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Uno degli argomenti teologici più sciocchi sull’importanza di credere in Dio è la famosa scommessa di Pascal. Il concetto è che siccome credere in Dio conviene, allora è giusto crederci. In realtà, come molti hanno notato, non è una dimostrazione dell’esistenza di Dio – sarebbe certamente bello che esista la fontana dell’eterna giovinezza, ma ciò non rende la sua esistenza più probabile – ma dell’opportunità di crederci anche qualora non ci fosse. In pratica, se si crede in Dio e Dio esiste si ottiene la salvezza, se non ci si crede non la si ottiene, e se non esiste non cambia nulla: perciò è meglio credere. È un argomento ridicolo per tanti motivi: uno che non ho mai sentito dire, ma a cui penso sempre è «ma chi ti dice che Dio sia contento che tu credi nella sua esistenza?» Magari non vuole che gli si rompa. Per quanto ne sappiamo, Dio – metti che esiste – potrebbe mandare in Paradiso quelli che non hanno creduto in lui, e all’Inferno quelli che ci hanno creduto. E poi c’è l’obiezione più immediata: a quale dei settemila “Dio” che l’uomo ha inventato bisogna credere per essere salvati?
La risposta l’ho avuta qualche giorno fa in un racconto di un amico, che ha conosciuto il vero Pascal 2.0; era stato in India, in alcuni villaggi abbastanza sperduti del sud: posti che qualcuno definirebbe dimenticati dalla grazia di Dio (e, invece, vedrete!). Ad accompagnarlo era un tassista locale (il nome non se lo ricordava, quindi lo chiameremo “Antonio”), di quelli chiacchieroni e socievoli con cui dopo un po’ di viaggiare per un tragitto prestabilito avevano fatto amicizia, fra descrizioni turistiche e chiacchiere sulle rispettive famiglie. Come succede, alla fine si erano stati simpatici al punto che Antonio li aveva voluti portare a casa sua, a conoscere la propria di famiglia. Così, facendo una gradita deviazione sulla tabella di marcia, erano arrivati a questo villaggio nella provincia di Kottayam, nel sud ovest dell’India. Il villaggio era quasi fortificato, e la sera c’era una sorta di coprifuoco per le tigri: tutte le entrate dell’abitato venivano chiuse all’arrivare del buio. Mentre raccontava di questi particolari, bevevano latte di cocco che Antonio era andato a raccogliere direttamente alla fonte, arrampicandosi su di un albero davanti ai loro occhi. Poi erano entrati in casa e appesi alle pareti c’erano mille poster di cui erano tappezzati tutti i muri – non raffigurazioni, proprio poster: Cristo, Maometto, Budda, Krisnha, Vishna, Shiva, etc. Pareti ricoperte di tutte le divinità che all’apparentemente molto mistica famiglia di Antonio erano venute in mente.
Così, il mio amico, incuriositosi e oramai rassicurato dal loro grado di confidenza gli aveva domandato: «scusa, Antonio, ma – tu – di tutti questi, per quale preghi?» E lui: «mah… io, per sicurezza, tutti quanti».
Grazie a Jai
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