Sabato 19 luglio / mattina

Miracoli – Diario dalla Palestina 6

A ritroso:

Ho fatto amicizia con la suora che è a capo di tutte le suore del Medio Oriente, Egitto, e roba intorno: oggi mi ha telefonato per darmi il buongiorno.

***

Non mi ero mai reso conto di come camminare in discesa con un cocomero (alla fine l’ho comprato) sulle spalle agevoli il passo. Non l’avevo mai visto un cocomero senza semi.

***

Una sera a mangiare cipolle arrostite, bere birra analcolica alla mela, sotto i fuochi d’artificio per festeggiare la maturità: e chi m’ammazza?

Venerdì 18 luglio / sera

L’Intifada dei bambini – Diario dalla Palestina 5

Mi hanno chiesto dei soldi e non gliel’ho dati. Appena ero abbastanza lontano hanno cominciato a tirarmi dei sassi. Uno mi ha preso in faccia. Ho pensato che il modo migliore per non dargli soddisfazione fosse fingere di non essere stato colpito. Ci sono cascati.

Stavo andando a comprare un cocomero e ho visto un bambino in cima a un balcone con un mitra giocattolo: “sparava” a tutti i passanti mimando il suono dei colpi  con la bocca e il rinculo del fucile con il corpo. Dopo aver puntato tutti i passanti ha rivolto il fucile verso di me e ha scaricato il suo caricatore; io con gesto fluido mi sono accasciato al suolo, in mezzo alla strada, a braccia larghe. Il ragazzino per due secondi è rimasto paralizzato, poi ha guardato la canna del suo fucile, incredulo. Non ricordo di aver mai sentito fare a nessun bambino una risata fragorosa come quella che ha fatto quando mi sono rialzato e l’ho salutato. Alla fine mi son dimenticato di comprare il cocomero.

P.s. Lo ammetto, erano trenta secondi che pensavo «dài spara a me, dài».

Venerdì 18 luglio / mattina

Un colpo – Diario dalla Palestina 4

Stamattina s’è sentito un colpo di fucile in fondo all’isolato, poi un altro, poi tanti altri. Anche le suore erano tanto preoccupate. Poi si è scoperto che erano gli AK-47 che sparavano in aria per festeggiare il diploma di maturità.

Giovedì 17 luglio

On the road – Diario dalla Palestina 3

Ieri notte ho visto gli alzabandiera di Hizbullah per strada, sono molto contenti dell’avvenuto scambio di prigionieri con cadaveri.

E io che mi lamentavo dei corridoi monopolizzati dai collettivi studenteschi all’università!

Mercoledì 16 Luglio

Non voglio abituare i miei occhi – Diario dalla Palestina 2

Ahmed deve piegare la federa prima di infilarci il cuscino. Far toccare i buchi dai quali uscirà l’acqua a Ahmed, quando gli si fa la doccia. Bisogna sempre accendere la luce prima che Ahmed entri in una stanza. Esistono anche i disabili in Palestina, anche se ci sono problemi più importanti. Ed esistono tante persone che se ne prendono cura, tanti stranieri. Non si direbbe, mi son detto: ma poi perché?

In ogni caso è commovente quella affettuosa e cieca perizia con la quale chi si occupa di Ahmed e gli altri prova a costruire la propria, unilaterale, road-map. Magari un giorno Ahmed s’è rifiutato di fare la doccia, la volta dopo l’hanno convinto, però poi al primo zampillo d’acqua s’è messo a urlare e a scalciare. La volta dopo ancora, dopo chissà quante settimane, gli avranno fatto impugnare la doccia, e lui si è ricominciato a fidare… Ora ci sono cartelli per tutte le stanze perché chi lavora lì sappia quali sono le conquiste di quella strada per la pace, stando attenti a restare nei gangheri ben segnati da Ahmed e dalla squisita instancabile pazienza di chi si prende cura di lui.

***

E si capiscono piano piano le cose che si devono fare e non si devono fare qui in Palestina: ho imparato che nei taxi collettivi (qui sono i servìs) i soldi si porgono al membro del proprio sesso che siede nella fila davanti, che li passerà al conducente – gli uomini agli uomini, le donne alle donne. Anche se a me sono permesse molte cose: in fondo non sono né un uomo né una donna – sono uno straniero!

