invece tutte queste persone, quelle che hanno diffuso la cartina errata, sono stupide o in malafede?

Dopodiché l’articolo fa degli sfondoni storici giganteschi, come dire che la guerra del 48 è stata dichiarata dagli israeliani (da bocciatura al primo esame di storia contemporanea). L’unica accusa che resta in piedi è quella che io sia un agente di propaganda sionista. E su quello, beh, ognuno si esprima come vuole, e risponda al proprio senso del ridicolo: del resto, se mi becco del filopalestinese nei giorni pari, e del filoisraeliano nei giorni dispari vuol dire che o sono un lupo mannaro o c’è un problema nelle rispettive tifoserie.

EDIT: qualcuno mi chiede di commentare altri post in cui si muovono obiezioni all’articolo iniziale. Tutte le argomentazioni dei post che ho letto trovano risposta nel mio post iniziale: non ce n’è uno che, fattualmente, mette in dubbio ciò che dico. È l’effetto, credo, del fatto che queste risposte si siano messe in testa l’obiettivo “voglio difendere la causa palestinese” piuttosto che “voglio accertare la verità storica”. In ogni caso, in questo commento ripropongo in modo molto didascalico tutte i passaggi del perché quella mappa è bugiarda.

Visto che nessuno mette in dubbio la fattualità delle mie critiche, rispondo qui alle due obiezioni principali che ho ricevuto:
1) «sì, certo, è bugiarda; però è uno strumento utile per mostrare un’ingiustizia».
La mia risposta a questo è che usare mezzi bugiardi è sbagliato, anche nel combattere una battaglia giusta. Il rigore e l’onestà con cui si combattono le proprie battaglie finiscono per qualificare le battaglie stesse.
2) «sì, certo, non è precisissima, ma non è così bugiarda»
A chi dice questo, dopo tutta la spiegazione, posso solo rispondere concludendo che abbiamo standard di rigore e onestà molto diversi.

La mappa bugiarda su Israele e Palestina

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per Il Post

Quando lavoravo a Betlemme, ai tempi della prima guerra a Gaza, appesa a una parete del centro in cui facevo il volontario c’era questa mappa:

Sembrano quattro cartine molto efficaci a mostrare la progressiva sottrazione di territorio a un futuro Stato palestinese, ricordo di aver pensato. Eppure sono una frode. Una bugia creata da chi, certamente in malafede, ha giustapposto quelle quattro cartine compilate – basta conoscere un po’ la storia – usando criterî completamente diversi per stabilire cosa si intenda per “terra palestinese”, mescolando così mele e pere, al fine di dare un’idea distorta dell’evoluzione dei fatti.

La cosa peggiore è che, per descrivere l’erosione di territorio palestinese nel corso di questi decenni, non ci sarebbe bisogno di menzogne o fabbricazioni, basterebbe ricordare cosa sono i territorî del ’67, o parlare della costruzione di un numero sempre maggiore di colonie israeliane al di fuori della green line: in quattro parole, basterebbe dire la verità. Se si combatte per una causa giusta – la creazione di uno Stato Palestinese –, non bisogna usare esagerazioni o montature a fini propagandistici: altrimenti, almeno per me, si è perso in partenza.

Siccome, specie in questi ultimi giorni, vedo riaffiorare sempre più spesso questa mappa, faccio ora quello che persi l’occasione di fare, al tempo, con i bambini palestinesi coi quali lavoravo: provo a spiegare alle tante persone benintenzionate e in buona fede che diffondono quell’immagine, perché queste quattro cartine sono un’impostura.

Perché è un imbroglio (in breve)
Come detto, in queste quattro cartine si usano criterî completamente incoerenti per colorare di verde o di bianco le terre palestinesi e israeliane. In particolare, è ciò che viene definito “terra palestinese” a variare ogni volta al fine di suggerire l’idea di questo scenario fittizio: nella prima mappa è “terra palestinese” qualunque posto dove non ci siano ebrei (ma magari neanche palestinesi); nella seconda si considera “terra palestinese” quello che l’ONU aveva proposto alle due parti; nella terza si considera “terra palestinese” quella che era occupata dalla Giordania; nella quarta si considera “terra palestinese” quella che Israele riconosce come tale.

