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Auguri di buona compagnia.
poveri i bambini che finiscono nella squadra avversaria
Quando si parla di politica, nazionale e internazionale.
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per qdR magazine
A profezie non ci becco. La fine di Berlusconi non me l’aspettavo così, e in realtà non me l’aspettavo proprio. E, anzi, me l’ero già aspettata diverse volte: nel 2006 l’avevo dato già per finito. Quello che più ancora non mi aspettavo è che un ventennio così diviso e fratricida, in cui il primo – e talvolta l’unico – indizio della collocazione politica di ciascuno era “cosa ne pensi di Berlusconi?”, finisse con una compattezza d’intenti e di disposizione al sacrificio che dà speranze sulla salute di questo Paese – un’altra profezia che avevo sbagliato. Sembra quasi che ci sia una chance che le scorie di questo ventennio non rimangano in circolo quanto invece ci eravamo immaginati.
Naturalmente ci sono le eccezioni, la Lega che pare tornata alla versione populista d’inizio anni ’90 che parla di “quei signori” intendendo quelli che vogliono mettere a posto un Paese che loro hanno governato negli ultimi x anni. Ma anche questo potrebbe essere un segno positivo: nessuno, se ci fate caso, chiede ai leghisti di assumere una posizione più ragionevole, sembra diano quasi per scontata la parabola discendente che li riporti a essere il partito spazzatura, assimilati a Le Pen in Francia o Haider in Austria, come succedeva vent’anni fa: con un suffragio neanche troppo basso, gli egoisti ci sono in tutti i Paesi, ma escluso dal processo decisionale dalla buona volontà degli altri.
Vendola, pur agitando alcune parole d’ordine prepolitiche, sembra non voler cavalcare una situazione che pure potrebbe sfruttare populisticamente: non avendo nessuno in Parlamento, e quindi nessuna responsabilità fattuale di fronte all’emergenza, avrebbe la possibilità di attaccare tutte le misure più necessarie ma impopolari. Che è quello che voleva fare Di Pietro, ma che la sua stessa base – altro segnale positivo – ha forse convinto a ripensarci, almeno parzialmente, per senso di responsabilità.
Non solo abbiamo scoperto di avere un Presidente della Repubblica eccezionale, che non ne ha sbagliata una: e non era per nulla facile fare né troppo né troppo poco, dovendosi rapportare a questo Berlusconi; non solo in giro si sentono tanti che hanno un nuovo atteggiamento positivo verso l’Europa, come l’unica àncora di salvezza che in effetti è, e non come una aliena burocrazia che ingerisce per far togliere il crocifisso; ma c’è qualcosa di catartico nell’unione d’intenti Bossi-La Russa-Di Pietro-Diliberto, come se in qualche modo le cose tornassero al loro posto.
Il timore era sempre stato che Berlusconi lasciasse un’Italia segnata dal proprio passaggio, sia a destra che a sinistra, dove in barba alla propria storia si era cominciato semplicemente a dire l’opposto di Berlusconi, specie sulla giustizia (ma anche sull’economia), un po’ come era stato con Bush sulla politica estera. Se, come diceva Gaber, riusciremo a emanciparci non da Berlusconi in sé, ma da Berlusconi in me, in noi, nella nostra società, avremo davvero un bacino di speranza – e di buona volontà – a cui attingere, nonostante i tempi duri che inevitabilmente ci aspettano. L’auspicio è che Monti riesca a distribuire con equità, anche sui bersagli più difficili, la cura di austerità di cui è costretto a farsi medico. A giudicare in anticipo, però, non sembra esserci momento migliore per fare cose giuste ma impopolari, come toccare le varie rendite di posizione.
Naturalmente non bisogna peccare di ottimismo. Ci sono tantissime ragioni per essere pessimisti, e sono forse di più che quelle per sperare in bene. Però le ragioni per essere pessimisti c’erano già prima, l’ottimismo invece è una sensazione nuova.
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Ci sono diversi modi per tentare di risanare i conti di uno Stato che è in rosso, e questa la sarà scelta che Monti si troverà ad affrontare. Ci sono misure su cui tutti sono d’accordo, come la lotta all’evasione fiscale o il taglio dei costi della politica (e quindi non ne parlo qui, non vedo possibili obiezioni), e altre che invece scontentano una parte o l’altra: chi vuole un risanamento di marca più socialista pensa principalmente a una tassa patrimoniale e alla reintroduzione dell’ICI, chi lo vuole di marca più liberale pensa principalmente alla revisione dell’articolo 18 e all’aumento dell’età pensionabile. Io dico: scontentiamo tutti.