Fra queste molte cose, non è incluso accavallare le gambe: «non sei mica al ristorante!» mi ha detto un custode della Chiesa della Natività dove siamo andati in visita con i bimbi. Pare che qui sia considerato un brutto gesto, in qualche maniera è quel concetto molto cristiano della scomodità. Stando comodi in chiesa si è più lontani dalla sofferenza del signore? È un peccato la retorica del dolore, del sacrificio e del cilicio perché per altri verso il cristianesimo potrebbe essere una religione molto godereccia.

In ogni caso mi ha fatto piacere che quel signore abbia completamente trascurato il fatto che nella-mia-cultura accavallare le gambe non abbia nulla di offensivo. C’è il forte rischio del la-mia-cultura la-tua-cultura qui. C’è quel rischio di abituarsi al male, al meno peggio, alle storture, perché sono ovunque e in chiunque, perché in fondo è anche più comodo – specie per le coscienze – fare così.

E allora bisogna sforzarsi di non essere razzisti, di non mettersi su di un piano morale diverso e superiore agli altri: non bisogna abituarsi al manifesti ai martiri, non bisogna abituarsi alle donne velate, ai murales di ragazzini che lanciano molotov, alle cartine senza Israele, alle foto celebrative per Saddam Hussein. Bisogna dirsi (e quando si è sicuri che non è controproducente, dire) che è sbagliato.

Lo sciagurato giorno in cui si inizi a stare dalla parte della cultura-non-tua invece che da quella della moglie picchiata dal marito è il giorno in cui si è guadagnata la boria del sentirsi proprietari (in quanto occidentali) di alcune belle idee che sono invece di tutti. È il giorno in cui si è introiettato il più reazionario dei concetti: quello della responsabilità collettiva. È il giorno in cui si è persa la fiducia nelle persone in genere, e quindi in ciascuna.

***

Di incantata fiducia ne ho tanta per Ilham, Tina, Lana, Marina, Haida, le due Rimm, Nasri, Mohamad, Rowan, Said e Nikola, che ho conosciuto in questi due giorni. Che frase scontata, vero? Io, soltanto leggendomi, l’avrei pensato, e spero che i miei lettori siano meno cinici di me. Eppure basterebbe vedere la bravura di Ahlam o il sorriso di Costantino per averne la meno sdrucciolevole certezza. Poi ci sono io – così terrorizzato dal buonismo che sto scrivendo 5 righe di spiegazioni per una frase di 2 – che non l’avrei scritto se non avessi avuto concrete (e tante emotive) ragioni per pensarlo in profondità.

Sono convinto che saranno bravissimi a capire quelle cose dolorose e difficili quando torneremo, stavolta con loro, a trovare Ahmed e gli altri a Jemima. Ne hanno già parlato, recitato e visto, in modo esemplare. Ne ascolteranno, anche: c’è Rasha, autistica grave, che ci suonerà Mozart come Mozart.

E ora ora?

Antecedenti – quest’anno passato invano – Diario dalla Palestina 1

Comincio questo Diario dalla Palestina ancora non arrivatoci, per aggiornare quello che avevo scritto qui, su cosa ho fatto nel frattempo, sul perché non sono più uno studente, sul perché fare qualcosa, e sul perché farlo in Palestina.

Il blog è stato aperto fra ottobre e novembre, pensavo che la partenza fosse imminente, e invece non lo è stata. Per fortuna ho trovato delle altre cose da fare, mentre tentavo di trovare un modo, un dispositivo e uno spirito per vestirmi di quella parola che ancora mi fa paura: volontariato. Dico per fortuna, perché la ricerca è stata più che inaspettatamente perigliosa e se non avessi trovato dei diversivi probabilmente avrei rinunciato.

Non sono più uno studente per un motivo semplice, che non avevo più voglia di studiare. Lo scrissi già, l’inerzia entusiasta – ma calante – della laurea mi aveva fatto cominciare la specializzazione, fatta più per circostanze che per voglia. Non volevo, e forse non sarei stato in grado di, fare il professore: la presa di coscienza fu tardiva perché tanti – dentro e fuori l’ateneo – mi avevano cucito addosso quel ruolo. Decisi che non volevo continuare l’università ma non sapevo cosa fare, di certo senza la voglia non avrei avuto lo zelo di fare il dottorato. Più o meno in contemporanea con l’apertura di questo blog, smisi: anche senza un’alternativa, era meglio perdere tempo a cercare un’alternativa, che a dare svogliati esami – inutili.

