L’altro bastiancontrario – Iraq: un mezzo consenso per secondi fini

Iraq: un mezzo consenso per secondi fini

Lo fanno per il petrolio. Le armi di distruzione di massa non c’erano. Saddam è stato armato dagli americani. Un sistema di governo non può essere imposto dall’alto. I soldi utilizzati per la guerra potrebbero essere impiegati in maniera migliore. Perché in Iraq e non in Cina? L’intervento è stato unilaterale.
Questa è la quasi totalità delle argomentazioni di chi è contrario alla guerra in Iraq.
Eppure, la maggior parte di queste ragioni, a uno sguardo neanche tanto più approfondito, sembrano essere tutt’al più indifferenti rispetto all’intervento, spesso anche favorevoli. Rispondendo causticamente sarebbero sufficienti due parole da usare alternativamente: “Appunto” e “Embè?”.

Innanzitutto bisogna chiarirsi su cosa significhi guerra, e quindi su cosa significhi pace. Soprattutto su che valore, non semantico ma etico, si dia a quest’ultimo concetto: la pace è un fine o un mezzo?
Solitamente la pace è un mezzo, spesso il miglior mezzo, per tutelare quei pochi concetti fondamentali che sono o sarebbero al vertice delle nostre pretese per un mondo ideale: la vita umana, la salvaguardia di essa, in due parole.
Questo semplice concetto implica una cosa altrettanto semplice: ovvero che quando ci si trovi a dover scegliere fra pace, il mezzo, e salvaguardia della vita umana, il fine, si deve optare senza indugio per la seconda. Tutti i dubbi, tutte le perplessità sono lecite, ma non tanto da impedire l’azione, o meglio da ingiungerne un’altra tanto implicante quanto l’agire: la non azione.
Vi è un sedimentato costume logico, così affine alla nuova credibilità di cui gode l’ottocentesco e retrivo concetto di ‘sovranità nazionale’, per il quale la responsabilità di ciascuno è circoscritta al proprio spazio vitale, o poco più. Accettare questo concetto significa avere più a cuore la vita, l’esitenza, le condizioni umane e umanitarie, di un vicino di casa prima, di un conterraneo poi, più che quella di un equivalente sconosciuto residente in un’altra parte del mondo. Sebbene molti concordino intimamente con questa visione, rarissimo è il caso in cui qualcuno la proclami quale propria; ma non accettare questo malcostume significa avvertire ogni decisione di non intervenire, per quello che è: una decisione, appunto.

