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Un paio d’anni fa mi sono messo a studiare abbastanza approfonditamente la storia e la politica della Turchia, e l’ho scoperta essere il Paese più complesso, contraddittorio, peculiare, e interessante al mondo. È uno di quei posti dove le categorie con le quali siamo abituati a pensare alle cose saltano, e quindi è molto difficile farsi un’opinione – cioè declinare il proprio pensiero generale in un contesto preciso – su quello che succede. Com’è possibile? L’esercito è il garante della laicità? La destra, ma non l’estrema destra, è la più europeista? Il centrodestra è meno ostile ai curdi, e alle minoranze, del centrosinistra? E l’occupazione militare, lunga trent’anni, di un Paese dell’Unione Europea, cioè Cipro? Sono tutte, queste e molte altre, posizioni strane, che si possono capire solo alla luce della storia della Repubblica turca.
In questi giorni di proteste mi sono trovato spesso a raccontare un po’ di queste cose, a persone e amici che cercavano di capire e che magari in passato mi avevano sentito dire frasi come quella con cui ho aperto il post: “la Turchia è il Paese più complesso e interessante al mondo”. Così ho pensato di mettere giù anche qui un po’ delle cose che penso siano importanti per capire queste proteste: è un racconto non solo parzialissimo e superficiale – un disclaimer che per la Turchia è ancor più necessario – ma è anche frutto della mia personale interpretazione degli eventi. Magari, però, a qualcuno può essere comunque utile per farsi un’idea.
Una considerazione chiave è questa: per capire la Turchia del XX secolo, non la si può confrontare con gli Stati europei dello stesso periodo, ma bisogna analizzarla attraverso la lente e le categorie dei due secoli precedenti: il nazionalismo era, a quel tempo, un’istituzione progressista, volta a conferire per la prima volta al popolo un diritto di legittimità su qualcosa: la propria terra. Nel caso di Ataturk, era in opposizione alla monarchia assoluta, storicamente e religiosamente importantissima, dell’Impero Ottomano, o anche l’ultimo Califfato (per capirne l’importanza, anche a livello dottrinario, basta pensare che il Califfato è l’unico degli imperi dissoltisi con la prima guerra mondiale ad avere ancora dei sostenitori).
In questa prospettiva due cose (lascio da parte altre, come la politica estera e la dearabizzazione, altrettanto interessanti ma non strettamente legate alle proteste di questi giorni) erano una minaccia per la coesione identitaria della Turchia: la religione e l’eterogeneità etnica. Per questo, la Repubblica è stata fondata su leggi che, al tempo stesso, vietavano e ne davano allo Stato (e quindi all’esercito, Ataturk era un generale) il controllo, di ogni manifestazione religiosa. Per le medesime ragioni, venne bandito qualunque tipo di riconoscimento dell’identità curda, anche il più flebile: parlare in curdo, la prima lingua di milioni di persone residenti in Anatolia, era vietato e punito come attentato allo Stato.
Tutti i successori di Ataturk hanno sempre conservato questo orientamento, rappresentati in quello che è sempre stato il partito kemalista (il vero nome di Ataturk era Mustafa Kemal) di riferimento, il CHP. Il CHP è un partito socialdemocratico – Ataturk era un estimatore dei socialismi europei –, attuale membro dell’internazionale socialista, che ha però delle peculiarità: è sempre stato strenuamente filo-occidentale (ma non filo-europeista, almeno negli ultimi decenni), ha delle posizioni fortemente nazionaliste, è molto legato all’esercito, ha rapporti pessimi con i partiti comunisti (che in Turchia sono curdi), è profondamente laico (fino al 2008 era vietato l’accesso al partito a chi portasse il velo).