Nel frattempo, più per caso che per premeditazione, capitai in una scuola d’italiano per stranieri. Una struttura (dis)organizzata come piace a me. Si respira aria buona, perché non c’è la gara a chi è più buono, ognuno dà quello che vuole, sa e può. La cosa migliore, ovviamente, sono gli studenti: vedere la fila che si forma da un’ora e mezzo prima (!) della lezione, una coda di persone con una volontà di ferro e magari 12 ore di lavoro sfiancante sulle spalle, soltanto per seguire una lezione d’italiano fatta da gente molto lontana dall’essere un professionista, sarebbe il miglior anticorpo per quel fetido-mellifluo razzismo (della Lega, ma anche di Di Pietro) che dice che gli stranieri non vogliono lavorare, e che devono venire “prima gli italiani”, e gli stranieri – come merci – solo se gli abbiamo già trovato e stabilito un lavoro: deve venire prima chi se lo merita, un’occhiata a quella ressa, per stabilirlo, suggerirei.

Altrettanto per caso ho trovato un impiego quest’inverno, quello che con molto snobismo ho definito il mio – forse – unico lavoro proletario. Sono lontano dalla logica dell’esperienza, della formazione introiettata da qualunque fonte. Purtuttavia questa esperienza è stata veramente utile per me. Non so se sia la causa o l’effetto di questo ragionamento, ma ero molto più convinto gli ultimi giorni che il primo, quando avevo mille perplessità sull’opportunità dell’accettare o meno l’offerta. Si trattava di fare l’operatore sociale al tendone dei senza tetto. La cosiddetta “Emergenza freddo” allestita da dicembre a aprile dal comune di Roma per i barboni. Un ambiente così drammaticamente diverso dalla scuola, con un’utenza così sfinita, così lontana dalla comprensione, così coatta a ritrovarsi nella medesima condizione, senza via d’uscita. Ho capito il valore di quell’idea tanto americana che è la speranza. Quant’essa, la sua presenza o la sua assenza, facesse la differenza. Lì l’obiettivo era la riduzione del danno: fare sì che ciascuna di quelle persone superasse l’inverno – vivo – era una vittoria. Ho iniziato piano piano, fino ad arrivare a 40 ore a settimana negli ultimi due mesi, vegliando una notte sì e una no lì. C’era anche una componente di sfida a sé stessi? Forse, ma sicuramente non era la componente principale.

Nel frattempo, come per contrappasso del mio partire, ho provato a dedicarmi alla politica di casa mia, mi sono impegnato a momenti alterni con iMille, ho provato a dare una mano in campagna elettorale a Ivan Scalfarotto finendo per fare meno che nulla. Mi è servito a confermarmi (anacoluto rafforzativo) che non bisogna mai dire che tutti-sono-uguali, e che ci sono persone per bene che hanno l’acribia e la pazienza di fare politica, lui e lui fra gli altri, ma che io preferisco 4 ore di discorsi di Obama, che 15 minuti di rifiuti, buche nelle strade, e politica sul territorio.

Arrivato a giugno mi sono ritrovato tutto d’un colpo con tre possibilità fra le quali scegliere, e ho deciso di partire con Amal Italia (niente a che vedere con i terroristi libanesi) per i primi 3 mesi. La mia idea è quella di stare fra i 6 e i 9 mesi, 3 mesi con ciascuna delle associazioni. Ma mi aspetto di tutto, potrei decidere che voglio fermarmi lì 2 anni, oppure dopo un mese dire che mi sono stufato e tornare a casa.

Cosa farò non lo dico, perché lo racconterò via via: solamente che lavorerò con i più indifesi degli e dagli indifesi: i bambini palestinesi. Anche perché l’unica mia speranza per quella catastrofe è nelle persone, una per una e non nelle masse, l’unica mia speranza è nella prossima generazione. Starò a Dheisheh, un campo profughi vicino a Betlemme.

Perché lo faccio. Di là ne avevo scritto un po’ di più, di qua ne scrivo questo po’ di meno: non è la mia prima scelta, non è il mio sogno – ma non so qual sia il mio sogno. Nel frattempo, sono una persona che ha del tempo e allora do questo tempo. Non sono un missionario, non è la mia missione: mi mancherà tanto Pro evolution soccer.

(Segue primo post in Palestina – Diario dalla Palestina 2)