Cambiando completamente il punto di vista, si simula uno svolgimento cronologico che non ha nulla a che vedere con la realtà e che, anzi, nell’ultima immagine sembra proprio andare a detrimento delle rivendicazioni palestinesi, rinnegando gli accordi di Oslo – quelli del premio Nobel per la pace a Rabin e Arafat, quelli rigettati solo dai nemici del “due popoli, due Stati” – che sono l’unica concessione che i palestinesi hanno avuto da sessant’anni a questa parte.

Perché è un imbroglio (più approfondito)
IMMAGINE UNO: (1946) la prima immagine di quella mappa, del ’46, considera “territorio palestinese” tutto quello che non è abitato da ebrei, anche le zone disabitate, cioè la maggior parte, come tutto il deserto del Negev (andato poi a Israele proprio perché disabitato). Se si evidenziassero come territorio palestinese solo i villaggi palestinesi e come ebreo tutto il resto, verrebbe una mappa uguale e contraria. Tutto ebreo – tutto bianco – e poche macchie arabe. Sarebbe, ovviamente, una frode anche quella.

IMMAGINE DUE: (1947) l’unica onesta. È il progetto di partizione della Palestina, la risoluzione 181 del novembre ’47, che – occorre ricordarlo – Israele accettò e Stati Arabi e palestinesi non accettarono. Se entrambe le parti avessero accettato la partizione, ora avremmo un territorio diviso a metà fra Palestina e Israele.

IMMAGINE TRE: (1948) innanzitutto si parla di 1949-1967, quando invece è semplicemente l’esito della guerra che gli Stati Arabi dichiararono a Israele, e vinta dagli israeliani. Perciò è la situazione del 1948. Ed è quella attualmente riconosciuta dalla comunità internazionale. Al contrario di ciò che sembra suggerire la mappa, non c’è alcuna evoluzione dal ’46 al ’67: nel ’49, all’indomani della guerra, siamo già in questa situazione.

Anche qui, se uno volesse usare lo stesso criterio a parti invertite, e disegnare una mappa di quello che sarebbe stato l’esito se gli Stati Arabi avessero vinto la guerra, dovrebbe disegnare una mappa completamente verde: 100% di territorio palestinese, 0% di territorio israeliano. Solo che, a far così, ci si renderebbe conto che Israele, vincendo la guerra, ha sottratto ai palestinesi – con mezzi ben più che discutibili – il 20% del territorio rispetto alla 181; ma se gli israeliani avessero perso la guerra, Israele avrebbe perso, non il 20, ma il 100%. Naturalmente non è così, né in un senso né nell’altro, che ragiona chi vuole la pace.

IMMAGINE QUATTRO (1993): la più bugiarda di tutte, che gioca sull’equivoco di cosa può voler dire “terra palestinese” nella maniera più brutale e menzognera, sostituendo a “cosa è terra palestinese” o “cosa la comunità internazionale considera terra palestinese”, addirittura “cosa gli israeliani considerano terra palestinese”. Ciò che è più offensivo è che, se quella fosse pacificamente la “terra palestinese”, la pace si farebbe domani, tradendo le aspettative di quattro milioni di palestinesi.

Se queste fossero le richieste dei palestinesi, cioè ritrarsi in un territorio fatto di enclavi senza continuità territoriale, e concedere a Israele più della metà delle proprio terre post-’48 (quindi l’80% del territorio mandatario), l’accordo sarebbe già firmato: neanche il più cinico degli israeliani, neanche Avigdor Lieberman, potrebbe sperare di meglio (per dire, a Camp David-Taba, nel 2000-01, gli israeliani avevano proposto ben più del doppio di questo territorio).