EQUITÀ E MERITOCRAZIA
Facciamole tutte, queste misure, perché il risanamento di cui ha bisogno l’Italia è sostanzioso. Alcune sono già nella legge di stabilità approvata da Berlusconi prima di dimettersi, l’auspicio è che vengano rafforzate. Ma anche – e più importante – perché questo Paese manca di due cose: equità e meritocrazia. E, al contrario di quello che pensano molti in Italia, sono due cose inestricabilmente interconnesse.
Equità vuol dire che tutti abbiano le stesse possibilità di partenza, che anche l’operaio possa volere il figlio dottore. Ma vuol dire anche che ciascuno abbia il miglior servizio possibile dalla società in cui vive. Meritocrazia vuol dire che il criterio con cui si scelga chi far operare sia quello del merito, e nessun altro. Che quindi siano limitati il più possibile tutti gli altri fattori, in particolare quello del censo. Ma questo principio – non ci scordiamo – non è un principio astratto o suprematista: noi non vogliamo premiare i più bravi perché sono più bravi, noi li vogliamo premiare perché fanno il miglior servizio possibile alla società. Un architetto migliore fa i ponti migliori, un dottore migliore cura meglio la gente, un pizzaiolo migliore fa la pizza più buona. Incentivare i migliori conviene a tutti.
ICI
Non c’è nulla da fare, in un Paese stagnante e in cui nessuno investe, la differenza la fa il mercato immobiliare. Gli affitti costituiscono spesso il 30 o anche il 40% di uno stipendio: questo vuol dire che chi ha una casa di proprietà, quasi sempre ereditata, ha uno stipendio notevolmente più alto. E questo vale ancora di più fra i giovani: se mamma e papà hanno una casa da darti, o ti pagano l’affitto, puoi permetterti di andare in un’altra città a studiare. Altrimenti devi lavorare prima e poi fare l’università, oppure assieme, ma con meno efficienza per entrambe. Finiti gli studî vale la stessa cosa, ed è il motivo per cui questo esercito di fantomatici “bamboccioni” non si muove da casa dei genitori. Chi si può permettere un affitto con gli stipendî da fame che hanno i ventenni in questo Paese? Pochissimi: la differenza fra chi può e chi non può la fa soltanto l’avere genitori (o i nonni) che ti lasciano la casa. Questo non ha nulla di meritocratico.
PATRIMONIALE
Il principio è lo stesso. A noi sta bene che ci siano persone che guadagnano di più, se questo servizio è importante per la società – ad esempio, dovremmo pagare molto di più gli insegnanti, che vorrebbe anche dire averne di migliori, ci sarebbe più concorrenza per il posto, più specializzazione –, il problema non è quanto uno guadagna, che qualcuno guadagni tanto è parte di un sistema virtuoso. Però ci sono persone che la propria ricchezza l’hanno ereditata e non se la sono guadagnata facendo un servizio alla società. Un po’ siamo tutti così, perché da bambini sono i nostri genitori a crescerci e comprarci i vestiti, ma sarebbe bene limitare questo principio il più possibile. Rispetto a ciò è ovvio che fare una tassa sul patrimonio colpisce di più i patrimonî accumulati rispetto a un innalzamento delle tasse (sullo stipendio). Il primo sono le entrate passate, il secondo quelle correnti. Se c’è un’emergenza, ha più senso ricorrere alla prima.
ARTICOLO 18
Nel 2002 ero alla famosa manifestazione di Cofferati: sbagliavo. In Italia c’è un sistema a due velocità, e sono due velocità enormemente differenti: la prima è una Ferrari, la seconda è un triciclo. Le persone con un contratto a tempo indeterminato, sono la larghissima maggioranza degli over 40, sono la classe più tutelata del mondo. E poi ci sono quelli che sono arrivati dopo, gli under 40, che sono la classe meno tutelata nel mondo occidentale. Che queste due condizioni possano coesistere, nella stessa economia, è il più grande sintomo del male dell’Italia: la difesa corporativa. Ciascuno difende sé stesso e i proprî privilegi, e quando bisogna chiedere sacrifici, li si impongono a chi non si può difendere, a quelli che verranno. Siccome l’economia italiana non poteva più reggere con le chiusure che la caratterizzavano, si è deciso di flessibilizzare, però ognuno ha difeso il proprio – i sindacati hanno difeso i loro iscritti – e alla fine è stato colpito soltanto chi già da prima aveva poco: a forza di co.co.co e nessun ammortizzatore sociale, in quella che è davvero la precarietà. Eppure il principio dovrebbe essere semplice: ho bisogno di una baby sitter? Assumo una baby sitter, perché ho quel bisogno. E se quel bisogno non c’è più? Devo mantenere a pagarla anche se non mi serve più? Questo concetto è chiaro sotto ai 15 dipendenti, non si capisce perché non debba valere al di sopra. Un’economia in cui nessuno è avvantaggiato è un’economia che si può permettere dei sussidî per questo standard a tutti, se invece è solo una classe ad avere delle tutele (che costano alla società), quel costo sarà pagato interamente a spese dell’altra (senza offrire nessuna garanzia). Vogliamo che siano, ancora una volta, quelli che non hanno a pagare le tutele di quelli che hanno?
