Meno male che Silvio c’è

Leonardo – come sempre – ci fa rendere conto in maniera esemplare che una volta toccato il fondo si può sempre cominciare a scavare:

Che poi anche tutte queste storie sul presidente puttaniere, sì, sì, sapete che vi dico? Fatelo, fatelo un bel governo Fini-Casini-Rutelli, coi teodem e i teocon, i teodiqua e i teodilà, fatelo. Coi cardinali ministri, perché no, come in Iran. Fatevi stracciare la legge sull’aborto. Fatevi mettere i sondini su per il naso. Vedrete che poi lo rimpiangerete, il presidente puttaniere.

Profonde considerazioni sull’Italia

Lo stato dello Stato (italiano) è dimostrato dall’anestetizzazione della parola “regime”, da come nessuno si sia aspettato questa reazione:
Consulta: Lodo Alfano bocciato.
Berlusconi: «allora vedete che non c’è nessun regime?»

ma è andata da sé questa:
Consulta: Lodo Alfano bocciato.
Berlusconi: «è un regime!»

La versione di Friedman

Una volta – soprassedendo su Pinochet, sui Colonnelli, sulla Cambogia, etc – Michael Leeden disse che il più grande dispotivivo di pace e libertà della storia del Novecento era stato l’esercito americano.

Oggi Friedman scrive un editoriale, che riecheggia quel concetto, in cui mette in bocca a Obama le parole che  questi dovrebbe dire alla consegna del premio a Stoccolma.

Comunque, esercito americano o no, se – in quella sede – Obama dirà davvero una cosa come questa

Membri del comitato del Nobel, io accetto questo premio a nome di tutti questi uomini e donne, passati e presenti, perché so – e voglio che voi sappiate che non ci può essere peace senza peacekeepers

noi, qui, si festeggerà anche questo premio.

Vabbè che peggio di Arafat non si poteva fare…

Ma ora, a parte la baldoria e gli spernacchiamenti a quelli che l’America è sempre la stessa, ce lo possiamo dire?

Dài, insomma, siamo tutti contenti, ma il Nobel per la pace a Obama è come dare il Nobel per la letteratura al “prossimo romanzo di Chuck Palahniuk”. E se poi lo leggi e fa schifo?

Vabbè, non si può fare, ma secondo me sarebbe un gran figo se lo rifiutasse dicendo: «ripasso di qui fra un paio d’anni, state tranquilli». Eh, lo so, sarebbe troppo presuntuoso. Com’era che fece Quasimodo al Nobel del ’59? «È stupito di aver ricevuto questo premio?» «No.»

«Rosy Bindi è sempre più bella che intelligente»

In un qualsiasi paese civile, un testa di cazzo – perché uno che dice una cosa del genere, davanti a tutti, non è solo un disgustoso omino bieco senza stile, ma è proprio una testa di cazzo – che dice una simile spropositata marchianeria ha finito immediatamente, ma in quel-preciso-istante, la sua carriera politica.

Se c’è una cosa per cui l’Italia è un paese misero bifolco e provinciale, è questa.

Scoprire il Burqa: egoisti, menefreghisti e gli altri

Secondo me questo sondaggio di Repubblica sulla proposta leghista di condannare al carcere chi indossi il Burqa traduce nella pratica ne varie posizioni, schierandole. Disinnesca e – mi sembra – smascheri ogni pretesto ammantato d’interesse, con una semplice divisione in tre – anzi in quattro.

Detto che quello dell’ordine pubblico è – davvero, ammettiamolo – un pretesto. Certo, ci sono molte più complessità di una realtà a quattro (o tre) fattispecie, ma credo che alcune generalizzazioni siano utili quando si discute, e questa sia una di quelle che limita al minimo questi equivoci – ecco quelle che sono le posizioni:

La Lega presenta una proposta di legge che prevede pene fino a due anni per chi indossa il burqa. Siete d’accordo?

Inizio dal non so, che sembrerebbe la più vigliacca, ma non lo è. Quante volte capiterà di non sapere quale sia il mezzo migliore per affrontare i problemi e arrivare a quello che – indubbiamente – è meglio. D’altra parte, se “non sai” perché clicchi sulla pagina del sondaggio per votare?

