Porro

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Ci sono duecento ragioni per le quali io non mi sarei mai potuto trovare nella situazione in cui si è trovato Nicola Porro: sono ragioni che hanno a che fare con ciò che penso, ma soprattutto con quel suo pelo sullo stomaco che si evince da tutta questa situazione, da quell’ignavia rispetto alle malefatte dei proprî sodali che è indulgenza verso le cattiverie. Sono ragioni che dipendono dalla gente che frequento, dal mio modo di rapportarmi agli altri, e di canzonare le persone.

In quelle telefonate c’è quella dose di perfidia del bambino che tiene la lucertola per la coda e la vede dimenarsi impaurita, ridendone: forse è questa la scena più raccapricciante. E c’è un’aria, più che di minaccia, di rivalsa – di voler mostrare chi è più forte (o, forse, potente) – anch’esso molto infantile, che somiglia molto al nonnismo. A me – almeno lo spero, per ciò che sono – non potrebbe capitare, perché trovo questo tipo di atteggiamento sgradevole, ed è quanto di più lontano da ciò che pratico e professo.

Però da qualche minuto penso anche che, messo in quella situazione, non sarei mai riuscito ad avere la freddezza, la lucidità, l’umiltà e la dignità che ha avuto Porro in questa intervista:

Se anche voi – come me – appena dopo aver sentito quelle telefonate avete pensato: «questa è una minaccia, punto e basta, e lui è uno stronzo», magari vi può tornare utile guardare l’intervista, fino in fondo (più avanti migliora), per cambiare – almeno parzialmente – idea, come l’ho cambiata io.

La prossima volta disegnateci sopra Maometto

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Due ragazze francesi sono andate in giro con niqab (il burqa con la fessura per gli occhi) e minigonna, per protestare contro il divieto di burqa imposto in Francia. Quelli contro cui protestavano si sono fatti una risata, quelli con cui solidarizzavano l’avrebbero ammazzate.

scettico

Tutte le beghe di (Bel)paese in 15 minuti

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Tutti quelli che vivono all’estero vi diranno che la liberazione è non stare dietro alle piccole beghe di paese della politica italiana, perché le dieci pagine quotidiane di cronaca politica che hanno tutti i giornali, tutte le singole dichiarazioni di Maroni (o chi per lui), in un orizzonte più ampio hanno valore zero.

Io, poi, aggiungo che c’è un’altra ragione: che l’Italia è un Paese conservatore, ma nel senso più preciso del termine. Fa le cose che fanno gli altri Paesi, ma con trent’anni di ritardo. Quindi viva l’America di Obama, e chissene – un chissene da scontare per trent’anni – dell’Italia di Berlusconi.

Ma su quel discorso lì, della sopravvalutazione della cronaca politica, c’è dell’altro. C’è che l’enormità di questioni avvicendatesi quest’estate a dominare il dibattito pubblico, poi, si possono riassumere in quindici minuti.

Vi direi: “beati voi che siete andati al mare”, ma a me il mare non fa impazzire.

Only in the US

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Oggi ho sentito il podcast di una trasmissione radio del 2005 in cui il primo ministro cambogiano stava parlando di una mozione che stava provando a far passare al Congresso americano e che aveva raccolto l’appoggio di… ehm, come si chiama quello, sì Barack qualcosa, ecco, sì, Obama. E, all’inizio pensavo scherzasse, per dire «guarda che appoggio importante abbiamo!», poi lo speaker ha spiegato che Barack Obama era un giovane senatore al suo primo mandato, considerato una grande promessa della politica americana, e mi sono ricordato che la trasmissione era del 2005.

Meno di tre anni dopo era presidente degli Stati Uniti.

Tre donne, tre lacrime e un libro

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Ayaan
Ero in Palestina e regalai all’educatrice che lavorava con me il libro che sapete tutti, Infedele di Ayaan Hirsi Ali: è una mirabile e disarmante storia di liberazione – il vero Vangelo di questo secolo – di una donna somala che riesce a spezzare un ciclo di abusi lungo generazioni, l’infibulazione subita, un matrimonio deciso dalla sua famiglia con un uomo che neanche conosce, una vita di sottomissione e privazione di qualunque desiderio; e lo fa facendo una cosa che a dirla è quella più facile del mondo, e invece: realizzare che la prima persona a cui si deve volere bene è sé stessi. Che tante persone, per cui provava affetto, avrebbero sofferto per la sua decisione di essere sé stessa nel modo più pieno, ma che non c’è soltanto il tuo bene e quello di un altro sulla bilancia: c’è ciò ch’è giusto.