Il problema è che, come spesso accade, la popolazione – specie quella rurale – è sempre rimasta più legata alle proprie tradizioni religiose rispetto all’élite cittadina, burocratica (e militare) che era l’ossatura del CHP. Questo ha fatto sì che, con un paradigma che si è ripetuto ogni 10 o 15 anni, ogni volta che si andava alle elezioni la parte conservatrice e religiosa prendeva molti più voti di quelli rispecchiati dalla precedente rappresentanza nelle istituzioni e nella politica. Un governo di stampo più religioso veniva formato: questo provava a riformare lo Stato nel senso di una maggiore apertura al dissenso, alla religione, alle minoranze, cercando inoltre di indebolire l’esercito. Ogni volta che questo succedeva, l’esercito entrava sulla scena politica con un colpo di Stato, varava delle leggi speciali per ristabilire l’ordine e lo “spirito patriottico del kemalismo”, e riconsegnava il potere al CHP.
Questo processo si è ripetuto tre volte e mezza negli ultimi 50 anni, l’ultima (la mezza) poco più di 15. Per questo la Turchia è sempre stata una semi-democrazia, guidata da un’élite con idee talvolta condivisibili, ma che venivano imposte attraverso leggi che altrove considereremmo liberticide, secondo i due principi elencati sopra: 1) la coesione etnica è necessaria per la coesione nazionale: un turco è un turco e basta: 2) l’Islam deve essere controllato e arginato, altrimenti prende possesso dello Stato e lo trasforma nuovamente in una teocrazia. Due esempî particolarmente simbolici, avvenuti nel corso degli anni ’90: la prima parlamentare curda, Leyla Zana, fu incarcerata per dieci anni per aver pronunciato in parlamento, in curdo, la frase «giuro in nome della fratellanza fra il popolo turco e il popolo curdo». Erdogan, l’attuale primo ministro, è stato in carcere per aver recitato una poesia a sfondo religioso. Di più: quando fu eletto doveva ancora scontare diversi mesi della propria pena, così che il mandato fu inizialmente affidato ad Abdullah Gul (il primo primo ministro apertamente mussulmano, oltre che attuale presidente turco).
L’Unione Europea ha sempre obiettato a questo tipo di provvedimenti (Zana è stata anche premiata dalla Commissione come dissidente), spingendo per una maggiore apertura della Repubblica. Ciò ha determinato la curiosa circostanza che, in Turchia, il centrodestra di Erdogan e i partiti curdi (di estrema sinistra, ma particolari: a favore della guerra in Iraq, per esempio) sono i maggiori sostenitori dell’Europa, in quanto potenziali beneficiarî delle aperture richieste, mentre il CHP – di centro o centro-sinistra – è il meno favorevole all’integrazione. Queste posizioni si sono parzialmente evolute negli ultimissimi anni per ragioni di politica estera, ma il nocciolo delle ragioni rimane il medesimo.
Il partito di Erdogan, l’AKP, è l’erede diretto dei partiti pro-religiosi che nei decenni precedenti furono messi fuorilegge dall’esercito. Per la prima volta, nel corso degli anni 2000, un partito è riuscito a contrapporsi al potere militare, smarcandosi dal timore di fare riforme troppo incisive per la paura di un possibile colpo di Stato. Questo è stato possibile per due ragioni: la pressione internazionale in questo senso, e un gigantesco consenso guadagnato dall’AKP, anche grazie a qualcosa di simile al boom economico italiano degli anni 60: complici una serie di liberalizzazioni, l’economia turca ha fatto un enorme balzo in avanti negli ultimi dieci anni, crescendo a tassi che sfidano quelli dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Alcuni analisti dicono addirittura che l’economia turca sia la più in salute al mondo (altri sostengono sia una grande bolla illusoria, vedi il primo commento a questo post).
Erdogan, all’inizio più prudente, ha cominciato così a proporre riforme sempre maggiori, accompagnato da un consenso sempre crescente (alle ultime elezioni l’AKP ha preso il 50%, ed è stato considerato un risultato deludente), fino ad arrivare a proporre – e fare approvare attraverso referendum popolare – la modifica della costituzione repubblicana. Tuttavia, nel guadagnare sempre più potere – anziché dismetterle – ha cominciato a utilizzare le stesse istituzioni di repressione del dissenso che aveva criticato, non soltanto smantellando il potere dell’esercito e facendo arrestare quella stessa leadership che lo aveva incarcerato 15 anni prima, ma attaccando anche la libertà d’espressione di quella parte di Turchia che non lo sostiene, con arresti e processi per giornalisti e dissidenti.