Quell’immagine è un incomprensibile miscuglio della Zona A e Zona B degli accordi di Oslo del 1993 (fra l’altro considera già palestinese anche la Zona B, quando essa è tuttora sotto dominio militare israeliano). In realtà, i palestinesi rivendicano come propria – e io credo legittimamente – molto di più di quell’immagine: per lo meno la zona C degli accordi di Oslo, come viene riconosciuto loro dalla comunità internazionale. Per giunta, la mappa sbaglia la data (2000 anziché 1993), probabilmente confondendo gli accordi di Oslo con i non-accordi di Camp David.

Ciò che più indigna è che, adottando il punto di vista del più falco degli israeliani, questa mappa considera gli accordi di Oslo come il punto di arrivo di una progressiva involuzione, anziché come l’unica concessione che i palestinesi hanno ottenuto negli ultimi sessant’anni, e l’unico spazio di autogoverno che sono riusciti a ritagliarsi.

Come sarebbe un imbroglio uguale e contrario

Per spiegare più chiaramente questo raggiro, se si usasse la stessa definizione di “terra palestinese” dell’immagine 4 – e, cioè, “cosa Israele riconosce della Palestina” – per tutte e quattro le mappe si avrebbe questa situazione:

mappa 1 bianca (i palestinesi non esistono)
mappa 2 bianca (i palestinesi non esistono)
mappa 3 bianca (i palestinesi non esistono)
mappa 4 (in realtà datata 1993 e non 2000) con quel 41% della 181, di terra palestinese, in verde.

In sostanza, una situazione particolarmente felice e in ottimistica progressione (dallo 0% al 41%) per le speranze palestinesi di avere uno Stato. Non è così: e non c’è bisogno di mentire per aggiungere “purtroppo”.

EDIT: In questo post ho dato qualche spunto in più, e ho risposto a un po’ di critiche sceme.
EDIT2: A un anno e mezzo dalla la pubblicazione di questo articolo è stato diffuso un post spregevole, carico di insinuazioni indegne (e, ovviamente, completamente inventate), che vorrebbe mettere in dubbio le cose piuttosto elementari che scrivo qui. Al di là degli argomenti per autorità, non c’è un solo argomento che infici quanto scrivo in questo post. In questo commento ho rispiegato la questione in maniera molto didascalica, ma più in generale basta chiedersi questo: «è vero o non è vero che usando il criterio con il quale è colorata l’ultima mappa, le altre tre sarebbero completamente prive di alcun riferimento all’esistenza della Palestina?». È onesto usare il criterio che sulle prime tre mappe farebbe impazzire di rabbia qualunque sostenitore della causa palestinese, il più anti-palestinese che c’è (“ciò che Israele riconosce come Autorità Palestinese”), soltanto nell’ultima mappa, perché fa comodo nel simulare un’evoluzione storica? 

Per favore, “sproporzionato” no

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In questo avvilente eterno ritorno che ci ripropone, a distanza di anni, le stesse azioni, le stesse reazioni, gli stessi commenti, gli stessi controcommenti, vado a rileggere quello che avevo scritto quand’ero lì, in Palestina, e poi arrivò la guerra. E ci ritrovo tutte le cose che ci sono ora, uguali ad allora come a ogni altra volta, e mi annoio da solo a pensare di ripetere le stesse cose inutili, una volta ancora, pronto a riripeterle stancamente fra qualche anno. E vedendo le reazioni degli uni e degli altri, rendendomi conto di come il pubblico in platea sia spesso peggiore degli attori (che già, di per loro, sono pessimi attori), viene quasi da pensare che la soluzione migliore sarebbe che tutti voltassero lo sguardo dall’altra parte, tifosi degli uni e tifosi degli altri, e smettessero di concentrarsi su questo conflitto piccolo e infinito, in cui si combatte per il possesso di un territorio grande quando la Puglia e di uno grande quanto la Liguria, evitando le proprie venefiche attenzioni a quella striscia di terra già abbastanza gonfia di bombe e di bugie.

