Lunedì degli aneddoti – XXX – L’invincibile Marco Aurelio

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

L’invincibile Marco Aurelio

Secondo me la gente che la vede in foto – o sulle monete da 50 centesimi – non se l’immagina così piccolo e soprattutto così in alto, il Campidoglio, la Piazza del Campidoglio. D’altronde sì, è un colle, ma chissà se uno ci pensa. Comunque, se salite quelle scalette sopra all’Ara Coeli vi ritrovate in quella piazza, con in mezzo la famosa statua equestre di Marco Aurelio. La storia delle Oche del Campidoglio la sanno un po’ tutti, mentre quella della statua, e di come sia finita lì, è un po’ meno nota.

Intanto è lì da poco, 450 anni, per una statua che è in piedi da quasi il quadruplo. Prima stava da un’altra parte, che non si sa bene se sia Piazza Colonna – accanto alla colonna di Marco Aurelio – o il Foro romano. Resistette a un primo spostamento, e anche a un secondo, dal Laterano.
E poi, ve la posso dire una cosa? Secondo me lì in mezzo ci sta male. Ma che ci fa? Talmente ci sta male, secondo me, che son stato contento quando ho scoperto che Michelangelo, quando aveva disegnato la piazza, non ce la voleva mettere lì al centro.
In realtà la statua è illustre, simboleggia l’invincibilità dell’imperatore, e si dice che inizialmente sotto alla zampa alzata del cavallo vi fosse un barbaro vinto. Quella lì è l’unica statua equestre di età classica che sia sopravvissuta alla furia del medioevo cristiano. A quel tempo tutte le statue di personaggi “pagani” venivano fuse. Il nostro Marco Aurelio si salvò per un caso e per l’ignoranza altrui: lo credettero un Costantino, primo imperatore a convertirsi al Cristianesimo, e perciò riuscì a scampare la fusione perché, raffigurando un cristiano, non costituiva idolatrìa.

Si vede che fra intolleranti ci si capisce, perché ci riprovarono i fascisti: centinaia d’anni dopo, nel 1979, una bomba del “Movimento rivoluzionario popolare” esplose in Piazza del Campidoglio. Un temporale salvò la piazza da una strage, e l’invincibilità salvò Marco Aurelio che finì soltanto scheggiato. Fu in quell’occasione che un’indagine dei restauratori scoprì l’allarmante corrosione che stava subendo il bronzo della raffigurazione. La statua fu così rimossa e nella piazza furono costretti a piazzare una copia, mettendo così fine all’invincibilità della statua di Marco Aurelio.
Quello che non era riuscito ai barbari ai cristiani e ai fascisti, era riuscito – gutta cavat lapidem – al Tempo. Lento sì, ma inesorabile.

Grazie a Gabriele

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo

from: V. Fantechi
to: G. Fontana
date: Tue, Feb 9, 2010 at 1:01 PM
subject: rettifica

Ti chiedo una rettifica sul blog così concepita. – mia nonna mi chiede di pubblicare questa rettifica: «nonno Vittorio mi avrebbe apprezzato ed amato moltissimo perchè era capace di riconoscere il buono anche laddove certi atteggiamenti e qualche idea non collimassero con i suoi. L’aver rinnegato senza ripensamenti la sua infatuazione giovanile per Mussolini lo dimostra. Mi ha anche, come previsto, precisato che l’albero non era il nespolo ma era ed è il noce, risaputamente lento a crescere e fruttificare, e molto longevo».

Lunedì degli aneddoti – XXIX – Morto un papa

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Morto un papa

Permettete una volta, negli aneddoti, di raccontare una storia di casa mia, perché – anche se non è storico o accaduto a qualche personaggio celebre – trovo che questa valga la pena di essere raccontata. Talmente ne vale, che sfido il rischio – pressoché certo – che domani mi arrivi un’email dei nonni che si lamentano per l’imprecisione nei particolari di queste memorie («era un albero di albicocche, non di nespole!»).

La mia bisnonna si chiamava Lina, ogni volta che viene rievocata, assieme a lei viene evocata anche la sua proverbiale maestria nel giocare a carte, e soprattutto la sua mefistofelica attitudine nel bluffare: «ho delle carte orribili», diceva sempre Nonna Lina; si vestiva d’una faccia sconsolata e tutti finivano per crederci. Poi in quattro e quattr’otto chiudeva la partita. Ma la volta dopo, ancora, e quella successiva «ho delle carte orribili»: recitava di nuovo la stessa parte, e non ce n’era uno che una buona volta smettesse d’abboccare.

