Tre donne, tre lacrime e un libro

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Ayaan
Ero in Palestina e regalai all’educatrice che lavorava con me il libro che sapete tutti, Infedele di Ayaan Hirsi Ali: è una mirabile e disarmante storia di liberazione – il vero Vangelo di questo secolo – di una donna somala che riesce a spezzare un ciclo di abusi lungo generazioni, l’infibulazione subita, un matrimonio deciso dalla sua famiglia con un uomo che neanche conosce, una vita di sottomissione e privazione di qualunque desiderio; e lo fa facendo una cosa che a dirla è quella più facile del mondo, e invece: realizzare che la prima persona a cui si deve volere bene è sé stessi. Che tante persone, per cui provava affetto, avrebbero sofferto per la sua decisione di essere sé stessa nel modo più pieno, ma che non c’è soltanto il tuo bene e quello di un altro sulla bilancia: c’è ciò ch’è giusto.

Ahlam
Ahlam, l’educatrice, non aveva la stessa storia di Ayaan, eppure anche lei era stata condannata a una vita di quei soprusi: doveva essere accompagnata da un maschio della famiglia per rientrare a casa, se fosse andata a vivere da sola l’avrebbero uccisa (sì, uccisa), era sfuggita a un matrimonio combinato – con un cugino che non aveva mai visto – soltanto perché le famiglie avevano litigato, per fare qualunque cosa doveva avere il permesso di uno degli undici fratelli che la comandavano in tutto e per tutto: lei aveva trent’anni, era naturale che il più piccolo dei maschi, un dodicenne, fosse il suo padrone e decidesse quello che poteva fare – quando chiedeva il permesso di fare qualcosa, non riceveva neanche risposta: bastava il silenzio, era un “no”. Con il poco arabo che avevo imparato, capivo. Mi diceva sempre, e lo vedevo girando per strada «io sono la più emancipata, fra tutte le donne che conosco».

Eleanor
Lo diceva perché lei era una delle poche che si rendeva conto di quanto fosse ingiusta la deliberata subalternità in cui era stata incastonata da quella società, i maschi le erano superiori – per diritto di nascita –, ma lei voleva mostrarmi, era più vero mostrarsi, che – dopotutto – era fortunata rispetto alle altre. Le regalai Infedele e sulla prima pagina del libro le scrissi una frase di Eleanor Roosvelt vibrante di verità, che ha dentro di sé la potenza di tutte le ingiustizie del mondo: «nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso». Lui non l’ha mai saputo, me l’aveva insegnata Ivan.

Lacrime
Un giorno, grazie a qualche lacrima di commozione che avevo speso per l’abbacinante armonia di un filmato in cui diverse coppie omosessuali – alcune stavano assieme da quarant’anni – chiedevano di non essere divorziate, parlai con Ahlam dell’omosessualità: aveva scoperto a vent’otto anni che esistono gli omosessuali, e non aveva mai pensato che quegli-individui si potessero, davvero, amare. È una persona degna, straordinariamente sensibile, Ahlam: perciò capì, nonostante i trent’anni passati a inculcarle il disprezzo (è una bella storia, l’avevo raccontata pubblicando il video su queste pagine). Le lacrime sono importanti, è l’emotività che sostanzia il senso di giustizia: quando regalo Infedele alle persone valide, quelle che so che capiscono lo spirito con cui lo scrivo, sul frontespizio appunto loro questa dedica «se non piangi a “La mia libertà”, sei uno stronzo» oppure «se non ti commuovi a “La mia libertà” sei una stronza». “La mia libertà” è il capitolo del libro in cui Ayaan prende il coraggio a quattro mani e decide di fuggire, e racconta l’ebbrezza, la gioia e la sensazione di spaurimento provocatole dal sapore di quei gesti di libertà, scegliere e riconoscere sé stessi, che per noi sono tanto scontati. Davvero, bisogna avere l’emotività di un blocco di tufo per non commuoversi.

Libro
Faccio un salto in avanti, ma ci sono sempre le lacrime. L’altra sera ero a una riunione sulla politica del PD a Roma e io ne rimanevo un po’ fuori, essendo stato lontano dalle faccende romane per qualche tempo: ero passato di lì per salutare tante persone per bene, e a cui sono anche affezionato, che a causa dei miei viaggi non vedevo da diverso tempo e probabilmente non rivedrò per un po’. Così mi è quasi capitato fra le mani l’ultimo libro che Ivan Scalfarotto ha scritto, In nessun Paese, e ho iniziato a sfogliarlo. Se n’era parlato sui blog che leggo, e avevo dato per scontato che fosse un bel libro, di cui avrei condiviso l’intero impianto argomentativo, rimandandone la lettura a un futuro prossimo. Ho iniziato a sfogliarlo, e mi son reso conto che non era il libro intelligente e asciutto che mi aspettavo – non solo. Ho scoperto che c’è anche lì un “la mia libertà”, quello stesso baleno di liberazione: così son rimasto lì a fare la figura dello scemo, col viso rigato dalla commozione mentre si discuteva di mozioni di sfiducia.