Come sempre, nessuno di noi sa rispondere alle domande su cui è imperniato quel conflitto, però alcuni – che in realtà hanno chiara solo una cosa: qual è il loro nemico – sono sicuri di saperle, quelle risposte. E la domanda di oggi, come di molte altre volte, è «cosa dovrebbe fare Israele quando gli piovono i razzi in casa?». Una domanda a cui qualunque persona per bene trova solo delle risposte orrende. E fra tutte le orrende risposte che si possono dare a questa domanda, l’orrenda risposta che forse sembra la meno peggio è «nulla», perché qualunque altra risposta appare ancora più orrenda.

Però ci sono quelli – quelli molto sicuri del loro nemico – che, per dire la stessa cosa, dicono con convinzione che l’attacco israeliano è stato “sproporzionato”, e in realtà stanno dicendo che Israele non dovrebbe fare nulla. Che è anche quello che penso io, che non dovrebbe fare nulla. Solo che è brutto dirlo, e allora si dice “sproporzionato”. Ma la cosa più proporzionata di tutte, che in italiano si chiama “vendetta”, sarebbe che Israele facesse la stessa cosa, uguale e contraria: montare batterie di razzi a Ashqelon e Sderot, e farli partire con l’obiettivo di uccidere il maggior numero di civili a Rafah e Jabalia. Però detta così si vede che è una cosa criminale, più criminale d’ogni altra cosa, e allora si dice “sproporzionata”, che non vuol dire nulla, ma fa sentire più in pace con la propria coscienza.

Israele e la sinistra

per qdR

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Più passa il tempo e più mi convinco che Israele sia l’argomento sul quale, per un progressista, esprimere un’opinione serena sia più faticoso, snervante, e in ultima analisi avvilente. Non difficile, non complesso, ma inevitabilmente ambiguo e perciò sfiancante. Il problema è che qualunque espressione laica – che non vuol dire equidistante, né tanto meno “equivicina” – su Israele, anche soltanto un racconto di cronaca, viene inevitabilmente inquadrata in cui prodest da Guerra Fredda. Qualche giorno fa, a conclusione di un articolo a proposito degli attivisti pro-palestinesi cui è stato rifiutato l’ingresso in Israele, e quindi in Palestina, scrivevo:

Questo è il grande equivoco che si trovano a vivere tante persone di sinistra, o anche liberali, incastrati fra i due fronti di ultrà israeliani e palestinesi. Costretti dalla solita strategia dei primi, a dover sempre accompagnare ogni legittima critica a Israele con un contraltare palestinese, per poi sentire quelle considerazioni contestate sulla base della canaglieria di chissà chi altro. Ma vivendo sempre il sottile malessere del rendersi conto di come gli unici disposti ad ascoltare quelle stesse critiche siano quelli ai quali – di tali violazioni – non interessa davvero nulla quando non c’è sopra il timbro con la Stella di Davide.

È possibile criticare Israele per le sue violazioni e al tempo stesso notare l’enorme sproporzione fra l’attenzione che ricevono quelle violazioni rispetto a quelle ben peggiori che commettono decine e decine di Stati al mondo? È possibile sdegnarsi per il comportamento di un soldato israeliano come ci si sdegnerebbe se quel soldato fosse francese o australiano, senza dover necessariamente schiarirsi la voce menzionando le equivalenti e peggiori violenze compiute ai quattro lati del mondo (arabo)? È possibile criticare l’unica-democrazia-del-Medioriente quando si comporta in maniera meno democratica, o ciò la rende immune alle critiche? Dovrebbe essere possibile, se la discussione non fosse intorbidita da anni di tifo e tic mentali.