L’impossibilità di essere neutrali, se non come arbitrio consapevole e responsabile, fa piazza pulita anche della prima obiezione: è chiaro che non bisogni scegliere fra Bush e Saddam Hussein, anche perché fra un pessimo presidente, e un perfetto dittatore sanguinario la scelta sarebbe inevitabile; ma inserisce nel dibattito un altro agente, sempre trascurato per incomprensibili ragioni: bisogna farsi carico dell’enorme abisso di vite, di infrastrutture, e morale, connaturato a questa guerra, per dirsi favorevoli all’intervento in Iraq; ma bisogna farsi carico nella stessa misura dell’altro – e sta qui il fulcro della discussione, se questo sia meno o più di un “altrettanto” – insostenibile peso negli stessi termini, qualora Saddam fosse rimasto a capo della nazione, per dirsene contrari.
Per lo stesso principio non si può fare accusa degli interessi petroliferi e macropolitici americani in gioco a chi è favorevole alla guerra, allo stesso modo di come non si può accusare chi è contrario, degli interessi francesi. I noti interessi petroliferi di Chirac che sarebbero stati intaccati dall’intervento americano sono una ragione per essere favorevoli alla guerra? Senz’altro no.
Dunque se Bush “lo fa per il petrolio” si può rispondere soltanto una cosa: e allora? Cosa cambia a me, ma soprattuto agli iracheni? Come si diceva in precedenza: embè?
Essere contrari a questa guerra, non per ragionamenti di comune vantaggio, ma perché uno degli agenti in gioco ne può trarre il proprio profitto – e non è certamente l’unico – denota un pregiudizio per il quale non soltanto si abbiano in odio gli interessi di americani o chi per loro, ma che l’odio per questi ultimi (gli interessi, si spera) sia maggiore del nostro riguardo nei confronti delle persone che da tale esito potrebbero ricevere giovamento. È più importante, ci interessa di più, il bene o il male di Bush, oppure il bene o il male di quasi trenta milioni di iracheni?
Se ci imbattessimo in una anziana signora con qualche difficoltà nell’attraversare la strada e vedessimo un ragazzo intento ad aiutarla, quale sarebbe la nostra reazione? E se venissimo a sapere che quel ragazzo ha offerto il suo aiuto per cercare di ingraziarsi la signora e così ottenere parte dell’eredità, quella reazione cambierebbe?
La nostra opinione sul ragazzo in questione certo non migliorebbe, e probabilmente lo definiremmo meschino per la bassezza di un tale inganno. Riterremmo tutt’al più di informare la signora dell’ipocrisia sottesa, ma una cosa è certa: non lasceremmo l’anziana mal capitata in mezzo alla strada.
In altre parole: l’azione dell’accompagnare la signora sulle strisce non è intaccata dal fatto che qualcuno la compia per interesse, semmai ne è intaccata la persona stessa.
La prevedibile obiezione a questo punto sarà “ma la guerra in Iraq non ha fatto bene agli iracheni, mentre l’aiuto all’anziana sì”. Bene, allora discutiamo di questo, non degli interessi di Bush.

Per le stesse ragioni logiche si liquida l’argomentazione secondo la quale la guerra è sbagliata perché è stata fatta con motivazioni fittizie – le mai trovate armi di distruzioni di massa – se ci sono altre motivazioni che riteniamo più importanti. È fra l’altro curioso che il tema tradizionalmente più caro alla sinistra, la solidarietà, venga spesso trascurato da coloro che si dicono contrari all’intervento, facendo ossessivo riferimento all’infondatezza dell’accusa a Saddam, e alla quindi imbrobabile eventualità di un attacco chimico o batteriologico da parte del dittatore: come a dire che un effettivo pericolo per la nostra sicurezza non c’era (del resto è curioso che questa circostanza sia perlopiù taciuta dalla destra, che almeno come matrice dovrebbe avere più a cuore il tema della sicurezza).
Sempre a proposito delle armi si sente dire che “Saddam è stato armato dagli americani”, argomento che andrebbe contestualizzato, ma sostanzialmente ineccepibile. Ora, questo è un pensiero che ci spinge a tentare di rimuovere Saddam Hussein, oppure è un deterrente? Sfido ad astrarre per un momento la situazione dalle contingenze; sappiamo che un tiranno, vendicativo e sadico, un individuo che ha già ucciso centinaia di migliaia di persone, è stato armato da una nazione: accidenti la situazione è addirittura più grave, viene da pensare. Ancora una volta si potrà considerare negativamente quella nazione (o piuttosto quel governo), non certo la necessità di disarmare il dittatore, che anzi ne risulta rafforzata.
Ma Saddam è stato armato dagli americani: appunto!