Ahlam
Ahlam, l’educatrice, non aveva la stessa storia di Ayaan, eppure anche lei era stata condannata a una vita di quei soprusi: doveva essere accompagnata da un maschio della famiglia per rientrare a casa, se fosse andata a vivere da sola l’avrebbero uccisa (sì, uccisa), era sfuggita a un matrimonio combinato – con un cugino che non aveva mai visto – soltanto perché le famiglie avevano litigato, per fare qualunque cosa doveva avere il permesso di uno degli undici fratelli che la comandavano in tutto e per tutto: lei aveva trent’anni, era naturale che il più piccolo dei maschi, un dodicenne, fosse il suo padrone e decidesse quello che poteva fare – quando chiedeva il permesso di fare qualcosa, non riceveva neanche risposta: bastava il silenzio, era un “no”. Con il poco arabo che avevo imparato, capivo. Mi diceva sempre, e lo vedevo girando per strada «io sono la più emancipata, fra tutte le donne che conosco».

Eleanor
Lo diceva perché lei era una delle poche che si rendeva conto di quanto fosse ingiusta la deliberata subalternità in cui era stata incastonata da quella società, i maschi le erano superiori – per diritto di nascita –, ma lei voleva mostrarmi, era più vero mostrarsi, che – dopotutto – era fortunata rispetto alle altre. Le regalai Infedele e sulla prima pagina del libro le scrissi una frase di Eleanor Roosvelt vibrante di verità, che ha dentro di sé la potenza di tutte le ingiustizie del mondo: «nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso». Lui non l’ha mai saputo, me l’aveva insegnata Ivan.

Lacrime
Un giorno, grazie a qualche lacrima di commozione che avevo speso per l’abbacinante armonia di un filmato in cui diverse coppie omosessuali – alcune stavano assieme da quarant’anni – chiedevano di non essere divorziate, parlai con Ahlam dell’omosessualità: aveva scoperto a vent’otto anni che esistono gli omosessuali, e non aveva mai pensato che quegli-individui si potessero, davvero, amare. È una persona degna, straordinariamente sensibile, Ahlam: perciò capì, nonostante i trent’anni passati a inculcarle il disprezzo (è una bella storia, l’avevo raccontata pubblicando il video su queste pagine). Le lacrime sono importanti, è l’emotività che sostanzia il senso di giustizia: quando regalo Infedele alle persone valide, quelle che so che capiscono lo spirito con cui lo scrivo, sul frontespizio appunto loro questa dedica «se non piangi a “La mia libertà”, sei uno stronzo» oppure «se non ti commuovi a “La mia libertà” sei una stronza». “La mia libertà” è il capitolo del libro in cui Ayaan prende il coraggio a quattro mani e decide di fuggire, e racconta l’ebbrezza, la gioia e la sensazione di spaurimento provocatole dal sapore di quei gesti di libertà, scegliere e riconoscere sé stessi, che per noi sono tanto scontati. Davvero, bisogna avere l’emotività di un blocco di tufo per non commuoversi.

Libro
Faccio un salto in avanti, ma ci sono sempre le lacrime. L’altra sera ero a una riunione sulla politica del PD a Roma e io ne rimanevo un po’ fuori, essendo stato lontano dalle faccende romane per qualche tempo: ero passato di lì per salutare tante persone per bene, e a cui sono anche affezionato, che a causa dei miei viaggi non vedevo da diverso tempo e probabilmente non rivedrò per un po’. Così mi è quasi capitato fra le mani l’ultimo libro che Ivan Scalfarotto ha scritto, In nessun Paese, e ho iniziato a sfogliarlo. Se n’era parlato sui blog che leggo, e avevo dato per scontato che fosse un bel libro, di cui avrei condiviso l’intero impianto argomentativo, rimandandone la lettura a un futuro prossimo. Ho iniziato a sfogliarlo, e mi son reso conto che non era il libro intelligente e asciutto che mi aspettavo – non solo. Ho scoperto che c’è anche lì un “la mia libertà”, quello stesso baleno di liberazione: così son rimasto lì a fare la figura dello scemo, col viso rigato dalla commozione mentre si discuteva di mozioni di sfiducia.