Poi il. Questa è la posizione sporca di una certa destra virante all’identitarismo (Lega, molti del PDL, i fascisti), ma non mi stupirei che accogliesse anche molti di coloro che son dentro a questa nuova e inedita avventura della sinistra legalitaria (Di Pietro, ma anche alcune frange del PD). shhIl concetto è: siamo meglio noi (che poi dovremmo parlare di chi è questo “noi”) quindi combattiamo loro. L’intento di chi risponda sì a questa domanda è quello di tutelarsi, che sia per ‘sta storia che una sotto al burqa possa portare una bomba (aboliamo i giacconi!) o per tutelare sé tutelando la propria società: insomma chi vota “sì” non è contrario al Burqa perché è un sopruso per quella donna, non pensa di essere contro al Burqa per stare dalla parte di quella donna. E difatti la vuole sbattere il carcere. Insomma, non ce l’ha con la pratica – scandalosa, vergognosa – ma con la persona che la vive. È anche un’ulteriore estensione di quel concetto doppiamente disgustoso per cui «a casa tua fai quello che ti pare, ma a casa nostra comandiamo noi».
Mi domando se costoro non vorrebbero sbattere in carcere anche le donne che hanno subito, consenzienti, l’infibulazione.

freedom for grantedCi sono tanti motivi per rispondere no a questo quesito, la più nobile delle quali è quella che in uno Stato libero ognuno di noi deve poter fare ciò che vuole. Ma, in questo contesto, un “no” di questo tipo fa passare un solo messaggio: «chi se ne strafrega». È questa la vera risposta vigliacca, i problemi degli altri non sono nostri problemi – e in ciò si avvicina pericolosamente al concetto sotteso a chi vota “sì” – o peggio, il burqa non è un problema. Molte di queste persone, se vedessero una scena simile per strada, dovrebbero – cioè non dovrebbero assolutamente, ma questa è la prosecuzione logica del loro sragionamento – ignorare la violenza di un marito che picchia una moglie del sud che se l’è sposato. In fondo quella, di picchiare la moglie, è una loro tradizione.
Sapete che c’è? La mia tradizione, la mia cultura, è quella che mi spinge a provare a impegnarmi per donne e omosessuali – e ogni discriminato – in tutto il mondo. Ora che avete da dire?

C’è poi il sono d’accordo sul divieto ma non sul carcere che è la posizione più facile da prendere. Ma mica che le posizioni più facili siano sempre sbagliate. È la più facile perché, effettivamente, non specifica un’alternativa al carcere: ma di cose formalmente “vietate” in cui non ci si accanisce su chi ne è primo attore e vittima ce ne sono: burkal’aborto, la prostituzione (poi non è detto che in questi altri casi io sia d’accordo con il divieto, ma è un altro post e un’altra storia). A che serve? Probabilmente a poco, ma poco è sempre meglio di niente. “Poco” è mandare un messaggio, per quanto flebile – ma non sottovalutiamo mai, e ascoltate questo mai con tutta la intensità, i messaggi. È un voler dire, che qui, in questo Paese e in questo momento storico, tante persone si sono riunite e hanno deciso che sì, la donna e l’uomo devono avere gli stessi diritti. Che sì, la sede dell’autocontrollo sessuale maschile è nel fottuto corpo dell’uomo e non in quello della donna che non deve “provocare”.
È dire, in una parola: «questa è la cosa giusta, venite con noi».

Mi ha stupito – almeno per ora, con il 39%, vincono i buoni:

Si (158 voti) 32%

(158 voti) - 32%
No (140 voti) 29%

(140 voti) - 29%
Sono d’accordo sul divieto ma non sul carcere (189 voti) 39%

(189 voti) - 39%
Non so (2 voti) 0%

(2 voti) - 0%

Fare la cosa giusta o quella che (forse) funziona?