Obiezione spinosa è quella secondo la quale un sistema di governo non possa essere imposto dall’alto. Il probelma è che questo tipo di argomentazione mescola due concetti ben distinti: non si capisce se intenda che la democrazia non sia capace di attecchire dove non vi fosse in precedenza, oppure che una forma di governo non può essere imposta da altri.
Nel primo caso potrebbe essere sufficiente citare un dato: all’inizio del XX secolo, sulla terra, non c’erano stati in cui fosse in vigore il suffragio universale (universale, quindi anche femminile), alla fine dello stesso secolo gli stati con suffragio universale erano centodiciannove. Funziona così, le cose cambiano, per fortuna. Anche in Italia, prima che ci fosse la democrazia, non c’era democrazia: è la più facile delle tautologie. Senza aggiungere che sulla possibilità che l’Italia stessa si dotasse di una democrazia c’erano molte perplessità fra gli alleati, durante la seconda guerra mondiale. C’era appunto chi pensava, che gli italiani non fossero capaci di andare a votare, come del resto in Gran Bretagna si è ritenuto a lungo di tutti i cattolici.
La storia ha dato ragione a chi pensava il contrario, come una piccola parte di storia ha dato ragione a chi sosteneva che anche in Iraq la democrazia potesse attecchire: nelle prime elezioni svoltesi nel paese, fra mitra ai seggi, clima da coprifuoco, minacce di morte, e una decina di attentati riusciti, sono andati a votare otto milioni e mezzo di persone, ovvero poco meno del 60% dei maggiorenni iracheni. Ottomilioniemmezzo! Sessantapercento: una percentuale che spesso non si raggiunge in paesi con il sedimentato costume del voto come gli Stati Uniti o i paesi Scandinavi. Nella stessa Italia se c’è una giornata di sole, e qualcuno di troppo va al mare si faticano a raggiungere tali risultati; e stiamo parlando di persone che (legittimamente, non c’è neanche bisogno di dirlo) decidono di usufruire della bella giornata per farsi un bagno, confrontandole con altri individui che per esprimere la propria preferenza rischiano la vita – chiunque fosse stato trovato con le dita macchiate dell’indelebile inchiostro del voto sarebbe stato un bersaglio, era stato detto dai terroristi. Anche in questo caso argomenti che vengono spesso usati per delegittimare il voto, hanno l’effetto esattamente opposto: il fatto che per il rischio di attentati alcuni seggi rimasero chiusi, che fra i sunniti fossero stati indetti dei boicottaggi, oppure che per votare bisognasse effettuare una registrazione, non fanno che rendere ancora più dirompente l’eco del dato. Alle successive e più tranquille elezioni legislative, undici mesi più tardi, il 74,6% degli aventi diritto andarono a votare per scegliere i propri rappresentanti in parlamento.
Questo significa che tutte queste persone erano favorevoli agli americani e all’occupazione? Tutt’altro: volevano solo decidere indipendentemente del proprio futuro.
È vero che la democrazia non è soltanto l’esercizio del voto, e che per la creazione di una vera democrazia ci sono moltissimi altri passi da compiere, ma bisogna ammettere che, come se fosse andato a votare un misero quindici o venti percento (molte previsioni andavano in questo senso) si sarebbe parlato di una sconfitta della dottrina della democrazia importata, allo stesso modo un risultato così enormemente sopra le aspettative, ne costituisce una vittoria.

Il pregiudizio per cui qualcun altro non è capace di dotarsi di istituzioni democratiche, ovvero la melensa e razzista frase secondo la quale chicchessìa non è “pronto per la democrazia”, è quanto di più borioso e falso, come ha mirabilmente dimostrato Amartya Sen ai propugnatori della democrazia come idea esclusivamente occidentale: ma con che diritto, con quale presunzione – dice il premio nobel indiano – e con quali dati fittizi, voi occidentali permettete a voi stessi di pensare che le libertà individuali siano una vostra invenzione?
Quest’ultimo concetto si ricollega all’altro verso per cui si può intendere che la democrazia non debba essere importata, ovvero che le forme di governo non possano essere imposte dall’alto. Questa obiezione potrebbe essere discussa per altre forme di governo, la dittatura, l’oligarchia, e si potrebbero confutarne gli argomenti. Non così per la democrazia, sarebbe assurdo. Nessuno può imporre la democrazia dall’alto per il semplice fatto che questa è essa stessa definizione di scelta di tutti: sarebbe una contraddizione in termini. Democrazia significa che chiunque, anche quello più in basso, in qualsiasi modo si voglia indendere questa presunta ‘bassezza’, può dire la sua.
Scegliere la democrazia non è scegliere cosa gli altri scelgono, ma è scegliere che gli altri scelgano. Anzi, più precisamente che gli altri possano scegliere: è dargliene la possibilità.