Eppure quel mellifluo doppio standard che Israele subisce da una parte della sinistra (anche dalla destra fascistoide, ma di quello ci preoccupiamo meno) è un fatto in sé. Un fatto che, come detto, non assolve Israele – non bisogna mai confrontarsi con i peggiori, ma con chi si aspira a essere –, ma che costituisce un problema sostanziale. Perché i più feroci difensori della libertà di movimento e di autodeterminazione dei palestinesi non sono mai in prima fila a criticare la Siria o l’Iran? Eppure sono Stati che non violano soltanto il movimento e l’autodeterminazione dei proprî cittadini, ma anche la loro intangibilità, i loro diritti umani. La risposta a questa domanda non è sempre e necessariamente “antisemitismo”, ma anche fosse moda o pregiudizio politico, è comunque grave e imbarazzante.

Ed è questo imbarazzo, questa ambiguità, a generare il tormento che qualunque persona che ragioni equilibratamente si trova a vivere ogni volta che riceve una mail, un commento, un articolo, che parla di qualche abuso perpetrato da Israele. Molto spesso si parla di azioni effettivamente opinabili – magari epurate di qualche parolone messo a caso, come apartheid o neocolonialismo –, di politiche che non accetteremmo dal Paese in cui viviamo, sia esso l’Italia, l’Inghilterra, o qualunque Stato occidentale. Ma vivendo sottotraccia la tendenza a indagare l’equità di chi scrive, o di chi ha mandato l’articolo, spesso sapendolo prigioniero di una tetra ossessione per Israele.

Perciò la soluzione è inevitabilmente fatta di lunghe premesse che qualifichino la propria opinione, di prefazioni e postfazioni che inghiottono ciascun ragionamento. Di menzioni di ogni volta che si è criticato, e con veemenza, questo o quell’altro Stato nemico di Israele. Il tutto perché, in un dibattito tanto asfittico, la titolarità di un’opinione – chi la esprime – vale quasi di più dell’opinione stessa, un principio contrario a ogni logica. E così l’unico modo per criticare Israele senza ricevere in risposta del benaltrismo – eh, ma perché non parli di quello che fanno gli altri Stati?!? –, è riuscire a emanciparsi dal gruppo dei nemici d’Israele agli occhi del proprio interlocutore, essendo sostanzialmente prigionieri di qualche farabutto o ignorante che odia gli ebrei oppure l’Occidente.

Israele, gli attivisti cacciati, e il divieto di criticare gli uni e gli altri

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per Il Post

In queste ore Israele si sta adoperando per impedire l’arrivo di centinaia di attivisti pro-palestinesi della “flytilla”. Ad alcuni è stato già negato l’imbarco, altri sono stati rimpatriati dall’aeroporto di Tel Aviv, ad alcuni turisti è stato fatta firmare un’impegnativa in cui si giurava di non essere attivisti pro-palestinesi. A molti ancora succederanno cose simili.

È molto probabile che le idee politiche di alcuni di questi attivisti siano sciocche o semplificate, ma questo non assolve il provvedimento – anzi lo aggrava: perché parliamo di un delibera preso sulla base di un reato d’opinione. Queste persone non vengono respinte per la loro acclarata pericolosità: sono individui incensurati che vogliono partecipare a una manifestazione nei Territorî Occupati.

Non mi interessa approfondire qui il punto di vista legale, ci sono tante cose che gli Stati nel mondo hanno diritto di fare e noi non condividiamo, e perciò le contestiamo. Ma vale la pena ricordare che questi attivisti non vogliono mettere piede in Israele, vogliono andare in Palestina e per farlo sono costretti a passare da una frontiera israeliana: che sia Ben Gurion, Allenby (Giordania), o il Sinai (Egitto). Non a caso alcuni mediatori hanno proposto a Israele di caricare gli attivisti su un pullman per Betlemme, accertandosi che non mettessero piede su territorio israeliano. Israele ha rifiutato.

Il governo israeliano ha accompagnato questi provvedimenti con una lettera che dice, sostanzialmente: ci sono governi che fanno molto peggio, perché ve la prendete con noi? Questa lettera è la perfetta definizione di “benaltrismo” – il fatto che altri Stati facciano peggio non legittima eventuali misfatte d’Israele –, ma al tempo stesso dice cose tristemente vere. Non ci sono dubbî che – in moltissime persone – c’è un’enorme sproporzione di attenzione fra le violazioni che compie Israele e quelle, spesso ben più gravi, che perpetrano molti altri Stati al mondo, fra cui quelli citati nella lettera.