ETÀ PENSIONABILE
Anche qui vale lo stesso discorso: ci sono quelli che hanno la pensione a 65 anni e quelli che non si sa quando ci andranno (se continua così, 120). Perché, è ovvio, il costo sociale di andare in pensione prima è a carico di tutti gli altri, i soldi non si inventano. Se abbassassimo l’età pensionabile a 30 anni, il costo di quelle pensioni dovrebbe essere pagato – col proprio lavoro – dai lavoratori che hanno fino ai 30 anni. Perciò si tratta di decidere: ripartire equamente quel sacrificio necessario o farlo soltanto a carico di quelli che verranno? E, se ci si pensa, qualunque procrastinazione del tipo “età pensionabile a 67 anni nel 2050 (ma anche 2027)” è qualcosa di eticamente scandaloso: vuol dire che c’è bisogno di un sacrificio, ma questo sacrificio lo si chiede solo ad alcuni, e il pagamento di questo privilegio fino alla data in questione, cioè il costo di quei due anni di meno fino al 2027, la pagano gli esclusi. C’è chi obietta che questo vorrebbe dire venire meno al patto sociale, perché quelle persone hanno cominciato a lavorare con delle prospettive precise offertegli dalla generazione precedente (a cui loro hanno pagato la pensione). Bene: ma se quella promessa era fasulla mica se la possono rifare con quelli dopo, mica si può ripetere – e anzi aggravare – lo stesso inganno. Quel patto non è stato fatto con chi ora ha 5 anni, è stato fatto con chi ora ne ha 85: e però a pagare la pensione sarà il primo. Come si fa a chiamare questo equità?
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Berlusconi è andato dal Capo dello Stato a dare le dimissioni perché non aveva la maggioranza in parlamento. Insomma, aveva ragione chi diceva che non era una dittatura.
Ora, però, vale la pena ricordare anche un’altra cosa, a futura memoria: il governo Berlusconi, con la più grande maggioranza della storia repubblicana, e con un’informazione televisiva mai così di parte (Minzolini, Masi), è caduto.
Insomma, il monopolio televisivo – per l’ennesima volta – non ha aiutato Berlusconi a salvarsi. Dico per l’ennesima volta perché tantissima gente ha sempre sopravvalutato l’impatto di questo ipoteticamente riuscito lavaggio del cervello nelle vittorie di Berlusconi. Quindi ricordiamo, è un dato semplice:
Nel 1994 la RAI non ce l’ha Berlusconi vince Berlusconi,
Nel 1996 ha il monopolio: la RAI ce l’ha Berlusconi non vince Berlusconi.
Nel 2001 la RAI non ce l’ha Berlusconi vince Berlusconi.
Nel 2006 ha il monopolio: la RAI ce l’ha Berlusconi non vince Berlusconi
Nel 2008 la RAI non ce l’ha Berlusconi vince Berlusconi
Quindi tutte le volte che il monopolio l’ha avuto Berlusconi, ha perso. Tutte le volte che metà del palinsesto era all’opposizione, ha vinto.
Questo vuol dire che avere le televisioni danneggia Berlusconi? Ovviamente no. Sarebbe fare lo stesso errore di sopravvalutazione. Il punto è che le televisioni contano molto meno di quello che si pensi, tanto è vero che quando le bocche di fuoco del regime erano dimezzate, e anzi gli facevano gioco contro, Berlusconi ha ottenuto risultati migliori. Logicamente se ne deduce che altri fattori son più importanti. Minzolini, suo magrado, e probabilmente anche malgrado Berlusconi, non conta molto.
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Su Matteo Renzi ho opinioni miste: non amo, naturalmente, tutte le sue prudenze sui diritti civili, sui privilegi della Chiesa, tutto ciò che è derubricabile sotto la voce “cattolico”. So, però, che un centrosinistra in Italia non può prescindere da una cospicua componente di cattolicesimo, e sono quindi realista. Mi piace, invece, l’idea di partito più vicina al mondo anglosassone e meno a quello della Prima Repubblica che pare portare avanti, con il riconoscimento che gli individui contano. Non mi piace la spietatezza dell’ambizione con cui incarna quest’ipotesi di leadership, evidentemente più attento alla propria affermazione che a quella delle proprie idee: un personalismo come fine e non come mezzo per affermare quelle idee. Mi piace, però, la nettezza con cui afferma quelle stesse idee.