In tutto ciò, è preoccupante che la lotta per estendere la democrazia sia lasciata nelle mani di persone come Rumsfeld o peggio Kissinger (qualcuno direbbe che i risultati si vedono), ma è ancor più preoccupante che la sinistra abbia completamente abbandonato il campo di quella che tradizionalmente era – appunto – la lotta per i più deboli. Non c’è bisogno di avere il consenso di un dissidente torturato, né quello di un condannato a morte per reati d’opinione o per il cambio d’umore del dittatore di turno: questo consenso è automatico. Chiunque preferirebbe non subire tali angherie.
D’altronde non si mette mai abbastanza in luce un fatto: quante tirannìe, dalla Cina a Cuba, dalla Corea del Nord alla Russia, si autoproclamano democrazie; anche questi sedicenti governi del popolo riconoscono il valore intrinseco del diritto ad autodeterminarsi, tanto che ne millantano l’utilizzo. Se anche coloro che sono più lontani da questa forma di governo fanno vanto di dare la scelta a tutti, se nella dissestata Africa tutti gli stati (con la minuscola eccezione dello Swaziland) si dichiarano democrazie, se anche i regimi più spietati sono de jure tali, ciò significa che l’unica ragione per la quale queste istituzioni non si democratizzano è la prepotenza e l’efferatezza di chi detiene il potere, ed è completamente assurdo che proprio in Occidente – l’autoproclamata patria della democrazia – ci sia chi dubiti della bontà di quella scelta.
Talvolta viene da pensare che sia stata la furia cieca dell’antiamericanismo a fare sì che quando la dottrina dei Repubblicani americani ha subìto una completa rivoluzione, dalla sovvenzione di dittature alla promozione della democrazia nel mondo – foss’anche per convenienza anziché idealismo – i vecchi nemici di questi padri, coloro che contestavano Pinochet o lo stesso Saddam, abbiano preferito conservare lo stesso nemico, l’America, più che avere riguardo per ciò che consideravano amico, ovvero il popolo che era costretto a vivere sotto questi regimi sanguinari. E quanto di più sconvolgente è che l’etichetta che attualmente si dà all’essere di sinistra sia quella di un connivente e inane immobilismo in nome del diritto alla sovranità nazionale nel migliore dei casi, di un aperto sostegno ai nemici dei propri nemici di un tempo nel peggiore, nonostante omicidi, torture, violenze.
Questo non è essere di sinistra, questo è essere i più retrivi fra i reazionarî.

Perché in Iraq e non in Arabia Saudita o in Cina? Il paradosso è che a muovere questa obiezione non sono persone favorevoli all’intervento in Iraq, ma persone contrarie. Come se a contestare l’utilizzo dell’automobile a una persona che non getta rifiuti per terra – ma perché allora usi la macchina e non la bicicletta, se non butti le carte in giro? – non fosse chi utilizza effettivamente la bicicletta, ma chi non si fa alcuno scrupolo a gettare per terra gli stessi rifiuti.
Posso provare a spiegarti perché vado in macchina e non in bici, e magari troverai le mie motivazioni meschine e di convenienza, ma a questo punto anche tu dovrai spiegarmi perché vai in macchina, e soprattutto perché butti le carte per terra. Sarò invidioso e felice di scoprire che contribuisci più di me, se accogli le mie prerogative, altrimenti tale domanda – come tutte le malintese pretese di coerenza – si potrebbe tranquillamente rivoltare.
Domandare “perché in Iraq e non in Cina” vuole essere una proposta di rovesciare il regime cinese con una guerra? Non è una cosa fattibile, purtroppo: non bisogna mai perdere di vista il perno centrale del discorso, la salvaguardia delle vite umane; le notizie che giungono da quei luoghi fanno stringere il cuore e la coscienza, ma un’azione militare avrebbe quasi certamente conseguenze peggiori.
Fra l’altro, a chi chiede perché non si intervenga anche in altri luoghi, Blair e Rice hanno dato una parziale risposta. Tony Blair ha detto semplicemente: “dove è possibile ci si prova”. In altre parole, se si presenta un’occasione percorreremo quella strada nel tentativo di rovesciare qualsivoglia regimi; con tutti i mezzi – per ultimo quella della guerra – che ci sono dati.
Nella seconda risposta, quella data da Condoleeza Rice, il Segretario di Stato americano spiegò che l’importante è la “traiettoria”: laddove anche timidi passi siano stati fatti nella direzione democratica, ovunque le riforme siano state avviate, o dove ci sino motivi di credere che il meccanismo democratico si sia innescato, un intervento è meno necessario.
Queste risposte possono non convincere, io stesso trovo parzialmente convincente la prima, e poco convincente la seconda perché soprassiede alle sofferenze di chi si trova ora, in questo momento, torturato, umiliato e ucciso. Però non si può negare che queste siano risposte, e come tali dovrebbero esser prese. Si potrà discutere su queste risposte, ma non certo domandare ancora perché in Iraq e non in Cina?