Qualcuno dice che ciò succede perché da Israele ci si aspetta di più: Israele è una democrazia, è uno Stato occidentale, etc. Ma in realtà le critiche più feroci vengono spesso da persone che di Israele e dell’Occidente (talvolta perfino della democrazia) hanno opinioni tutt’altro che positive. E questo è il grande equivoco che si trovano a vivere tante persone di sinistra, o anche liberali, incastrati fra i due fronti di ultrà israeliani e palestinesi.

Costretti dalla solita strategia dei primi, a dover sempre accompagnare ogni legittima critica a Israele con un contraltare palestinese, per poi sentire quelle considerazioni contestate sulla base della canaglieria di chissà chi altro. Ma vivendo sempre il sottile malessere del rendersi conto di come gli unici disposti ad ascoltare quelle stesse critiche siano quelli ai quali – di tali violazioni – non interessa davvero nulla quando non c’è sopra il timbro con la Stella di Davide.

San Valentino

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Quasi dimenticavo, l’oramai tradizionale post – in cui c’è dentro tutto questo blog – per San Valentino:

Tanti auguri.

Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita, e in tanti altri posti del mondo, festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è una parodia, si chiama veramente così. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.

Guevara chi?

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Ieri Benigni ha citato Pazienza che citava Che Guevara. Che la citazione fosse di Che Guevara, Benigni non lo sapeva, o forse se l’era scordato. E forse anche noi ci siamo un po’ scordati di Che Guevara, nelle camerette di tanti di noi fino a qualche anno fa. Tanto che ci si chiede, per scherzo, «Che Guevara chi?». C’è un posto, però, dove Che Guevara è sempre di moda. Ancora più di quanto non lo sia stato qui, tanto da intitolargli vie, figli e negozî. Questo posto è la Palestina, dove lo chiamano Givara (lo pronunciano così), e dove scattai questa foto, all’alimentari Guevara. C’è una cosa che non bisogna dire, però, in Palestina: che Givara era ateo, quella cosa lì non la possono credere.

È forse un peccato che gli adolescenti di sinistrasinistra abbiano perso questo tipo di icone in favore di altre più postmoderne, conservatrici e anti-illuministe. Che Guevara era un vero marxista: progressista, internazionalista e guerrafondaio.

Per non dimenticare

Ri-dato questo post a distanza di due mesi: è oggi il giorno in cui non bisogna dimenticare.

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Il 17 marzo del 2011, il colonnello Gheddafi – dopo diverse settimane di rivolte soppresse nel sangue, di bombardamenti sulle città, di torture e stupri – stava per lanciare l’attacco finale su Bengasi, la capitale della ribellione.

Nel suo discorso alla nazione, Gheddafi aveva promesso la sua vendetta finale, il “momento della verità”, consumato “vicolo per vicolo”. I suoi aerei avevano già cominciato a sorvolare Bengasi, le milizie stavano seguendo. Poco tempo prima, il figlio Saif Al Islam aveva parlato di fiumi di sangue.

Coloro che per tutti – fino a lì – erano stati la “gioventù araba”, i fratelli e le sorelle di quelli della Tunisia e dell’Egitto, le “forze pro-democrazia” come erano definite da tutti i media, avevano chiesto disperatamente da tempo l’intervento della comunità internazionale per fermare i massacri. La portavoce di quella gente aveva detto: “l’Occidente ha perso la sua credibilità” “Non dimenticheremo chi ci ha difeso e chi ci ha tradito”. Così, pochi giorni prima, migliaia e migliaia di donne avevano manifestato – un atto coraggioso: per molte era la prima volta che scendevano in piazza – chiedendo disperatamente aiuto al mondo con slogan chiari come: “il nostro sangue vale meno del petrolio?”.

