Venerdì 13 febbraio

Misure di sicurezza – Diario dalla Palestina 166

Effettivamente vale un racconto quello che mi è successo, passando il check-point, proprio il giorno in cui ne ho raccontato l’imbarazzo. Metto lo zaino nel metal detector. Passo, suona, mostro il passaporto. Il soldato, da dentro la cabina, alza gli occhi un attimo, li riabbassa. Riprendo lo zaino, e mi avvio per l’uscita. Una voce dall’altoparlante blatera qualcosa. Torno dal soldato nella cabina: mi guarda come dire «che vuoi? vai». Vado. All’uscita ancora la voce. Stavolta riesco a capire che parla in inglese, un pessimo inglese. Torno dal soldato che, con l’espressione da “‘sti europei so’ proprio imbranati” mi fa un gesto che vuoldire «Sì, sì, vai». Riprendo l’uscita. Ma c’è sempre la voce. Chiede «you are a tourist?». Io mi guardo intorno, di solito ‘sti comandi vengono dal soldato in cabina. Torno da lui, visto che è dietro il supervetro non sente: mentre lui mi dice vai gli indico il cielo, come dire: «ooh, c’è na voce!». Quello non capisce. A questo punto la voce mi chiede: «the laptop is yours?» Il portatile è tuo? Non so dove rispondere, la voce viene dall’altoparlante ma da dove? Mi rivolgo verso il cielo e, sentendomi un po’ un idiota, grido: «yes!». Mi risponde, sempre la signora altoparlante, «ok, go».

Inutile dirvi che sono passato mille altre volte con il laptop nello zaino e nessuno mi ha chiesto se fosse «mio». In ogni caso, nessun altro controllo sulla paternità.È bastato il mio «sì». Ma un «sì» necessario, stavolta, perché la tipa ci ha messo più di qualche minuto a estorcermelo. Un terrorista avrebbe risposto «no»? Non credo.
Però, qualcuno direbbe, funziona.

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