La donna è mobile

(roba che avevo preparato, riscritto – che magari in qualche forma avete già letto – poi non è servita, quindi la metto qui)

Fare volontariato in Palestina attira troppi encomi; così – per sfatare questa nomea di essere tanto buono – racconto sempre di quando vado in bici.

Tutti mi guardano strano perché qui la bicicletta è usata soltanto da bambini e ragazzetti. Ahlam, l’educatrice palestinese che lavora con me, mi ha raccontato che a 13 anni il padre le ha tolto la bici dicendole che non era più il momento di giocare, e che ora doveva essere una donna. In cambio ha avuto un velo con cui coprire collo e capelli. Altri amici betlemiti mi hanno spiegato un altro problema: «se vai in bici significa che non hai soldi per permetterti di meglio, e qui la tua immagine sociale è decisa da ciò che mostri».

Per me, invece, la bicicletta è un mezzo molto comodo – e, appunto, economico – per andare da un capo all’altro della città: Betlemme è piccola; tanto piccola che oramai tutti mi conoscono come quello-della-bici, e chi ha preso confidenza mi chiede «ma perché vai ancora in bicletta?».

Invece di bambini in bici se ne incontrano tanti, in pieno centro o nel bel mezzo del mercato: non so il perché, ma si divertono a terrorizzare i turisti puntandoli e scartando all’ultimo, cosicché i poveri malcapitati si prendano un colpo. Perciò ho perfidamente deciso di prendere contromisure.

Essendo abituato a girare in bici anche in Italia, ho una certa maneggevolezza con il mezzo: così quando fanno per puntarmi contro, io acquisto una faccia ferma e risoluta, quasi da killer, e urlo in italiano qualcosa di insensato: «la donna è mobile!», «qual piume al vento!», «sopra la panca!», facendo finta di essere io il primo a mirarli. Va a finire che sono sempre loro a sterzare, e quando mi giro e li saluto in arabo vedo che si sono presi un bel colpo, ma – forse per lo scampato pericolo – non sono mica arrabbiati: anzi, un paio di volte m’hanno persino chiesto di rifarlo!

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