Quella stessa identica sera, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU aveva passato una risoluzione che comandava la difesa “con ogni mezzo” della gente in Libia. Al momento del passaggio della risoluzione la folla di Bengasi era esplosa in un boato di gioia e liberazione, di sopravvivenza.

Per fortuna. È successo. Una volta tanto l’umanità, il mondo, ha dimostrato di essere un qualcosa di bello.

Ma poteva anche non succedere. E c’è anche chi non voleva che succedesse, oggi più di ieri, come se tutti si fossero dimenticati di quella gente, a Bengasi, sul punto di essere trucidata. Chissà se se lo domandano: e se non fosse successo?

Ora staremmo piangendo un massacro di proporzioni enormi. La più longeva dittatura del mondo sarebbe ancora lì, a seviziare degli esseri umani. E ci staremmo lamentando del cinismo dell’Occidente, giustamente, che per non turbare uno Stato integrato nel mercato petrolifero come la Libia di Gheddafi, aveva permesso un’altra carneficina. D’altronde – come poteva essere diversamente? – un intervento in Libia avrebbe portato al crollo dei profitti di tutte le compagnie petrolifere europee. Tanti di noi, io fra questi, si sarebbero vergognati ancora una volta di far parte della specie umana, come in Ruanda, come in Darfur.

E invece è successo. In Libia ora scrivono “grazie di tutto, che Dio vi benedica”. Loro non possono non domandarselo, quello che sarebbe successo.

Shalit

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Avendo parlato così tanto della questione israelopalestinese so di essere in qualche modo condannato a commentare ogni evento di qualche rilievo che accade in quelle zone, anche il più deprimente. Non è una cosa che mi pesa, perché – si capisce – è un tema a cui tengo. La cosa che pesa, invece, è avere un’opinione più deprimente di quella che hanno gli altri. Avevo iniziato questo post ieri, poi ne avevo un po’ abbastanza del mio stesso pessimismo, e perciò avevo cancellato il post. Poi un paio di lettori, Luca e Marta, mi hanno chiesto cosa ne pensassi. E vabbè, riprendo dalle trash il post che cominciava così:

Inevitabilmente ci si appassiona, e si compatiscono, le vicende umane. Ma la liberazione di Shalit non è certo un “segno di pace” come leggo in giro. L’esercito israeliano ha fatto del “non lasciamo indietro nessuno” il proprio segno distintivo. Ne va della loro coesione, della motivazione dei soldati di Tzahal. Questa è la principale ragione della disposizione a pagare il prezzo di uno a mille.

Però, al di là della personale vicenda di Shalit, non vedo proprio come la pace – in alcun modo – possa guadagnarne.

– Ne guadagna il governo più a destra della storia israeliana, il governo Netanyahu, che per quanto diviso sulla questione, può aggiungere un elemento in più alla propria vocazione populista.
– Ne guadagna in opinione pubblica anche Hamas, un’organizzazione fondamentalista islamica che gestisce Gaza in maniera dittatoriale.
– Ne perde Fatah, un’organizzazione politica certamente non immacolata, ma unico attore della regione (fa eccezione il ritiro da Gaza di Sharon) ad aver fatto serî passi verso la pace nell’ultimo decennio.
– Ne guadagna la possibilità che ci siano altri rapimenti di israeliani, visto il successo che ha avuto questa operazione dal punto di vista militare (ed è questo che interessa alle milizie).
– Ne perde la condizione umana delle persone a Gaza, visto che delle due richieste fatte inizialmente agli israeliani per la liberazione di Shalit – il rilascio di prigionieri e la fine del blocco navale – è stata ottenuta quella politica e non quella umanitaria.
– Ne guadagna la possibilità che ci siano altri attentati, data la liberazione di moltissime persone condannate per atti di terrorismo, in molti casi ben propense a commetterne degli altri.

Non vedo, davvero, come questo possa costituire un passo verso la pace. Se mi dite che sbaglio mi fate un favore.