Riassumendo: in un altro tipo di Paese, molto migliore dell’Italia, Renzi sarebbe alla mia opposizione. Lui sarebbe la parte conservatrice, e altri (che voterei) sarebbero la parte progressista. Quello, però, è il Paese che piacerebbe a me, non l’Italia, perennemente indietro di trent’anni su quasi qualunque cosa. In questo senso, per usare una definizione che mi sembra adatta, Renzi è un De Mita trent’anni più avanti. Certo, è De Mita. Ma quei trent’anni contano, specie in un Paese tradizionalista e conservatore (non solo in senso politico) come l’Italia. Fra trent’anni, speriamo, potrò fare battaglie politiche contro Matteo Renzi, per ora ce le faccio assieme per cose ben più elementari.
Leggo però di moltissimi che criticano a Renzi di non essere “di sinistra” per il suo approccio liberale in economia (non per i matrimonî gay o per la legge 40). L’inevitabile assunto logico di questa posizione è che essere pienamente “di sinistra” equivale, precisamente, a essere marxisti tout court, al socialismo reale. Non a una socialdemocrazia, non al welfare, ma all’economia sovietica. In realtà si può essere “di sinistra” in tutte le mille possibili commistioni di liberalismo e socialismo, perché liberalismo e socialismo sono appunto le due grandi ideologie progressiste (che hanno una definita e universale idea di progresso, e che hanno fiducia nel suo perseguimento) degli ultimi tre secoli, e tutt’ora – anche dopo la caduta del Muro – convivono in tutte le democrazie del mondo. Perfino negli Stati Uniti c’è un limitato stato sociale.
Quindi, naturalmente, si può essere d’accordo o in disaccordo con ciascuna di queste idee economiche, ma è sbagliato sostenere che essere contro l’Articolo 18 – per fare un esempio – non è di sinistra, giacché questa è la posizione dei conservatori liberali, per la stessa ragione per la quale è sbagliato sostenere che essere a favore dell’Articolo 18 non è di sinistra, giacché questa è la posizione della destra sociale, da Alemanno a Mussolini. Altrimenti ancora si può pensare che la distinzione destra/sinistra abbia poco senso – io penso che un’utilità ce l’abbia –, ma se la si vuole usare è bene che ciò che si sostiene abbia un fondamento filosofico e politico.
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La premessa (se vi interessa solo la storia, saltatela e proseguite in basso)
Gheddafi è morto. Ci sono casi in cui l’uccisione di una persona può essere una buona notizia? Certamente non in questo. Anche andando al di là della vicenda umana, un processo del Tribunale Penale Internazionale sarebbe stato la prosecuzione naturale del ritrovato internazionalismo che ha contraddistinto la vicenda libica, e la speranza è che questa sarà la sorte che toccherà agli altri aguzzini del regime.
Però oggi è anche il giorno in cui è finita questa guerra di liberazione. La più longeva dittatura del mondo è caduta. Uno degli uomini più truci che la storia abbia partorito ha finito di insanguinare le strade, le prigioni e i mari del Nord Africa. Naturalmente tutto è ancora da ricostruire, e nel futuro ci sono molte incognite, come ce ne sono sempre nelle grandi rivoluzioni.
Ma quale che sia il domani, non potrà che essere meno peggio – e tutti dobbiamo sperare sia meglio – della tirannia di Gheddafi. Meglio un imperfetto governo del popolo, che una perfetta dittatura del sangue. Non si può scambiare il nostro ordine con la vita di quelle persone: a meno di non essere interessati soltanto alle meschine vicende del nostro cortile, agli accordi commerciali col pelo sullo stomaco, agli inumani trattati per respingere i morti di tortura e di fame.
E oggi è anche il momento di riflettere su quello che è successo nell’ultimo decennio, da quando – l’Undici Settembre di dieci anni fa – il mondo si è capovolto, Bush e Donald Rumsfeld sono diventati gli avvocati dei diritti umani su scala mondiale, e la sinistra – con pregevoli eccezioni – ha cominciato a parlare di sovranità nazionale, di culture non pronte per la democrazia, di casa Nostra e casa Loro, come dei Borghezio qualsiasi. È il momento di ricordarsi che questa guerra, voluta principalmente da Cameron e Sarkozy, è nella storia un’eccezione, perché l’idea di sfidare la sovranità nazionale per tutelare le persone dai massacri, dalle torture, dal genocidio è nata – e non poteva essere diversamente – nella sinistra. È un’eccezione che, purtroppo, dall’Afghanistan e dall’Iraq sembra essere diventata la regola.
