Buoni e cattivi esistono, Kony o non Kony

3 su 5

per Il Post

Il fatto che un video che parla di una questione umanitaria, un video di 30 minuti (mezz’ora!) sia stato visto da cento milioni di persone non ha soltanto – come notato da molti – messo in dubbio i canoni di chi lavora nella comunicazione sui nuovi media («oltre i 120 secondi lo spettatore perde attenzione»), ma ha costituito una sorta di Undici Settembre anche per chi lavora nell’ambito della cooperazione: un evento con cui – per il bene o per il male – necessariamente confrontarsi.

Da questa settimana, ciascuna ONG dovrà affrontare Kony 2012 e prendere una posizione, specie rispetto a come esso ha sconquassato le prudenze, spesso motivate, di moltissime organizzazioni che lavorano nella cooperazione internazionale. Non sono ancora riuscito a farmi un’idea definitiva sulla faccenda, se non la considerazione banale che siano fenomenali (direbbero negli Stati Uniti, a Roma direbbero “paraculi”: avendo probabilmente ragione entrambi) nella comunicazione. Cos’è Kony 2012? Se lo si considera uno spot è eccezionale, se lo si considera un documentario è pessimo. Siccome non è nessuno dei due, ma qualcosa del tutto nuovo, bisognerà forse aspettare qualche tempo per vedere quanto beneficio e quanto detrimento questo qualcosa di nuovo porterà.

In molti hanno sollevato delle critiche ragionevoli, su cui non ho molto da dire, anche perché ne condivido buona parte. Altre sono state meno ragionevoli, ma comunque meno diffuse. C’è stata però una critica che ho letto quasi ovunque, la quale invece necessita di replica: non soltanto per la solennità convinta con cui viene spesso formulata – questo capita a tutti i luoghi comuni –, ma perché essa mette in dubbio il concetto stesso che fonda l’umanitarismo. Sto parlando di “non esistono buoni e cattivi”, una formulazione che schiaccia verso l’irrilevanza etica ogni comportamento, minando di fatto le ragioni di qualunque intervento umanitario.

In realtà, l’obiezione più immediata sarebbe: va bene, non esistono persone buone al 100% e persone cattive al 100% (opinione non troppo originale, avete mai sentito qualcuno dire il contrario?), ma ci sono persone più buone e persone più cattive, come manifestiamo ogni volta che critichiamo – o celebriamo – il comportamento di qualcuno. Di quelle ci occupiamo, tanto dovrebbe bastare. Ma c’è di più: in alcune occasioni – e spesso sono proprio le circostanze di cui si occupano le persone che lavorano per i diritti umani – la realtà è molto più vicina a una divisione, per quanto manichea, fra buoni e cattivi, che non all’inesauriente e indistinto “non esistono buoni e cattivi”.

È il caso di Joseph Kony – rapitore e sfruttatore di 66 mila bambini soldato, per citare uno dei dodici capi d’imputazione per crimini contro l’umanità con il quale è ricercato dalla Corte Penale Internazionale – che alla definizione di “cattivo” si avvicina tanto quanto fermare quegli stessi crimini si avvicina alla definizione di “buona causa”. C’era uno sketch di Benigni sull’impossibilità di definire negativamente chicchessia, neppure Mussolini: «Ma che deve fare uno perché se ne possa parlare male? Anche il Mostro di Firenze l’avrà detto “buongiorno” a qualcuno qualche volta».

Non c’è modo, e forse neanche ragione, di valutare la coscienza delle persone. Esse si valutano dalle azioni che compiono. L’insieme delle azioni che uno compie, assieme al contesto in cui sono maturate, sono ciò che determina se una persona è buona o cattiva (egoista/sociopatica).

E il Parlamento Europeo parla italiano (e senza Sara Tommasi)

2 su 5

Tutti abbiamo visto la magistrale – soprattutto nei modi e nei tempi – risposta che Monti ha dato, passando dall’italiano all’inglese, ai borbottii dell’UKIP al Parlamento Europeo. Ma non tutti hanno notato quello che è successo dopo: è intervenuto Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga e presidente dell’ALDE, e ha cominciato il proprio discorso d’elogio a Mario Monti… in italiano:

Finito l’intervento, come da prassi, ha ripreso la parola Martin Schulz (ricorderete), il presidente del Parlamento. E anche lui in italiano: «cratzie onorefole Verhofstadt».