Queste, io credo, sono le – riassuntissime, violentate dalla sintesi – premesse necessarie a capire le proteste di questi giorni. Domani provo a buttare giù qualche pensiero più personale su ciò che esse vogliano dire, perché siano esplose, e quali siano i possibili sviluppi. Eccolo qui: LINK.
Ciao Giovanni. Grazie per il post estremamente interessante!
Volevo giusto aggiungere un piccolo bemolle (come dicono i francesi) sull’asserzione che “alcuni analisti dicono addrittura che l’economia turca sia la più in salute al mondo”.
In verità l’economia turca sta viaggiando in bilico su una corda molto sottile sospesa su un baratro. Gli squilibri macroeconomici sono enormi e l’economia è caratterizzata da una bolla immobiliare e dei consumi spaventosa, che comporta che il Paese si indebiti oggi ad un tasso uguale a uello della Spagna, della Grecia o dell’Ungheria prima che le loro economie collassassero a causa del congelamento nei prestiti esteri verso i paesi.
Il singolo indicatore più affidabile sulla solidità finanziaria di un paese è la bilancia dei conti correnti (il current account balance). Ti linko qui l taabella eurostat con i valori per i paesi UE e la Turchia in modo da poter sostanziare ciò che ho detto sopra: http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tec00043
Significa questo che domani l’economia turca esploderà come le altre sopra citate? Questo non è detto: il Governo e la Banca Centrale si stanno adesso cimentando in una delicata opera di riduzione dell’indebitamento che in qualche anno dovrebbe dare i suoi frutti, ma se i mercati finanziari si spaventano prima, il film mo abbiamo già visto in questi anni nei paesi UE e negli anni ’90 proprio in Turchia (e in Russia).
Comunque sono d’accrdo su tutto il resto. E certamente i cittadini turchi non si preoccupano delle finanze publiche ma si godono il boom senza sapere da dove venga (come facevano greci, spagnoli, irlandesi, eccetera), quindi non stavo mettendo in dubbio che la popolarità dell’AKP non sia legata all’evoluzione dell’economia. Volevo giusto chiarire che la crescita attuale turca non è come la crescita italiana degli anni ’60 o la crescita coreana attuale (bilanciate e sostenibili), ma piuttosto alimentata dalle bolle e dopata dalla finanza come purtroppo molti altri paesi in questi anni.
Forse, e ora mi addentro in territori che non mi competono, ma dico forse la violenza della reazione del governo turco può anche essere dettata dalla necessità di conferire un’immagine di stabilità e solidità l mondo esterno (ed ai mercati finanziari da cui il paese dipende per mantenere la stabilità economica). Comunque davvero questa è giusto un’illazione.
Saluti,
Francesco
@ Francesco:
Grazie. Segnalo il commento nel post.
Post molto interessante. Attendo con impazienza quello successivo, perché davvero non riesco a capire quale anima prevalga nel movimento di protesta, se quella “secolarista” e “filoccidentale” o quella “anticapitalista”.
Grazie mille per questo bell’articolo, che ho letto su segnalazione del Post.
Lisa
Ci voleva proprio, e non scherzo. Seguo la cronaca delle proteste su Al Jazeera Int., quando posso, ma non riuscivo a capacitarmi su come una costruzione, un progetto edile, potesse causare tutto questo. Aspetto il prosieguo, e ringrazio pure Francesco, che prova a contestualizzare anche la parte economica. A volte fa “paura” l’aggressività economica turca, io lavoro per una multinazionale chimica che ultimamente ha come concorrenti principali due agguerrite società turche; inoltre, l’anno scorso andando qualche giorno a Istanbul, ho avuto la netta sensazione di un paese “rampante”, con gente che ha voglia di lavorare e di emergere, con grandi potenzialità , ma è chiaro che ci dev’essere un bilanciamento.