Libero
Non ho scritto questo post per dirvi di comprarlo, quello fatelo se volete (ma secondo me volete). È un’altra cosa: lì dentro c’è l’istante – l’attimo – in cui la testa di una persona come noi, fragile delle sua forze, si ribella alle costrizioni impostegli da sé stessa per prima, e dalla società. È il capitolo che si chiama, appunto, L’attimo fuggente ed è il racconto di quando Ivan decide di dire forte – il contrario di una confessione – ai proprî genitori che è omosessuale. C’è proprio un momento, venuto dopo anni e anni di ragionamenti, in cui si capisce che negare la verità a qualcuno per tutelarlo, oltre che per tutelare sé stessi, è un atteggiamento arrogante, significa mettersi su un piano morale superiore, e valutare gli altri con un metro diverso da quello con cui si misura sé stessi: Ayaan non accetterebbe mai un’Ayaan che infibulasse la figlia, Ahlam non accetterebbe mai un’Ahlam che sottomettesse le donne della famiglia, e Ivan non accetterebbe mai un Ivan che rifiutasse un figlio omosessuale.

Attimi
È quell’attimo di follia lucida, con il cuore in equilibrio, in cui si realizza che le persone valide e che ti vogliono bene – se lo sono fin dentro – non potranno andare contro a ciò che è giusto, quale che sia l’educazione che hanno ricevuto, perché altrimenti non sarebbero persone valide, non ti vorrebbero bene:

Con mamma il caso che ci portò alla rivelazione fu una mia relazione con un ragazzo olandese. Ci vedevamo tra Milano e Amsterdam nei fine settimana. Il mio Jan era bello come il sole e io lo avevo ritratto in centinaia di foto che facevano bella mostra di sé in ogni angolo della casa. Un giorno mia madre aveva annunciato una visita a Milano. Mi ritrovai come un assassino impegnato a modificare la scena del delitto. Ogni dettaglio che rimandasse alla mia storia con Jan, foto, biglietti aerei, cartoline (esistevano ancora le cartoline) dovevano essere rimossi e parcheggiati in un apposito contenitore, in attesa di essere riportati al loro posto. Mi sentivo felice come un assassino che attende la visita del Ris di Parma e il senso di fastidio aumentava. L’impressione era che il cambiamento della scenografia avrebbe complicato il futuro, anziché renderlo più semplice. Sarebbe stata la prima di una lunga serie di manomissioni e di rimesse in opera del palcoscenico della mia vita.

Fermatevi un momento qui. Pensate a questo meccanismo che porta a nascondere, a mischiare le carte per tramutare un luogo denso d’affetto in un luogo asettico, a vergognarsi di essere innamorati invece di urlarlo forte ai quattro vènti. A decidere che è meglio di no. Pensate a tutti i calcoli – inconsci, ma anche consci – su quale sia la strada più conveniente, più indolore per tutti. Le piccole autoassoluzioni per le minute angherie a cui ci si sottopone, e a cui si sottopone il proprio compagno. Credo, immagino, che anche Ivan avrà pensato decine di volte – così come per Ahlam e le sue amiche meno emancipate – mentre scacciava lo stesso pensiero: «in fondo è possibile vivere una vita parallela, non sono mica in Iran, sarà soltanto una-lunga-serie-di-manomissioni…»