Libero
Non ho scritto questo post per dirvi di comprarlo, quello fatelo se volete (ma secondo me volete). È un’altra cosa: lì dentro c’è l’istante – l’attimo – in cui la testa di una persona come noi, fragile delle sua forze, si ribella alle costrizioni impostegli da sé stessa per prima, e dalla società. È il capitolo che si chiama, appunto, L’attimo fuggente ed è il racconto di quando Ivan decide di dire forte – il contrario di una confessione – ai proprî genitori che è omosessuale. C’è proprio un momento, venuto dopo anni e anni di ragionamenti, in cui si capisce che negare la verità a qualcuno per tutelarlo, oltre che per tutelare sé stessi, è un atteggiamento arrogante, significa mettersi su un piano morale superiore, e valutare gli altri con un metro diverso da quello con cui si misura sé stessi: Ayaan non accetterebbe mai un’Ayaan che infibulasse la figlia, Ahlam non accetterebbe mai un’Ahlam che sottomettesse le donne della famiglia, e Ivan non accetterebbe mai un Ivan che rifiutasse un figlio omosessuale.

Attimi
È quell’attimo di follia lucida, con il cuore in equilibrio, in cui si realizza che le persone valide e che ti vogliono bene – se lo sono fin dentro – non potranno andare contro a ciò che è giusto, quale che sia l’educazione che hanno ricevuto, perché altrimenti non sarebbero persone valide, non ti vorrebbero bene:

Con mamma il caso che ci portò alla rivelazione fu una mia relazione con un ragazzo olandese. Ci vedevamo tra Milano e Amsterdam nei fine settimana. Il mio Jan era bello come il sole e io lo avevo ritratto in centinaia di foto che facevano bella mostra di sé in ogni angolo della casa. Un giorno mia madre aveva annunciato una visita a Milano. Mi ritrovai come un assassino impegnato a modificare la scena del delitto. Ogni dettaglio che rimandasse alla mia storia con Jan, foto, biglietti aerei, cartoline (esistevano ancora le cartoline) dovevano essere rimossi e parcheggiati in un apposito contenitore, in attesa di essere riportati al loro posto. Mi sentivo felice come un assassino che attende la visita del Ris di Parma e il senso di fastidio aumentava. L’impressione era che il cambiamento della scenografia avrebbe complicato il futuro, anziché renderlo più semplice. Sarebbe stata la prima di una lunga serie di manomissioni e di rimesse in opera del palcoscenico della mia vita.

Fermatevi un momento qui. Pensate a questo meccanismo che porta a nascondere, a mischiare le carte per tramutare un luogo denso d’affetto in un luogo asettico, a vergognarsi di essere innamorati invece di urlarlo forte ai quattro vènti. A decidere che è meglio di no. Pensate a tutti i calcoli – inconsci, ma anche consci – su quale sia la strada più conveniente, più indolore per tutti. Le piccole autoassoluzioni per le minute angherie a cui ci si sottopone, e a cui si sottopone il proprio compagno. Credo, immagino, che anche Ivan avrà pensato decine di volte – così come per Ahlam e le sue amiche meno emancipate – mentre scacciava lo stesso pensiero: «in fondo è possibile vivere una vita parallela, non sono mica in Iran, sarà soltanto una-lunga-serie-di-manomissioni…»

All’improvviso decisi di rimettere tutto com’era, al proprio posto. Se mia madre voleva venirmi a trovare, quella era casa mia, foto comprese. Se non le piaceva, era libera di non venirci più. Quando arrivò non fece fatica a notare le immagini di Jan e a chiedermi chi fosse questo (sottinteso «bel») ragazzo. «È il mio amico di Amsterdam». E in questo modo risposi implicitamente alla sfilza di domande (sempre evase con abilità) che mi erano state fatte in precedenza riguardo ai miei continui viaggi in Olanda. Silenzio assoluto. Poi chiacchiere varie. Alla fine fui io a rompere gli indugi: «Mamma, ma ti interessa sapere qualcosa di me o non te ne frega niente?». E lei: «Certo, dipende da quello che mi vuoi dire tu: io non ti faccio domande a cui non vuoi rispondere». Vuotai il sacco. Le confidai che Jan era in realtà il mio compagno, che stavo con lui e che lo amavo moltissimo. Mia madre provò a dirmi qualcosa. Una frase, in particolare, la ricordo benissimo: «Sono preoccupata, perché la tua vita sarà più difficile». Da allora, comunque, i miei compagni hanno sempre avuto posto anche nella sua vita. Il suo affetto e il suo rispetto non mi sono mai mancati.