Nonna Lina era sposata con Nonno Vittorio, io non ho conosciuto né l’una né l’altro: forse è stato meglio così perché so che non gli sarei andato troppo a genio – Vittorio era un uomo d’ordine, severo e all’antica. Fascista della prima ora, fece anche la Marcia su Roma, per poi scoprire negli anni Trenta che il Duce non era – né aveva – una promessa mantenuta. Su di lui si racconta della piantina di nespole che aveva piantato negli ultimi anni della sua vita, per farne un albero, anche se ci avrebbe messo decenni a crescere: lui diceva «non le mangerò io, le nespole, ma qualcuno le mangerà per me». (buone!)

Nonno Vittorio era un omone alto quasi 1.85, che per il tempo era tantissimo. Lui e Lina non se li davano neanche gli appuntamenti: non c’erano telefoni, ma che bisogno ce n’era? Quando Vittorio arrivava in piazza, Lina lo vedeva da lontano stagliarsi su tutti gli altri: era il più alto del paese. E si vedevano – o meglio, lei vedeva lui – così.

Nonno Vittorio e Nonna Lina si fidanzarono abbastanza presto. Si racconta che lui fosse molto innamorato di lei. Però successe un fatto: quando Vittorio partì per fare il militare erano ancora fidanzati, con la prospettiva abbastanza concreta di sposarsi al suo ritorno. Durante la leva, però, gli vennero alcuni dubbi, o forse – chissà – dei capricci: si domandava se era davvero sensato quel matrimonio, se quei loro sentimenti fossero genuini, e tanti pensieri più articolati di così. Perciò prese carta e penna e si mise giù a scrivere, e a scrivere, una lunga lettera in cui esprimava alla sua ventura sposa tutti i suoi dubbi, le sue perplessità, le ragioni che lo spingevano a dubitare: che forse questo matrimonio non s’aveva da fare. Tutto ciò senza trascurare la possibile reazione della fidanzata, premurandosi di come Lina avrebbe ricevuto questa lettera, industriandosi a scrivere perché non ne soffrisse troppo, e cercando di metterci tutta la delicatezza di cui le sue corde erano capaci.

E, a onor del vero, di scenate Lina non ne fece proprio. Quando ricevette la lettera, la prese in mano, la lesse da cima a fondo, con attenzione. Poi volle rispondere – prese carta e penna anche lei, e ci scrisse la bellezza di otto parole: «morto un papa se ne fa un altro».
Beh, non si lasciarono più.

(Con rettifica)

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Lunedì degli aneddoti – XXVIII – Teorema della cacca di cavallo

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Teorema della cacca di cavallo

Quando c’è un problema che pare non avere soluzione e tutte le strade prospettate sembrano essere state battute, è facile supporre che la soluzione – semplicemente – non esista. Invece una via c’è sempre, e se non la vediamo è perché il futuro è così imprevedibile e ricco che basarsi sui dati che si hanno al momento per fare delle speculazioni è non solo peregrino, ma anche fuorviante. Questo concetto, foriero d’ottimismo (ma anche d’impigrimento: perché se non si può sapere cosa fare, non si fa) ha una sua propria storia e definizione: la parabola, il teorema, della cacca di cavallo – se c’è un problema irrisolvibile la soluzione arriverà, inaspettata.