All’improvviso decisi di rimettere tutto com’era, al proprio posto. Se mia madre voleva venirmi a trovare, quella era casa mia, foto comprese. Se non le piaceva, era libera di non venirci più. Quando arrivò non fece fatica a notare le immagini di Jan e a chiedermi chi fosse questo (sottinteso «bel») ragazzo. «È il mio amico di Amsterdam». E in questo modo risposi implicitamente alla sfilza di domande (sempre evase con abilità) che mi erano state fatte in precedenza riguardo ai miei continui viaggi in Olanda. Silenzio assoluto. Poi chiacchiere varie. Alla fine fui io a rompere gli indugi: «Mamma, ma ti interessa sapere qualcosa di me o non te ne frega niente?». E lei: «Certo, dipende da quello che mi vuoi dire tu: io non ti faccio domande a cui non vuoi rispondere». Vuotai il sacco. Le confidai che Jan era in realtà il mio compagno, che stavo con lui e che lo amavo moltissimo. Mia madre provò a dirmi qualcosa. Una frase, in particolare, la ricordo benissimo: «Sono preoccupata, perché la tua vita sarà più difficile». Da allora, comunque, i miei compagni hanno sempre avuto posto anche nella sua vita. Il suo affetto e il suo rispetto non mi sono mai mancati.

E poi c’è papà. La famiglia di Ivan è del sud, trainato da una sorta di pregiudizio sul pregiudizio del padre, la rivelazione si era fatta attendere. Poi, un giorno, la stessa risoluzione a rifiutarsi di accettare chi – si presume – rifiuti di accettare:

Anche lui ha saputo perché in una data situazione ho rifiutato di fingere: questa volta, peraltro, non si trattava di fotografie, ma di una persona in carne e ossa. Era Capodanno e da qualche mese convivevo con un ragazzo, Erminio, che sarebbe poi stato il mio compagno per dieci anni e mio fratello per sempre. Papà tornava da una vacanza in montagna e aveva deciso di fermarsi a Milano. Erminio mi aveva subito detto che in quei giorni sarebbe volentieri tornato a casa di sua madre, in modo da consentirmi di ospitare mio padre. «Non se ne parla nemmeno». Quella era casa sua quanto mia e il problema, se c’era un problema, non poteva essere di certo suo.

A papà non avevo trovato di meglio che inventare una scusa. Gli dissi che avremmo festeggiato l’anno nuovo a casa, motivo per cui non avrei avuto la possibilità di ospitarlo per la notte. Il giorno dopo, tuttavia, aveva cominciato a chiedermi in modo sempre più insistente quando ci saremmo visti. Io lo rimbalzavo, spinto anche da una serie di persone che conoscevano bene sia me sia lui, impegnate da sempre a garantire che se gli avessi parlato non avrebbe capito, che se la sarebbe presa a morte, che sarebbe stato un disastro.

La cosa che colpisce sempre, in questo tipo di storie, è l’inversione del senso di colpevolezza: non era Ivan a dover decidere se pazientare e indulgere su un’eventuale intolleranza del padre; era invece come se un (presunto) genitore omofobo fosse intitolato alla propria intolleranza, e potesse essere lui a decidere il grado di accettazione a cui sottoporre il figlio. L’omosessualità è la colpa, e l’omofobia è la reazione legittima.

Quando mi decisi a raggiungerlo in un luogo di Milano per bere qualcosa insieme, lui era furibondo. Si sentiva preso in giro, avvertiva che c’era qualcosa che non andava, capiva che volevo tenerlo lontano da casa mia e si domandava il perché. Colsi l’attimo: «D’accordo: c’è una cosa che non sai e che devi sapere, altrimenti non potrai entrare in casa mia né oggi né mai». «Hai una donna?». «No, ho un uomo». Passarono tre interminabili secondi nei quali lui mi ha poi confessato di avere pensato qualcosa tipo: «Non posso dire una cazzata, ora. Quello che dirò adesso mio figlio se lo ricorderà per sempre». Finalmente uscì un «Ebbè?». Proprio così: «Ebbè?». Ebbè, e quindi, e allora, e qual è il problema? «Ma quando mai ti sono sembrato omofobo», aggiunse. (…)  Il suo «Ebbè» è servito a costruire un rapporto ancora più forte tra noi. Non solo: papà è diventato una delle colonne dell’Agedo, l’Associazione dei genitori di omosessuali fondata da Paola e Giovanni Dall’Orto (madre e figlio, guarda caso). L’Agedo è l’unica associazione composta da eterosessuali che si batte per i diritti degli omosessuali.