C’è, a onore del vero, da parlare di come l’espressione che è entrata nel gergo comune – “guerra umanitaria” – è un’espressione sbagliata, perché con umanitarismo si fa riferimento a una tradizione di rivendicazione della neutralità e dell’intervento anti-politico. Mentre il “dovere d’ingerenza”/”interventismo per i diritti umani”/”responsabilità di proteggere” fanno riferimento a una tradizione esattamente opposta, quella che rivendica l’impossibilità di essere neutrali di fronte al genocidio, che qualunque impegno contro la sofferenza delle persone è intrinsecamente politico.
La storia
È una sintesi, e perciò non ha pretesa d’esaustività, ma può essere utile a chi non conosce il dibattito.
Fino al 2001, l’idea di intervenire in un altro Paese in nome di preoccupazioni umanitarie – genocidio, pulizia etnica, tortura e uccisioni sistematiche – è stata prettamente di sinistra. Tale idea è nata fra i progressisti, radicata in quella grande tradizione cosmopolita e anti-nazionalista che vuole ogni offesa, commessa in qualunque parte del mondo, come perpetrata ai danni di tutta l’umanità. Quella tradizione può prendere la forma delle due grandi ideologie progressiste – in senso propriamente filosofico – moderne: liberalismo e marxismo, o una commistione delle due (“nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà” cantavano gli anarchici).
Successivamente, essa si è sviluppata ed è stata adottata nella sinistra, unica parte politica a farne una battaglia negli Anni ’90. La destra, generalmente identificata col realismo (Henry Kissinger è il più famoso fra i realisti), ha storicamente difeso l’Ordine e la Sovranità Nazionale. Questo, naturalmente, non vuol dire che tutti a sinistra siano stati d’accordo fin dall’inizio, ma che chi lo è stato – qui prendo in esame Usa, UK e Francia perché sono le tre democrazie che conta(va)no in politica estera, non a caso le uniche con un seggio da membro permamente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu – è stato, praticamente senza eccezioni, alla sinistra del proprio ordinamento politico. E non è un caso, perché non c’è alcuna traccia ideologica per cui l’interventismo umanitario possa essere ricondotto al conservatorismo. [specifico in parentesi quadre partito e destra/sinistra nel proprio Paese].
Il concetto dell’interventismo viene formulato nel corso degli anni Ottanta nella tradizione liberal dell’accademia statunitense che si opponeva all’egemonia esercitata dalla scuola realista durante la Guerra Fredda. Esso viene codificato per la prima volta nel ’92 con l’Agenda for Peace di Boutros-Ghali, che include per la prima volta la Responsability to Protect degli Stati nei confronti dei proprî cittadini da “avoidable catastrophe”. Questa responsabilità di proteggere, è scritto, deve essere messa in pratica da ciascuno Stato nei confronti delle popolazioni, e se per qualche ragione ciò non avviene, tale responsabilità ricade sulla comunità internazionale.
Nel caso della prima guerra in Iraq (90-91) non si può parlare di intervento umanitario perché essa è scoppiata a causa dell’invasione di uno Stato sovrano (Kuwait) da parte di un altro Stato (Iraq), come testimoniato dalla 660 e da tutte le risoluzioni che sono seguite. Questo, naturalmente, non vuol dire che Saddam Hussein non stesse commettendo massacri e torture ai danni dei civili kuwaitiani. Tutt’altro. Tuttavia, la ragione della guerra era completamente “Westfaliana”: non si invade uno Stato sovrano. È come violare l’ordine costituito, e gli alleati dello Stato invaso hanno diritto a intervenire.
È una differenza fondamentale perché le guerre per questa ragione si sono sempre fatte – la Seconda Guerra Mondiale, per dire, iniziò per la violazione della sovranità polacca (e per molte altre ragioni simili), non certo per le leggi razziali e i campi di concentramento –, la tutela della sovranità è sempre stato lo strumento preferito dell’Ancien Régime, dei conservatori, almeno nelle dichiarazioni d’intenti. E difatti fu proprio Bush padre [Repubblicano, destra] (più precisamente Scowcroft) il responsabile della decisione di evitare di rincorrere un Iraq democratico, andando fino a Baghdad. Una decisione presa quasi certamente in chiave anti-iraniana, tipico esempio di realpolitik.