Un altro vezzo linguistico molto ripetuto è quello secondo il quale i soldi utilizzati per preparare e condurre questa guerra si sarebbero potuti utilizzare in maniera migliore, affermazione che non si capisce in che modo possa accompagnarsi a quella, di matrice keynesiana, secondo la quale questa guerra arricchisce gli americani. L’una o l’altra possono essere sostenibili, ma si escludono a vicenda. Quindi la domanda è: questa guerra arricchisce o impoverisce gli USA?
Se l’obiezione è la prima, vale tutto ciò che si è detto in precedenza: che qualcuno si arricchisca con un’azione è del tutto trascurabile rispetto alla bontà o meno dell’azione stessa; se invece l’obiezione è la seconda, bisogna innanzitutto guardarsi dal benaltrismo vacuo. Dopodiché tener presente che le cose non si escludono, come dimostrano i milioni di dollari (fra i 70 e i 100) stanziati dall’amministrazione Bush – c’è ancora bisogno di ripeterlo? è irrilevante se in buona o in cattiva fede – per la democrazia in Iran. Poi, come per l’unilateralità dell’intervento, bisognerà commisurare l’importanza della perdita (in questo caso economica), con i beneficî che essa può portare.
Ecco: l’intervento è stato unilaterale, questa è l’unica obiezione valida fra quelle finora prospettate. Anche se è necessario fare un po’ di pulizia linguistica: per “intervento unilaterale” si intende “senza l’Onu”, come del resto era già capitato nei Balcani. Già per il solo fatto che anche il Regno Unito abbia partecipato all’intervento non si potrebbe parlare di unilateralità. Inoltre si trascurano sempre le altre nazioni che hanno preso parte all’attacco, Polonia, Australia, Danimarca, come del resto non si tiene conto che quaranta nazioni, fra cui Italia, Spagna e Giappone, abbiano inviato truppe nel corso del tempo.
Ad ogni modo è un fatto che la copertura dell’Onu sia arrivata a conflitto in corso, come è innegabile che questo rappresenti un problema. In un mondo sempre più globalizzato, dove gli stati sono sempre più vicini, la stessa idea di democrazia avrebbe la sua prosecuzione naturale in un organo democratico internazionale che dia legittimità all’una o l’altra decisione. Per questo le Nazioni Unite andrebbero riformate, e non scavalcate (e così delegittimate), poiché è aberrante che l’organo che dovrebbe garantire la giustizia nel mondo non intervenga di fronte a milizie Serbe che sparano a inermi Bosniaci in fila per il pane, “perché la Russia ha messo il veto”.