Nel 1898 si tenne a New York la prima conferenza di pianificazione urbana della storia; il problema più grande di cui dovevano discutere le delegazioni arrivate da tutto il mondo era un problema ben serio: la cacca di cavallo. Il cavallo era, da sempre, il mezzo di trasporto privilegiato dall’uomo e nel corso del tempo la diffusione degli animali e il concentramento delle persone, nell’era post-industriale, attorno ad agglomerati urbani sempre più grossi aveva acuito fino a livelli mai affrontati il problema dei “rifiuti” che questi cavalli producevano. Ancora prima dell’avvento di un prototipo di trasporto pubblico le città venivano attraversate sostanzialmente a piedi, e i cavalli si usavano su distanze più lunghe: ancora all’inizio del 1800 in pochissimi possedevano un cavallo. Ma già nel 1853 centoventimila persone nella sola New York viaggiavano sugli omnibus, sorta di carrozze pubbiche con tragitti prefissati nelle aree urbane. Ovviamente questa quantità di carrozze aveva bisogno di una quantità di cavalli che aveva bisogno di una quantità di cibo che veniva restituita in letame in quantità. Ma tutta quella cacca come e dove si poteva mettere?
Esperti del tempo calcolarono che ogni cavallo produceva qualcosa come 8-10 chili di letame al giorno, nel 1880 – ancora lontano dal picco nella popolazione equina che sarebbe stato riscontrato 20 anni dopo – soltanto a New York e Brooklyn ogni giorno venivano prodotte quasi duemila tonnellate di cacca di cavallo. Nel 1894 il Times di Londra stimò che, continuando allo stesso ritmo, nel 1950 ogni strada della città sarebbe stata coperta da più di due metri e mezzo di letame. La questione è che nessuno sapeva trovare una soluzione a questo problema, perché i cavalli erano necessarî alla vita delle città.
Il convegno urbanistico fu un disastro completo, nessuno riuscì a produrre idee funzionali: l’incontro si concluse in un insuccesso talmente evidente da far sì che gli organizzatori decidessero di chiuderlo dopo soli tre giorni, anziché dopo i dieci della durata prevista. Tutti si arresero all’idea che il problema della cacca di cavallo fosse insormontabile, che nulla si potesse fare per invertire la rotta verso il baratro.
Invece, inopinatamente, il problema si risolse come nessuno aveva previsto, e con eterogenesi dei fini: l’invenzione dell’automobile.

(un omaggio a Luca e Matteo)

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Lunedì degli aneddoti – XXVII – Zzzzzz

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Zzzzzz

Qual è il più grande portatore di morte nella storia del mondo? La guerra? L’odio? Il denaro? No, le zanzare. C’è chi le odia visceralmente e chi, come il sottoscritto lo confesso, non le ammazza neanche. Eppure sembra che abbiano ragione i primi: ogni 12 secondi, nel mondo, una persona muore per il morso di una zanzara.
Poi ci sono quelli che si vendicano, ricordo di aver letto qualche tempo fa di alcuni scienziati che avevano tolto, in laboratorio, il recettore che dava alle zanzare il segnale di “bottino pieno”. Quelle continuavano a succhiare sangue fino a esplodere.
Eppure la scoperta delle zanzare come organismi forieri di malattie è decisamente recente: soltanto nel 1877 Patrick Manson formulò l’ipotesi che le zanzare potessero essere il mezzo di trasporto delle malattie, e fu Ronald Ross vent’anni dopo a dimostrare che la malaria fosse portata proprio dalle zanzare, e – per questo – a vincere il Nobel. Curiosamente il comitato del Karolinska Institutet, quello che assegna il Nobel per la medicina (e fisiologia), ignorò completamente l’apporto di Manson, sia teorico che pratico. E non si poteva dire che non ci mettesse sé stesso, e anche di più: la prima ipotesi che fece sull’acquisizione, da parte delle zanzare, degli agenti patogeni attraverso il sangue che succhiavano, fu testata su delle zanzare a cui aveva fatto mordere il proprio cameriere affetto da elefantiasi. E non si fermò qui: a conferma della teoria enunciata dal collega Ross, Manson fece mordere il proprio figlio a delle zanzare infette del parassita responsabile della malaria che si era fatto mandare dallo zoologo italiano Giovanni Battista Grassi. Qualche giorno dopo, effettivamente, il figlio si ammalò di malaria, per poi riuscire a salvarsi con massicce dosi di chinino. Certo non si può dire che Manson non tenesse alla propria scoperta!

E infine una digressione personale: quando ero in Burkina Faso (dove avevo anche toppato la diagnosi di una malattia tropicale: pensavo fosse l’acqua, era una zanzara) – Parlavamo dei diritti delle donne, e di come fosse difficile incidere veramente – mi hanno riferito il proverbio Burkinabè: “Se pensi di essere troppo piccolo per cambiare le cose, prova a dormire in una stanza vuota con una zanzara”.