Nella medesima maniera, lo stesso Bush non aveva alcuna voglia di intervenire in Bosnia. Provò a convincere gli europei a occuparsene, John Major [Conservative, destra] in particolare, che risposero picche. Era un’idea tipicamente da Guerra Fredda: un Iraq democratico nel ’91, o liberare l’assedio di Srebrenica nel ’93, non poteva essere considerato nell’interesse rispettivo di Stati Uniti e Regno Unito. Major accusò gli interventisti con parole che oggi si sentono spesso dall’altra parte dell’arco politico: «voi volete la guerra solo dalla vostra poltrona». Fu con l’arrivo di Clinton [Democratico, sinistra], e delle foto dei massacri, che dopo tanto esitare la comunità internazionale si diede una mossa (eccezione: uno dei pochi di destra – anche se atipico – a premere per intervenire in Bosnia fu John McCain). La Bosnia fu il vero scenario cruciale. Fu anche la volta che fu inventata, all’esatto opposto semantico della Responsibility to Protect, l’espressione “pulizia etnica”, che ora ci sembra esistere da sempre, coniata dai nazionalisti serbi a descrizione dei proprî intenti.
Da lì, e fino al 2001, gli interventi umanitarî sono stati orchestrati prevalentemente o soltanto da governi di sinistra: dall’equivalente del ’99 in Kosovo in cui Blair [Labour, sinistra] dimostrò assieme a Clinton [Democratico, sinistra] come fosse cambiato il corso in UK avendo messo da parte Major [Conservative, destra]. Le volte che Blair è andato in Sierra Leone è stato accolto da un bagno di folla che lo ringraziava per aver salvato (2000) migliaia e migliaia di persone dall’essere stuprate e mutilate dai ribelli. A Clinton, in Kosovo, hanno fatto anche una statua. Non è un caso che, al tempo, l’intervento umanitario fosse associato alla “dottrina Clinton” o “dottrina Blair“. E il devoir d’ingerénce è un’espressione coniata da – e tutt’ora associata a – Kouchner [Socialiste, sinistra], una posizione che è diventata veramente controversa all’interno del PS soltanto dopo il 2003.
Naturalmente, come detto, questo argomento non va portato all’estremo opposto: sarebbe sbagliato dire che la sinistra sia stata sempre a favore, come che lo sia stata tutta la sinistra. Altre volte se n’è infischiata: Clinton non è andato con Blair in Sierra Leone, nessuno – colpevolissimamente – è andato in Ruanda. Ciò che è vero, invece, è che trovare nella destra le radici dell’interventismo umanitario è veramente peregrino, mentre è indubbio che il brodo culturale in cui è nato questo concetto sia quello progressista. Sforzandosi, per trovare un controesempio, si potrebbe citare Somalia ’92 quando Bush padre – oramai con Clinton president-elect, e a un mese dalla sua salita in carica – autorizzò (in accordo con Clinton) la decisione di prendere parte all’Unitaf.
Un’altra cosa importante da ricordare è la campagna elettorale con la quale Bush figlio [Repubblicano, destra] fu eletto nel 2000. La piattaforma era prettamente isolazionista, nella migliore tradizione della destra americana. Bush accusò esplicitamente Clinton di aver sperperato importanti risorse americane in missioni umanitarie. Disse che questa era la solita politica buonista e scellerata dei democratici, e che l’America doveva farsi i fatti proprî (quasi testuale) anziché andare a cercare di portare i diritti umani qua o là. Poi ci fu l’Undici Settembre, e lo sconvolgimento della piattaforma di politica estera dell’Amministrazione Bush. I realisti furono messi da parte, e i neoconservatori presero i loro posti.
I neoconservatives sono uno strano ibrido. Prendono il suprematismo americano da destra e l’interventismo da sinistra. Rifiutano l’isolazionismo/realpolitik della destra e il multilateralismo della sinistra. Di certo, in questo decennio, sono stati la voce che si è sentita a favore dell’interventismo umanitario, con qualche amnesia. Il dibattito sull’Iraq è stato emblematico: i neoconservatori hanno rappresentato chi era favorevole, i realisti hanno rappresentato chi era contrario. La posizione dei liberal – non contraria in principio a un intervento per liberare gli iracheni da Saddam, ma che chiedeva più multilateralismo, più risoluzioni, più trattative, più legalità internazionale – è stata completamente schiacciata da questo dibattito.
È stato un decennio molto strano, insomma. E un decennio che è finito, storicamente, con l’elezione di Barack Obama, la naturale prosecuzione di quella tradizione liberal che aveva prodotto il concetto dell’intervento in favore delle vittime dei massacri e che, paradossalmente, durante gli anni di Bush figlio era rimasta rintanata nell’accademia universitaria. L’Amministrazione Obama ha svuotato le migliori università americane, assumendo quasi interamente quel gruppo di intellettuali liberal che avevano prodotto tale manifesto. La domanda che ritorna spesso è se non sia troppo tardi, se l’intero dibattito sulla necessità di intervenire militarmente per evitare massacri e torture non sia oramai stato fagocitato dallo scontro neocon-realisti, tantopiù che i primi tempi della presidenza Obama sono stati marcati da una distinta necessità di emancipazione da Bush, che lo ha portato a condurre una politica estera più tendente al realismo. In teoria, però, non è troppo tardi.