Probabilmente neanche pensandoci tre ore, anziché secondi, il padre di Ivan avrebbe potuto trovare una risposta più intimamente degna, pudica, vera, commovente, di «embè?». Come dire: «ok, ora dimmi la cosa che davvero potrebbe farmi arrabbiare». Non c’era. E la punta di offesa ch’era presente nella replica – perché mi hai pensato omofobo? – era il sentito sigillo dell’assenza di quel pregiudizio.

Certo, Ivan è fortunato, ha una famiglia che si è dimostrata più matura di molte altre (il mio primo pensiero era stato di scrivere “speciale”, e poi ho avuto orrore per quel sostantivo in questo contesto: “normale”, altroché). Altri potrebbero non avere la stessa forza o lo stesso coraggio d’animo – e dobbiamo cercare di creare le condizioni perché non ci voglia nessuna forza, per farlo – ma questa piccola, grande, storia di libertà e liberazione dimostra che fare ciò che è giusto è un regalo che ognuno deve riuscirsi a fare. E che l’affetto e la stima delle persone a cui vogliamo bene hanno valore – e sono la cosa più importante che abbiamo – proprio perché non sono gratuite, ma dipendono nella loro essenza dalle nostre azioni e dai nostri pensieri, con i quali le guadagniamo un po’ ogni giorno.

Ah. Se non vi siete commossi, siete degli stronzi.

Grazie, satana

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I cospirazionisti di sinistra sono tanti e variegati, e credono a teorie del complotto assurde con il piglio di chi la sa lunga. Però, niente, anche sulle teorie cospirazioniste, i complottisti di destra dànno una pista a tutti.

Qui Obama che ringrazia Satana:

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Il principale esponente dello schieramento a me avverso

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Ieri notte ho sentito il discorso di Fini, e ho realizzato – una volta di più, ce ne fosse il bisogno – che io il mio Paese non lo capisco: perché non è soltanto il fatto che l’Italia è un Paese conservatore, come ho cercato di spiegarmi diverse volte, non basta.

Voglio dire: io sono una persona di sinistra, almeno nel senso in cui la sinistra è sempre stata intesa, e perciò è naturale che un discorso profondamente di destra – onorepatriaeffamiglia – come quello che ha fatto Fini a Mirabello non mi piaccia, per quanto ne risconosca la dignità politica: su immigrazione, legalità, ordem e conservação, dice cose completamente all’opposto di quella che è la mia cultura ideale di progressismo e vicinanza ai senza diritti.

Perciò io mi aspetterei che – dài, è ovvio – chi dice cose di sinistra dovrebbe piacere alla gente come me, Gianfranco Fini dovrebbe piacere alla gente di destra, e Silvio Berlusconi – per le ragioni che sappiamo tutti – non dovrebbe piacere a nessuno.

Invece Berlusconi piace a quelli di destra. Fini piace a quelli di sinistra. E la sinistra non piace a nessuno.

Gheddafi show

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Ma tutto questo stupore e scandalo per lo show di Gheddafi? Non fa un po’ ridere anche voi?

L’Italia invita un dittatore, campione dei non diritti umani, e la cosa che stupisce tutti è che inviti trenta o cinquanta ragazze a convertirsi a quello che lui credere essere il vero Dio? Cosa avrebbe dovuto dire: «guardate, Allah è la vera via della salvezza, ma per voi va bene Cristo»? Fra l’altro tutta quella teologia farlocca – come lo è un po’ sempre la teologia – secondo cui Cristo avrebbe annunciato l’arrivo di Maometto eccetera eccetera è ciò che si crede ovunque nel mondo mussulmano.

La moschea a WTC non è una buona idea, ma che c’entra?

Naturalmente io sono idealmente contrario alla costruzione della moschea a World Trade Center perché è un edificio di culto, e di un culto maschilista e omofobo, nella stessa maniera in cui sono idealmente contrario alla costruzione di una sede della Lega Nord. Perché sono luoghi che propagandano un’idea pessima di cosa è bello e giusto nella vita.

Ma l’idea ancora più brutta sarebbe che qualcuno potesse eleggere le mie propensioni a legge, così da impedire ad altri di professare le proprie.

Chiunque di noi può sperare che le idee che combatte siano sconfitte da idee migliori, ma non che le prime siano vietate per legge. Lasciamo stare questa battaglia dei mattoni e torniamo a batterci per quella in cui siamo più bravi: quella delle idee.