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Lunedì degli aneddoti – XXVI – Dumas

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Dumas

Se dico Dumas uno che ne sa dovrebbe chiedere «ma chi? Dumas padre o Dumas figlio?» E la risposta sarebbe: «tutti e due!». Certo uno che ne sa, magari saprebbe anche l’aneddoto quindi non ci sarebbe bisogno di raccontarlo. E allora si spingerebbe a raccontare che il padre è quello dei Tre Moschettieri (e di d’Artagnan!) mentre il figlio è quello della Signora delle camelie, più noto per averci permesso di libar ne’ lieti calici attraverso un giro particolarmente strano (ora non pensate che tutte queste cose io le sappia a memoria, no, per gli Aneddoti del lunedì si studia!). Poi, vabbè, sulla Signora delle camelie ci sarebbe un sacco da dire, più male che bene, per aver creato stuoli di adoratori, ma soprassediamo.

Dumas padre era figlio di un generale napoleonico, ma ci litigò e fu cresciuto dalla madre da cui prese il cognome. Dumas figlio non fece lo stesso, perché prese nome e cognome del padre, Alexander Dumas anche lui. Una cosa fece come il padre, oltre al nome, cioè litigare con il proprio, di padre, ovvero Dumas padre. Così ci fu un periodo in cui i due Dumas non si parlavano, e quando erano costretti a farlo per ragioni pratiche non rinunciavano a trattarsi come sconosciuti, e a darsi del “voi”. Ciò nondimeno appena finito il suo romanzo, il succitato La signora delle camelie, Dumas figlio volle farne avere il manoscritto al padre. Qualche giorno dopo questi lo fece chiamare, per dirgli: «la vostro operato è stupendo, signore». Al che, Dumas figlio rispose: «signore, sono ancora più contento di un tale complimento perché viene da una persona di cui ho sempre sentito molto bene da mio padre».

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Lunedì degli aneddoti – XXV – La fuga

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La fuga

La leggenda di Samarcanda, poi cantata da Vecchioni, rimodulava l’eterno tema dell’ineluttabilità del destino: non si può eludere ciò che il fato ci ha assegnato, e se si prova a scappare si finisce per non far altro che andargli incontro. In quella storia c’era un soldato che intravvedeva la morte, e cercava in tutti i modi di fuggirle, per poi ritrovarsela davanti a centinaia di chilometri di cavalcate, con in bocca la frase: «ti aspettavo».
Ce n’è una versione più moderna e, forse ancora di più del destino, è una nemesi. Quasi un insegnamento a liberarsi dalle proprie paure, perché altrimenti se ne finisce ingoiati.

La storia è quella di una coppia di pacifisti canadesi. Per quanto il Canada, agli inizî degli Anni 80 – dove la loro storia è ambientata – non sembrasse il luogo più esposto al rischio di uno scontro bellico, i due erano terrorizzati dal possibile scoppio di una guerra. Da un giorno all’altro sarebbe potuta scoppiare la terza guerra mondiale, pensavano ossessionati, e questa avrebbe coinvolto anche il Canada. Così, nonostante – si può immaginare – tutti gli spiegassero che l’eventualità di vedere dei carri armati alle porte di Toronto fosse davvero remota, presero la decisione di partire. Per dove? Chissà, il posto più lontano dalla civiltà, dai centri chiave di un possibile conflitto, un luogo dove anche soltanto la notizia di una guerra non sarebbe giunta loro. Presero un atlante e lo studiarono a fondo; fino a quando non riuscirono a isolare un minuto arcipelago dell’emisfero australe, quasi disabitato e popolato di sole pecore. Era quello che cercavano: portarono con loro i figli, i proprî averi, e si trasferirono lì.
Il 2 aprile del 1982 scoppiò la guerra delle Falkland.

da qui

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Lunedì degli aneddoti – XXIV – Saluti

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Saluti

Che il saluto italiano per eccellenza venga dal Veneto, e voglia dire “schiavo”, nella forma di cortesia “tuo schiavo”, lo sanno un po’ tutti. È una parola che ha avuto un tale successo da colonizzare un sacco di altre lingue, anche se tutti faticano a capire come in italiano si dica “ciao” sia quando l’interlocutore arriva che quando questi va via, così tradendone un po’ l’etimologia verosimilmente originatasi per un incontro e non per un commiato.

E l’invenzione di Edison? No, non la lampadina (che è pure disputata) ma una cosa perfino più comune: hello. Per quello bisogna tornare a un’altra invenzione disputata, quella del telefono: provando per la prima volta il nuovo congegno, Thomas Edison espresse la propria sorpresa con l’equivalente di “accidenti” nell’inglese di allora, ovvero «hullo». Quella quasi-interiezione di Edison, mal trascritta, soppiantò presto l’originario «ahoy», che era più facile da perdere nei disturbi delle linee.