Anche in questo caso bisogna decidere quale sia il fine e quale sia il mezzo, o per rimodulare la questione qual è il grado di importanza che diamo a ciascuno dei nostri principî: la legittimità internazionale è un valore importante, come lo è la pace, ma il valore più importante, quello in cima alla scala, e quello che paragonato a tutti gli altri dovrebbe avere la precedenza, è quello della salvaguardia delle vite umane. In un mondo ideale questi principî non si troverebbero mai a scontrarsi, non ci sarebbe mai bisogno di operare una scelta: purtroppo però viviamo nel mondo reale, quello in cui – alle volte– bisogna decidere il male minore, o il bene maggiore.
Si può discutere se sia più importante la libertà della pace, se si abbia più a cuore la parità dei sessi o la legittimità internazionale, ma la vita umana è insindacabile.
Certo, si può anche decidere che il principio primo non sia la vita umana, ma la legittimità internazionale, la pace, o la vittoria della Fiorentina, ma questo comporta che trovandosi a decidere fra l’una e l’altra, si sarà responsabili della morte di quelle persone sacrificate in nome di un preteso principio più grande.

Questo esercizio logico non è soltanto un’operazione filosofica, ma è la risposta stessa all’obiezione precedente: è assolutamente evidente che le libertà individuali in Iraq siano accresciute e che lo saranno ancora di più; ma come poter commisurare l’importanza di una tale conquista per trenta milioni di persone, con un criterio come la legittimità internazionale? Sul lungo termine quest’ultimo concetto potrebbe rivelarsi di maggior impatto. È difficile stabilire un metro universale per paragonare gli eventi più disparati, soprattutto perché anche nel dubbio una scelta va fatta.
Vi è però un dato certo, che può raffrontarsi a sé stesso, e se considerato il primo dei propri valori, funzionare da metro e direzione indicativa da intraprendere: le vite umane.
È molto difficile fare caso alle cifre, viene automatico considerare cento morti come troppi, dando la stessa definizione per mille, o centomila. Effettivamente anche un morto è “troppo”, se c’è un’alternativa che ne contempli uno di meno. Se però ci si ferma un momento a pensare a cosa questi numeri significano, ci si rende conto di come due cifre identiche all’udito possano in realtà costituire una differenza enorme.

Spesso così non si pensa a quante persone erano morte, e quante ne morivano quotidianamente nell’Iraq Baathista: un rapporto dello Human Rights Watch del 2002 quantificava in 290.000 le vittime del regime di Saddam. Un dato che non prende in considerazione i morti per l’embargo, i curdi gassati, le vittime della guerra con l’Iran, e i civili iraniani eliminati con il gas mostarda. Le cifre – sicuramente destinate a crescere – non sono mai state aggiornate dall’istituto, se non per quanto riguarda l’operazione Al Anfal, il capo d’imputazione del processo a Saddam, che ha portato il numero di vittime dalle 100.000 stimate da HRW alle 182,000 accertate dalla corte irachena: questo sempre escludendo le vittime dell’embargo e quelle del conflitto con l’Iran, tenendo conto soltanto delle persone scomparse sotto il regime di Saddam. La stima più bassa parla quindi di 372.000 morti (fonti governative americane citano 500.000 morti, altre addirittura un milione) in ventiquattro anni di dittatura, 1291 morti al mese, 43 al giorno.
L’Iraqbodycount – fonte non certo filoamericana – un istituto che annota quotidianamente le morti accertate, nel marzo 2007 ha pubblicato un report dei civili deceduti nei quattro anni di guerra appena trascorsi, dove è presente proprio una voce “civili morti al giorno”. Per quanto nell’ultimo anno sia stata registrata una pesante escalation – e il titolo del resoconto è proprio questo – nell’arco dei quattro anni della guerra in Iraq le vittime giornaliere sono state 41.
In questo dato sono fra l’altro imputate all’occupazione americana anche le vittime della guerriglia, e addirittura degli attentati di iracheni (o più spesso egiziani, siriani, sudanesi) contro iracheni inermi.
Inoltre Iraqbodycount – lo stesso nome è una dichiarazione di scherno nei confronti di un generale americano ostile all’idea di fare “conteggi dei corpi” – ha spiegato perché la stima, o per meglio dire il calcolo statistico, della rivista Lancet sia inattendibile a meno di accettare conclusioni surreali (in realtà basterebbe fare la considerazione che fra la prima stima del 2004, e la seconda del 2006, dovrebbero essere morte 24.000 persone al mese: cifre da guerra su scala mondiale).