Nella teoria, il decennio passato è finito il 10 dicembre del 2009, quando Obama ha pronunciato queste parole accettando il premio Nobel per la pace:
Tutti noi ci troviamo di fronte a domande difficili su come impedire il massacro di civili da parte del proprio stesso governo o su come fermare una guerra civile la cui violenza e le cui sofferenze possono inghiottire un’intera regione. Io sono convinto che l’uso della forza per ragioni umanitarie può essere giustificato, come è stato nei Balcani, o in altri luoghi sfregiati dalla guerra. L’inazione dilania la nostra coscienza, e può portare a interventi ancora più costosi nel futuro.
Nella pratica, speriamo di essercelo messi alle spalle oggi, a Sirte.
In una discussione sull’utilizzo di mezzi violenti o illegali nelle manifestazioni in democrazia, Luigi Masala ha preziosamente elaborato in maniera lineare e rigorosa un concetto che molti di noi hanno rincorso in questi giorni, senza tuttavia riuscire a esprimerlo con tale semplicità.
Naturalmente, riproponendolo, lo astraggo dalla discussione e dall’immediato interlocutore a cui si riferisce. Non è quello il punto, come non lo è mai. Ma è importante rilevare in modo chiaro il perché usare dei mezzi prevaricatorî – sceglierei questa definizione, più che violento/illegale – nei confronti di diritti altrui sia eticamente sbagliato, proprio a cominciare dal livello filosofico:
Nel dire [che alcuni mezzi prevaricatorî sono ammissibili], forse, non ti accorgi che stai dicendo che la democrazia, per te, non conta.
Nel ribellarsi a una forma veramente autoritaria di governo (vedi il caso della Cina) ha senso che si possa agire in tal modo, perché i canali attraverso cui la tua volontà può contribuire pacificamente alla determinazione del processo decisionale sono “ostruiti”. Se, invece, qualcuno lo fa in un paese democratico, nel quale il cittadino ha degli strumenti per incidere sul processo decisionale pubblico ben inseriti in un sistema di checks and balances, è perché non vuole dare alla propria opinione lo stesso peso di quella di un qualunque altro cittadino, ma vuole usare la forza per contare di più.
E, purtroppo, ha ragione: la sua opinione peserà di più di quella del povero pensionato a cui è stata bruciata la macchina, peserà di più di quella del fruttarolo cui ha devastato il negozio. A te piace che sia la legge del più forte a determinare il tuo futuro?
Se sì, buon per te, ma ricordati che – prima o poi – uno più grosso e cattivo di te lo incontri sempre.
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Testa di cazzo che ti frapponi
lì davanti all’autoblindo
così che i tuoi compari possano
sfasciare la testa ai poliziotti,
quei poliziotti che io pago
perché siano diversi da te:
mi fai schifo
perché sei il mio parassita.
Testa di cazzo, tu ti frapponi
perché sai che lui non t’investirà.
E lo sai perché io m’incazzerei,
e tanti altri come me,
se lui ammazzasse
anche un testa di cazzo come te.
Hai bisogno di me
e perciò sei il mio parassita.
Testa di cazzo, ti frapponi
perché dici che sei in guerra,
ma se fossi in guerra
tu saresti già morto.
Disprezzi la democrazia
ma se non fosse per quella
tu saresti già morto
come le idee che hai in testa.
Testa di cazzo, ti frapponi.
E nel frapporti fai il verso,
tu che sei un vigliacco e un violento,
a quella foto coraggiosa e nonviolenta
che ha vergogna di te.
Hai perso:
continuerò a non volere teste sfasciate,
neanche quelle di cazzo come te.
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Ieri ero alla manifestazione. Complice il trovarmi a Roma e l’invito di un amico, ho deciso di andare a vedere – come si dice in questi casi – che aria tirasse. L’aria che tirava, come immaginerete, non era delle migliori. Principalmente era delusione, perché in tanti si rendevano conto che quella violenza avrebbe macchiato la continuazione della manifestazione. Perfino il TG1 ha detto che i violenti erano una netta minoranza.
Poi, certo, c’era chi declinava questo rifiuto della violenza con l’inevitabile stordimento paranoide: «sono gli infiltrati del governo che vogliono screditare la manifestazione». Senza rendersi conto che basterebbe vedere gli assalti ai poliziotti in Piazza San Giovanni per smentire la novella. Ma queste son persone per le quali Carlo Giuliani era un infiltrato, persone che non riescono a capire che la propensione alla violenza è fatta di cerchi concentrici: nel cerchio più esterno c’è la maggioranza di manifestanti più pacifici, un poco più all’interno ci sono quelli che fermerebbero – se potessero – il violento ma non lo consegnerebbero alla polizia, ancora più all’interno quelli che non lo fermerebbero perché simpatizzano, e via via fino ad arrivare nel cerchio più centrale dove ci sono questi qui.