Da lì l’espressione “Hello”, per rispondere al telefono, si è fatta strada a tutti i capi del mondo, ed è trasversale: dall’arabo all’ebraico, dal solitamente sciovinista francese al russo. Fra i pochi che non rispondono al telefono con “hallo”, ci sono gli italiani. Nel Belpaese si dice “pronto”, una parola che non ha nulla a che vedere con un saluto e di cui mi è più volte capitato che gli stranieri mi chiedessero conto.
Anche per questo, ovviamente, c’è una ragione: le prime telefonate venivano effettuate tutte attraverso degli operatori, ed era a questi terzi che si diceva dove indirizzare la telefonata. Lo stesso operatore, poi, metteva in contatto il chiamante con il ricevente; ma non prima di essersi accertato che il ricevente fosse desideroso e in grado di ricevere la chiamata. E così la chiamata vera e propria cominciava quando chi riceveva la chiamata diceva – appunto – di essere “pronto”.

Grazie a Matteo

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Lunedì degli aneddoti – XXIII – Fare il portoghese

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Fare il portoghese

Alcuni, specie a Roma, lo sanno già. Ma molti non sono a Roma, e molti non lo sanno: perché si dice “fare il portoghese” per dire entrare a sbavo o non pagare il biglietto? È una cosa simil-razzista come la tirchieria di genovesi, ebrei o scozzesi? Oppure una tipizzazione sociale come lo svizzero preciso, e il giapponese laborioso? In ogni caso i portoghesi non ne escono bene, quanto a propensione allo scrocco.
E pensare invece che , poveri portoghesi, erano loro le vittime di un tiro: accadde che l’ambasciatore presso la Santa Sede del re Manuel I del portogallo avesse organizzato a Roma uno spettacolo con banchetto al quale sarebbero stati invitati tutti i portoghesi che abitavano a Roma. Non era previsto invito formale, bastava presentarsi all’ingresso e spiegare di essere portoghese.
Inutile dire che al Teatro Argentina si presentò una folla di romani che non avevano nulla a che fare col Portogallo ma che, appunto, “fecero” i portoghesi per poter assistere allo spettacolo gratuitamente.

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Lunedì degli aneddoti – XXII – Che bisogno c’è?

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Che bisogno c’è?

Di aneddoti su Napoleone ce ne son così tanti che uno deve rassegnarsi a raccontarne bona-parte. Questo per mutuare quella lì, apparsa sulla statua del Pasquino – anche lei foriera di tante di quelle storie – a Roma, dopo le scorribande napoleoniche nella penisola, che fruttavano alla Francia opere d’arte che sparivano dall’Italia: «È vero che tutti i francesi sono ladri?» «No, ma Bona Parte sì».

C’è poi quell’altra del Napoleone che la mattina della battaglia di Waterloo aveva detto «stasera saremo a cena a Bruxelles», la stessa giornata che era finita con il caustico – e celeberrimo – commento del generale Cambronne: «merde!».
E poi c’è la volta del marchese Laplace, quello del teorema che ci rincorre dai tempi del liceo. Laplace fece omaggio a Napoleone di una copia del suo libro, Esposizione sui sistemi del mondo, in cui spiegava la sua comprensione scientifica del “creato”, è il caso di mettere le virgolette; Napoleone – a cui piaceva sempre mettere in imbarazzo il proprio interlocutore era venuto a sapere della mancata menzione di Dio nel manoscritto di Laplace, così domandò: «Cittadino, ho letto il vostro libro e non capisco come mai non abbiate lasciato spazio all’azione del Creatore». Laplace, che era un feroce difensore del suo lavoro, rispose essenziamente: «Cittadino Primo Console, non ho avuto bisogno di tale ipotesi».

Napoleone ne rise di gusto, e andò a raccontare l’episodio all’italiano Lagrange che ammise «è una bella ipotesi! Spiega molte cose».

[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi qui il sedicesimo: Gagarin, patente e libretto qui il diciassettesimo: La caduta del Muro qui il diciottesimo: Botta di culo qui il diciannovesimo: (Very) Nouvelle Cuisine qui il ventesimo: Il gallo nero qui il ventunesimo: A che ora è la fine del mondo?]

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