Da notare la battuta che Verhofstadt aveva fatto appena prima, alla fine del proprio discorso: suggerisco Mario Monti per il ruolo di… (che avete capito?) primo ministro greco «potremmo mandarlo in Grecia, quando avrà finito il proprio lavoro con l’Italia» «potremmo spedire Monti in tutti i posti d’Europa dove ci sono difficoltà». Monti ne ha riso. Che bello poter ridere delle battute, eh?

p.s. Siccome in giro ci sono tanti smemorati, mi è venuta la curiosità di vedere cosa succedeva, soltanto un anno fa di questi tempi, fra l’Italia e il Parlamento Europeo. Così sono andato su Google News Italia. Ho limitato l’indagine al febbraio del 2011, e ho messo nel campo di ricerca le parole “Parlamento Europeo”, non avevo idea di cosa avrei trovato. Questo, giuro, è il primo risultato.

Gay, Washington e barboncini

3 su 5

Qualche ora fa il governatore dello Stato di Washington ha firmato la legge che permette anche agli omosessuali di sposarsi.

Tempo fa avevo ascoltato la storia di una coppia di omosessuali che vive proprio a Seattle, la principale città dello Stato di Washington. L’avevo tagliata da questa puntata per mandarla a un amico, ma – a questo punto – perché non metterla anche qui per festeggiare?

La storia, dura un quarto d’ora, è divertente e commovente e racconta le contraddizioni e le paure di una coppia di genitori omosessuali, il cui primo timore – nella crescita del proprio figlio – è il modo stereotipato in cui la televisione dipinge gli eterosessuali (avete capito bene!).

Dan Savage è il narratore e protagonista della storia. È un celebrato autore (qualcuno dei lettori di questo blog ricorderà quest’altra storia, altrettanto divertente e commovente – come solo le migliori storie sanno essere), oltre che un famoso attivista gay, e l’inventore della – bella, famosa e di successo – campagna “It Gets Better”.

Ascoltatela! (premendo play qui sotto, è in inglese)
Quello che ho imparato dalla TV, Dan Savage

P.s. ho invece visto lo spot Arcigay “Ti sposerò”: è bello e fatto bene; ma davvero siamo ancora al livello in cui una coppia gay frequenta solo coppie gay, come amici ha solo coppie gay, invita solo coppie gay, etc? Davvero non ci rendiamo conto che fare uno spot in cui l’unica coppia etero è quella che evita schifata due omosessuali contribuisce alla ghettizzazione e alla sindacalizzazione delle cause?

I cattivi

3 su 5

In questo post userò l’espressione “i cattivi”, userei anche “i buoni” se ne avessi bisogno. Sopravviverete, spero.

Ieri Lele Mora ha tentato il suicidio in carcere. Vista la dinamica, si è ipotizzato che si trattasse di un’azione dimostrativa, e che Mora non volesse davvero suicidarsi. È possibile che le cose stiano così, e mi interessa poco. Ciò che, invece, mi ha lasciato una bella amarezza di fine anno sono le ironie deridenti e un certo mellifluo distacco umano con cui ho visto commentare la faccenda da tantissimi. Erano commenti cattivi. Questo non è grave di per sé: capita di farsi prendere dalla foga, dall’insofferenza verso personaggi che malsopportiamo. Poi uno te lo fa notare, tu ci pensi su, e dici «sì, effettivamente ho esagerato». E infatti c’erano delle persone, poche a dire il vero, che con delicatezza cercavano di far presente l’esagerazione di quelle cattiverie. Però quegli altri, i cattivi, anziché riconoscere l’errore, rincaravano le proprie parole. E a ogni risposta dei primi arrivava una replica dei cattivi ancora più cattiva. Io non ho avuto coraggio di intervenire, perché sapevo che il sangue mi sarebbe diventato amaro. Poi però finisce che quelle discussioni ti rimangono in testa, così come il bisogno di sfogarti, e perciò eccomi qua a scrivere.

La cosa deprimente è che neanche quegli altri, quelli che rispondevano, erano proprio buoni perché – un po’ costretti dalla forma mentis dei cattivi – a ogni intervento sentivano il dovere di schiarirsi la gola specificando che Lele Mora non lo sopportavano proprio (e naturalmente, nessuno è immune, ci ho pensato anche io buttando giù questo post: lo scrivo o non lo scrivo?), come se questo avesse una qualche rilevanza. La mia replica spreferita era quella che, invariabilmente, tutti i cattivi davano quando avevano finito gli argomenti a propria difesa – non è che ne avessero molti –, ovvero: «eh, ma perché ti occupi di Mora e non dei poveracci che muoiono in carcere?». L’obiezione è del tutto illogica, ovviamente, un principio di umanità vale per Mora come per “i poveracci”. Ma il vero paradosso è che tanti di quelli a cui era indirizzata quella frase si occupavano eccome (anche) dei-poveracci-che-muoiono-in-carcere, facendolo quasi sempre nel silenzio completo di quegli stessi cattivi, che trovano certamente il tempo di commentare con spietatezza la notizia del – presunto – suicidio di un Lele Mora, e mai quello di scrivere una parola sul 65° (e più) – consumato – suicidio di un non-Lele-Mora nell’anno appena concluso.