E la chiave di questo equivoco è nel dogma della nonviolenza, su cui (e su molto altro) consiglio le magistrali riflessioni di Luigi Castaldi. L’idea è che “se fanno violenza non possono essere dei nostri, non possono avere i nostri stessi obiettivi”. Naturalmente non è vero. Ma il problema più grande sono proprio quegli obiettivi, o l’assenza di obiettivi a fronte di una “rabbia” diffusa. È una questione che a parer mio durerà nel tempo molto più delle cicatrici create dal casino – se non altro perché ne sono la causa –, non la violenza che ha divelto l’attenzione dai contenuti, ma l’inconsistenza di quei contenuti a confronto di una genericissima, ma fortissima, rabbia/insoddisfazione/siamo-stufi. Gli è quasi andata bene, a quei contenuti, del non avere attirato l’attenzione.
È possibile che questo fenomeno sia inevitabile in una manifestazione (ma allora perché farle?), ma le uniche due trame propositive con una qualche concretezza erano il socialismo reale (tanti, tantissimi comunisti, rifondazione comunista, alternativa comunista, partito comunista dei lavoratori: ma dove erano finiti?) e il primitivismo (“torniamo al baratto”, ma detto sul serio). Oltre a questo un’enorme quantità di gente con le idee molto poco chiare – a un certo punto si è messo a discutere con noi un signore che ha spiegato «io so’ anarchico, anarchico nel senso di boia-chi-molla-è-il-grido-di-battaglia», mostrando poi l’aquila romana tatuata sull’avambraccio. C’erano i notav e i no alla tessera del tifoso.
Tantissime persone, tantissimi cartelli che dichiaravano di essere stufi, di non farcela più. Di cosa non era comprensibile. Come risolvere queste fantomatiche cose ancora meno. Una gigantesca vacuità in cui l’unico bersaglio che s’intravvedeva era, forse, “la finanza”, accusata nella maniera più stupida e disinformata (io ho discusso per larga parte della manifestazione, con un ragazzo – certamente una brava persona – con scritto “odio il signoraggio” sulla fronte, che riceveva fotografie sorrisi e ammiccamenti).
Insomma, la mia impressione “a caldo” è che ci siano due brutte notizia. La prima è che, inevitabilmente, con questa stanchezza – con la generica indignazione – bisognerà necessariamente confrontarcisi, perché quelle persone sono una rilevante fetta della società. La seconda è che, purtroppo, quella stessa fetta di giovani non ha nessuna concretezza propositiva – non il welfare, non la meritocrazia, non la riforma dei privilegi generazionali – e non è perciò disposta (o in grado) di aiutare a risolvere i problemi che ingenerano quella rabbia. Siamo sempre lì, non c’è niente che vada oltre il proverbiale: “replace capitalism with something nicer”. D’altra parte, se non ci pensano loro, se non ci pensiamo noi giovani, non ho proprio idea di chi ci possa pensare, quantomeno in Italia.
2 su 5
A me di questa ennesima bega di Paese non importa nulla, ma proprio nulla. Però mi sembrate tutti ubriachi, sì dico a voi.
Non so se vi ricordate: il 12 e 13 giugno abbiamo votato quattro referendum. Moltissime persone – moltissimissime, quasi tutte – hanno spiegato con severità che far saltare il voto per il mancato raggiungimento del quorum è una cosa meschina, scorretta e da manigoldi. Anche se si considera importante la materia, e anche se si pensa che il voto sarà sfavorevole, bisogna rispettare le regole e partecipare alla votazione: è sbagliato sfruttare il raggiro della norma che richiede la presenza di un numero legale del 50% dei votanti perché la votazione sia valida.
Ieri, precisamente quattro mesi dopo:
– PD, UDC, IdV e FLI hanno deciso di utilizzare il raggiro di cui sopra, comportandosi in maniera meschina, scorretta e da manigoldi per far cadere il governo “creare imbarazzo” al governo.
– I radicali, invece, hanno deciso che “bisogna rispettare le regole e partecipare alla votazione: è sbagliato sfruttare il raggiro della norma che richiede la presenza di un numero legale del 50% dei votanti perché la votazione sia valida”.
Indovinate le moltissime – moltissimissime, quasi tutte – persone con chi se la sono presa: con PD, UDC, IdV e FLI? No, con i radicali.