E poi c’è papà. La famiglia di Ivan è del sud, trainato da una sorta di pregiudizio sul pregiudizio del padre, la rivelazione si era fatta attendere. Poi, un giorno, la stessa risoluzione a rifiutarsi di accettare chi – si presume – rifiuti di accettare:

Anche lui ha saputo perché in una data situazione ho rifiutato di fingere: questa volta, peraltro, non si trattava di fotografie, ma di una persona in carne e ossa. Era Capodanno e da qualche mese convivevo con un ragazzo, Erminio, che sarebbe poi stato il mio compagno per dieci anni e mio fratello per sempre. Papà tornava da una vacanza in montagna e aveva deciso di fermarsi a Milano. Erminio mi aveva subito detto che in quei giorni sarebbe volentieri tornato a casa di sua madre, in modo da consentirmi di ospitare mio padre. «Non se ne parla nemmeno». Quella era casa sua quanto mia e il problema, se c’era un problema, non poteva essere di certo suo.

A papà non avevo trovato di meglio che inventare una scusa. Gli dissi che avremmo festeggiato l’anno nuovo a casa, motivo per cui non avrei avuto la possibilità di ospitarlo per la notte. Il giorno dopo, tuttavia, aveva cominciato a chiedermi in modo sempre più insistente quando ci saremmo visti. Io lo rimbalzavo, spinto anche da una serie di persone che conoscevano bene sia me sia lui, impegnate da sempre a garantire che se gli avessi parlato non avrebbe capito, che se la sarebbe presa a morte, che sarebbe stato un disastro.

La cosa che colpisce sempre, in questo tipo di storie, è l’inversione del senso di colpevolezza: non era Ivan a dover decidere se pazientare e indulgere su un’eventuale intolleranza del padre; era invece come se un (presunto) genitore omofobo fosse intitolato alla propria intolleranza, e potesse essere lui a decidere il grado di accettazione a cui sottoporre il figlio. L’omosessualità è la colpa, e l’omofobia è la reazione legittima.

Quando mi decisi a raggiungerlo in un luogo di Milano per bere qualcosa insieme, lui era furibondo. Si sentiva preso in giro, avvertiva che c’era qualcosa che non andava, capiva che volevo tenerlo lontano da casa mia e si domandava il perché. Colsi l’attimo: «D’accordo: c’è una cosa che non sai e che devi sapere, altrimenti non potrai entrare in casa mia né oggi né mai». «Hai una donna?». «No, ho un uomo». Passarono tre interminabili secondi nei quali lui mi ha poi confessato di avere pensato qualcosa tipo: «Non posso dire una cazzata, ora. Quello che dirò adesso mio figlio se lo ricorderà per sempre». Finalmente uscì un «Ebbè?». Proprio così: «Ebbè?». Ebbè, e quindi, e allora, e qual è il problema? «Ma quando mai ti sono sembrato omofobo», aggiunse. (…)  Il suo «Ebbè» è servito a costruire un rapporto ancora più forte tra noi. Non solo: papà è diventato una delle colonne dell’Agedo, l’Associazione dei genitori di omosessuali fondata da Paola e Giovanni Dall’Orto (madre e figlio, guarda caso). L’Agedo è l’unica associazione composta da eterosessuali che si batte per i diritti degli omosessuali.

Probabilmente neanche pensandoci tre ore, anziché secondi, il padre di Ivan avrebbe potuto trovare una risposta più intimamente degna, pudica, vera, commovente, di «embè?». Come dire: «ok, ora dimmi la cosa che davvero potrebbe farmi arrabbiare». Non c’era. E la punta di offesa ch’era presente nella replica – perché mi hai pensato omofobo? – era il sentito sigillo dell’assenza di quel pregiudizio.

Certo, Ivan è fortunato, ha una famiglia che si è dimostrata più matura di molte altre (il mio primo pensiero era stato di scrivere “speciale”, e poi ho avuto orrore per quel sostantivo in questo contesto: “normale”, altroché). Altri potrebbero non avere la stessa forza o lo stesso coraggio d’animo – e dobbiamo cercare di creare le condizioni perché non ci voglia nessuna forza, per farlo – ma questa piccola, grande, storia di libertà e liberazione dimostra che fare ciò che è giusto è un regalo che ognuno deve riuscirsi a fare. E che l’affetto e la stima delle persone a cui vogliamo bene hanno valore – e sono la cosa più importante che abbiamo – proprio perché non sono gratuite, ma dipendono nella loro essenza dalle nostre azioni e dai nostri pensieri, con i quali le guadagniamo un po’ ogni giorno.

Ah. Se non vi siete commossi, siete degli stronzi.