 

Ipotizziamo il caso inverso

2 su 5

Gli zingari sono l’unica categoria di esseri umani per i quali sopravvive, nella coscienza di tutti, un gigantesco doppio standard, una disumanizzazione che non avviene per nessun’altra categoria d’individui senza che questa incontri una fortissima censura in società.

È successa la cosa peggiore che possa succedere in un Paese civile. Il linciaggio. Un campo rom dato alle fiamme. La vendetta collettiva e biologica – per nascita. I migliori di noi s’indignano, che altro si può fare? I peggiori, invece, pensano – quante volte l’ho sentito dire – che però anche loro delle volte se la cercano. Tutto lì. Ma ipotizziamo il caso inverso.

Ieri a Torino è successa un particolare fatto di cronaca: una ragazza sedicenne, rom, ha denunciato uno stupro da parte di due ragazzi torinesi. In realtà, si è scoperto, si era inventata tutto.  L’ha fatto per tutelare il proprio buon nome: in famiglia le venivano imposte le norme culturali più retrive, con l’ossessione per la verginità. La zingara, perciò, aveva deciso di accusare due poveri ragazzi torinesi che non avevano fatto nulla di male.

Purtroppo, però, con la confessione non c’era stato il lieto fine. Nel frattempo venuti a conoscenza della notizia prima della smentita, un gruppo di zingari aveva organizzato una manifestazione, presto tramutatasi in una spedizione punitiva per andare a dare una lezione a questi torinesi. Questo gruppo di zingari aveva preso spranghe, bastoni e bombe carta e s’era diretta verso la zona residenziale del quartiere Vallette, dove abitavano i due. Prima che arrivasse la polizia avevano distrutto tutto, case e automobili di persone che non c’entravano nulla, e come degna conclusione del raid, avevano appiccato il fuoco a diverse abitazioni nella speranza di fare una strage.

Fosse successa una cosa simile, ipotizziamo, quali sarebbero state le reazioni? Si parlerebbe giorno e notte del pericolo che gli zingari pongono alle famiglie italiane; ci sarebbero rivendicazioni – da parte di tutti i partiti – della tolleranza zero e del pugno di ferro; i sondaggi di Italia 1 reciterebbero cose come “pensi che i rom siano geneticamente portati alla menzogna e alla violenza? sì 99% no 1%”; forse staremmo già discutendo dell’approvazione di leggi speciali per deportare tutti gli zingari che vivono in Italia da qualche parte nel globo.

Invece è successo all’opposto, e domani già non se ne parlerà più. Forse è il caso di pensarci, la prossima volta che succede un decimo di una cosa simile, ma a parti invertite.

Per insegnarti e per impararti

2 su 5

Si parla tanto di “cambiamento culturale” per questo governo, in confronto a quello passato. L’ho notato anche io: certo, la sobrietà, ma quello sta diventando un cliché che si autoconferma (Obama non è sobrio, è semmai autorevole); la cosa secondo me più significativa è un’altra, ed è ben esemplificata da ciò che ha fatto Giarda nella conferenza stampa che annunciava la manovra. Parlo ovviamente del suo fact-checking, in cui il Ministro si è preso l’incarico di correggere gli errori o le incompletezze dei suoi colleghi. Mi è piaciuta anche la reazione di Monti («mi raccomando, correggi anche me»), mentre mi è piaciuta meno – dello stesso Monti – la reazione alla commozione di Fornero («commuoviti pure, ma correggimi»), pur appunto sottolineando anche qui il valore dell’essere corretti.

Questa cosa dell’accettare, e anzi incoraggiare, le correzioni degli altri – come un favore che questi ci fanno, e non come una cosa di cui offendersi – è il miglior stravolgimento “culturale” che ha portato questo governo, e penso che abbia molto a che vedere con l’estrazione accademica di molti di questi ministri: certo, anche nell’università ci sono gelosie e personalismi, ma non troverete nessun altro posto dove – durante una qualunque conferenza – tante persone facciano professioni d’ignoranza, o di consapevolezza d’ignoranza, come «sicuramente in questa stanza c’è qualcuno che ne sa più di me», «Mark Smith, correggimi pure, ché sei tu l’esperto nel campo», o understatement simili.