Quanto è importante il fatto che l’occupazione americana salvi due iracheni al giorno? Allo stesso tempo poco e molto. Poco innanzitutto perché porta a trascurare i milioni di deportati, le decine di migliaia di persone incarcerate, torturate, stuprate o segregate, il fatto che tre quarti della popolazione dell’Iraq sia stata ridotta al silenzio e privata dei diritti politici. Ma poco anche perché è un dato che potrebbe, il destino non voglia, ribaltarsi.
D’altra parte conta, perché dà la percezione di quante vittime avesse mietuto nel pressoché totale silenzio mediatico la dittatura di Saddam Hussein. Ma conta soprattutto perché presenta uno scenario ipotetico entro il quale nessuna persona di buon senso potrebbe dirsi contraria a quest’intervento: dato che la contesa sulle cifre è sempre un campo sterile, proprio l’area dell’ipotesi, l’ammettere senza concedere, l'”e se fosse così?”, è il grimaldello logico che permette di distinguere le obiezioni in buonafede da quelle in malafede.
Non è vero che l’occupazione salvi due iracheni al giorno – due oggi, due domani, due dopodomani? Bene, ma qualora fosse così affermeresti che la guerra, malgrado Bush, sia stata una cosa buona? Nonostante la conquista della libertà di parola (libertà-di-parola, suona strano eh?), quella dei diritti politici, il fiorire di nuove tv, radio e giornali, l’introduzione delle cosiddette quote rosa (che in Italia non siamo riusciti ad approvare) e il passaggio allo stato di diritto, credi che le libertà non siano aumentate? Bene, cioè male ma tant’è, ma ammettendo che queste cose siano effettivamente avvenute si può dire che siano grandi conquiste dell’intervento in Iraq?
Sei contrario alla guerra perché è stata condotta male? Qui non c’è bisogno di alcuna ipotesi per ammettere che il conflitto sia stato guidato pessimamente (e sempre peggio), ma ciò significa che nelle stesse condizioni di partenza, con una conduzione diversa, il tuo assenso non sarebbe mancato.

Ho tenuta per ultima un’obiezione alla quale sono particolarmente sensibile, quella che vorrebbe fare della parola “guerra” un tabù internazionale. L’idea di fondo è che bandire il concetto di guerra possa portare benefici culturali tali, da essere più importanti della quantità di vite umane sacrificate nell’immediato: vietare qualsiasi guerra perché non se ne facciano e non ci sia più bisogno di farne. È solo apparentemente una confusione fra fine e mezzo, perché non esautora, ma piuttosto rimanda, il momento in cui il bilancio va fatto. Le conclusioni che si possono trarre da questo assunto sono le più disparate, dal non parlare più di guerra ma di “operazioni di polizia internazionale” o “peace-keeping”, al decidere che nessun intervento militare debba essere intrapreso. Nel mezzo le più disparate sfumature dell’uno e dell’altro pensiero.
È un’obiezione onesta e profonda, alla quale è forse impossibile dare una risposta, purché la pace non diventi l’ossessione, puerché ci si ricordi che predicare la pace dove la pace non c’è è un paradosso. Insomma: sempre che non si scambi il fine (la vita, l’intangibilità della persona, la parità dei sessi: i diritti umani) con il mezzo (la pace, la legittimità internazionale, la sovranità).
Tenendo fortemente presente che il non scegliere è una scelta; come invocato da un bel film che si interrogava sul ruolo delle Nazioni Unite nel conflitto serbo-bosniaco: «Non esiste neutralità di fronte a un assassinio, non fare nulla per evitarlo è già prendere una posizione, non è essere neutrali».