Secondo me la politica sta tutta qui:

Siamo tutti dispiaciuti per il fatto che Obama abbia rinviato a dicembre la photo-op col Dalai Lama, ma il motivo non è un generico “gli affari” o “i soldi”.  Obama andrà in Cina tra breve per cercare di convincere Hu Jintao a fare delle cose piuttosto importanti che hanno a che fare molto più coi diritti umani he con “gli affari”: il via libera alle sanzioni sull’Iran, le pressioni sulla Corea del Nord e addirittura – ma è solo una voce, per ora – l’invio di un contingente cinese in Afghanistan. Tutte e tre le cose sono molto importanti e rischiano di saltare, con tutte le conseguenze del caso, davanti a un gesto che avrebbe come unica conseguenza rilevante quella di far innervosire la Cina. Mi rendo conto che gli oppressi ne sarebbero confortati, qualora avessero notizia dell’incontro: mi rendo conto anche che non è poco, ma penso sia giusto ricordarsi che non è sufficiente. Poi uno decide cosa gli interessa di più ed è legittimo pensare che sia più giusto o funzioni meglio un’altra strategia. Io non lo so.

Neanche io.

La storia è degli sconfitti?

Qualche anno fa mio nonno venne da me, in televisione andava un film sui cow-boy, a dirmi – con il tono di chi dice una verità al tempo stesso occultata e tanto vera – che «gli indiani non erano i cattivi».
«Sì, vero», risposi.
«No, ma non hai capito, sono gli americani che hanno fatto un bel massacro».
«Eh, certo», ancora io.
E lui: «ma come, lo sapevi?».
Ne parlammo un po’ e ci rendemmo conto che quella per lui – cresciuto con i film di James Dean – era una tesi ardita e quasi revisionista, per me – per un misto di non so che: canzoni di De André, telefilm, cose lette sui giornali – era una tesi praticamente assodata: anzi, era l’unica tesi in campo. Perché – mi sono trovato a domandarmi – qualcuno aveva mai sostenuto che gli americani avessero fatto qualcosa di apprezzabile nello sterminare la quasi totalità della popolazione di nativi americani?
E, effettivamente, la risposta è sì: un tempo quella storia l’avevano scritta i vincitori. Gli indiani erano quelli cattivi che volevano ammazzare i cow-boy, e i cow-boy erano quelli buoni che difendevano la brava gente.
Una tesi che, oggi, non credo sostenga nessun bambino delle elementari.

La macchinaOgni tanto ragiono su come cambi la coscienza collettiva: mi sembra, quasi, che ultimamente – in Occidente – sia diffuso un ipercorrettismo logico che scaturisce da quel luogo comune – che la storia la fanno i vincitori. Mi sembra che, oggi più di sempre, sia tanto diffuso quello che in inglese si chiama “white guilt”, e che in italiano non ha una traduzione perfetta: ovvero un senso di colpa collettivo, che definirei paternalista.

Intendiamoci, non è che non pensi che l’Occidente abbia fatto cose terribili – in tutti i campi, nel passato, e anche nel presente – ma mi sembra che un po’ distorciamo la nostra autovalutazione, quasi a sentirci così più buoni – aperti e autocritici: le donne sono sottomesse nei paesi islamici per le occupazioni e le operazioni militari dell’Occidente, l’Africa langue per lo sfruttamento da parte dell’occidente nel passato, Saddam Hussein ha gassato i curdi perché armato dagli americani.
E però in Arabia Saudita non ha mai messo piede un soldato occidentale, la maggior parte degli stati africani era più ricca della Cina trent’anni fa, e nei 35 anni di dittatura baathista dell’Iraq gli americani hanno fornito l’1% (uno percento) delle armi al regime.
È come se uno stronzo non potesse essere africano, asiatico, o con la pelle più scura di un viso pallido.

Non che l’Occidente abbia fatto solo cose buone, ma anzi, la gran parte delle colpe, e sono responsabilità gravissime – il Ruanda più recentemente il Darfùr, ma anche lo stesso Iraq -, vanno ascritte all’Occidente sotto al titolo che ora sembra essere la magica ricetta per risolverli: «facciamoci i fatti nostri».

Tutto questo mi è ritornato in mente perché ho letto un articolo in cui si dice che  – tutto sommato – Montezuma era come Saddam Hussein, e insomma, lo sterminio spagnolo non ha fatto tanto peggio, anzi: e il primo pensiero è stato “Sì, vabbè, che cretinata”. Ma il secondo è stato “Ma…”.