Che, come tutti sappiamo, non sono veri understatement, sono il riconoscimento – dicevamo – che insegnarsi le cose gli uni con gli altri, e quindi migliorarsi a vicenda, è una cosa non solo benvenuta, ma necessaria. Non ce lo vedo proprio Monti, o altri di questo collegio dei ministri, a usare espressioni stupide come “maestrini” o “non accetto lezioni“, per screditare chi non è d’accordo: chi meglio di loro sa che i maestri sono una cosa importante e bella, e che una lezione è il miglior regalo che qualcuno ci possa fare?

E invece ve lo immaginate cosa sarebbe successo – ma non sarebbe mai potuto succedere – se durante una conferenza stampa qualcuno si fosse azzardato a prendersi l’impegno di correggere Gasparri o Gelmini? O perfino Berlusconi, immaginate la faccia sconvolta dei varî yes-man che aveva intorno. Sarebbe andata a finire con una serie infinita di repliche piccate (“io non ho sbagliato!”), e poi imbarazzate (“non intendevo dire che sbagli…”), da persone convinte che l’importante sia l’aver avuto ragione e non l’averla ora.

Fornero

1 su 5

Se avesse riso come per il terremoto all’Aquila, beh guarda che farabutta.
Se avesse fatto una faccia serena, beh guarda come non gliene frega niente.
Se avesse fatto una faccia imperturbabile, beh guarda che insensibile.
Se avesse fatto finta di niente, beh guarda come occulta la verità.
Se si è commossa, beh guarda che donnetta instabile che non può fare il ministro (e, giusto per contraddirci nello spazio di cinque minuti, comunque sono lacrime di coccodrillo!).

Prigionieri del loro stesso fascismo

3 su 5

Fascismo è una delle pochissime parole italiane che siamo riusciti a esportare in tutto il mondo nell’ultimo secolo, anzi è l’unica che mi venga in mente: che orgoglio, eh? Qui in Italia, luogo d’origine, si è molto più precisi, e perciò un fascista è quello col libro e il moschetto, viva il Duce e camicia nera. E ha certamente senso che sia così. Però, nel mondo, quella parola vuol dire un’altra cosa. E vuol dire esattamente questa cosa qui, quella che è successa al signore qui accanto. Chiedete a qualunque anglofono (ma anche francofono, immagino) qual è il significato di “Fascist behaviour”: vi descriverà proprio il trattamento che questi cavernicoli hanno riservato a Oscar Giannino.

Giannino – un liberale ottocentesco fino alle scarpe, e che per questo delle volte dice cose sbagliate – dovrebbe fare un nuovo incontro alla Statale di Milano, ma farlo un po’ diverso. Questa volta dovrebbe andare lì non a parlare di economia, ma a fare una bella lezione sulla filosofia dei pensatori cardinali del liberalismo sei-sette-ottocentesco, su cosa voglia dire per loro la libertà.

Christopher Hitchens, che è il più bravo di tutti, è riuscito trovare la frase che meglio potesse riassumere il significato di tre secoli di liberalismo, nell’Areopagitica di John Milton, in The Age of Reason di Thomas Paine, in On Liberty di John Stuart Mill. Hitchens dice che il senso profondo di questi tre libri è racchiuso in un concetto, che lui esprime così:

Non si tratta soltanto del diritto della persona che parla a essere ascoltato, è il diritto di tutti coloro che sono nel pubblico a poter sentire e ascoltare. Ogni volta che zittisci qualcuno ti rendi un prigioniero della tua stessa azione, perché ti neghi il diritto di ascoltare un’altra opinione.

Il commento del mese

1 su 5

Tiro fuori il blog dalla perdurante abulia per menzionare il commento del mese, scritto da uqbal sul blog di Francesco, in risposta a chi – non è importante il contesto –, alla fine di un ragionamento sull’esclusione di alcuni temi dal dibattito, gli contestava che fosse “Tutto legittimo per carità, ma vediamo di non essere ingenui”:

e invece vediamo proprio di essere un po’ più ingenui, perché non se ne può più delle continue analisi dietrologiche che spesso fanno somigliare la sinistra ad una Lega capace di usare i congiuntivi.