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per Studio
Leggere o assistere ai resoconti dei fatti di cronaca nera dà l’impressione che i media cerchino di includerci nella famiglia delle vittime. Siamo continuamente accostati a chi ha subito un crimine – attraverso le lacrime delle madri, i racconti d’infanzia e di vita quotidiana della vittima, la connessa stereotipizzazione positiva – tanto da sentirci, in prima persona, parte offesa. Questo meccanismo avviene per ragioni di mercato: la vicinanza ci rende appassionati e quindi potenziali lettori o spettatori.
Siamo perciò abituati a togliere e aggiungere informazioni quando leggiamo la cronaca nera. Aggiungiamo informazioni perché il resoconto sembra sempre diretto a una cerchia ristretta di familiari che conoscono i personaggi, le potenziali accuse e i capitoli precedenti. Un nuovo lettore arrivato deve fare un’opera di ricostruzione per capire chi è la ragazza di cui si accenna solo il nome, oppure il soprannome. «Mary, il cugino confessa» è un titolo inventato ma del tutto verosimile.
Ma sappiamo anche di dover togliere informazioni, perché l’obiettivo del filtro mediatico scandalistico (che, in Italia, non è limitato alle fonti scandalistiche), non è l’informazione ma la creazione del caso, la formazione di lettori che si nutrano delle puntate successive. È il gesto di “sollevare il lenzuolo bianco” che copre i morti in pubblico: il racconto di particolari scabrosi o perversi che sono informativamente irrilevanti. Spesso questi dettagli alludono morbosamente a una pista d’indagine o un sospetto del tutto fasullo o archiviato e l’operazione supera l’oziosità per sconfinare nella menzogna.
Naturalmente il (((presunto))) colpevole è invece completamente privato della proiezione empatica garantita ai familiari delle vittime, cioè tutti noi. Prima di tutto nella negazione dell’immedesimazione più spontanea: quella della persona ingiustamente accusata («domani potrebbe capitare a voi», ripeté diverse volte Enzo Tortora); ma anche nel venir meno del diritto alla privacy attraverso la pubblicazione di fatti personali non pertinenti alle indagini che in pochi vorrebbero resi pubblici per sé.
Siamo così tutti dei Gambirasio, Kercher, Poggi, Onofri, Scazzi, e perciò in diritto di essere indignati. L’inclusione nella grande famiglia delle vittime ha anche l’effetto di legittimare nel pubblico quei pensieri istintivi, vendicativi e barbarici che siamo abituati a concedere soltanto a una persona in preda al dolore («sta soffrendo, non è in grado di ragionare»). Tuttavia, se i media hanno la colpa di non educarci, noi abbiamo la colpa di non essere educati, ed è difficile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto: la condanna dei media non può assolvere l’opinione pubblica. Come spesso accade, la migliore formulazione del concetto è di Winston Churchill: «l’umore e l’atteggiamento del pubblico su come trattare il crimine e i criminali è uno dei più infallibili test della civiltà di un Paese».
mi esce la schiuma marrone dalla vagina
Dici che è grave se tutto ‘sto coinvolgimento faccio fatica anche a capirlo? Non riesco ad essere empatico con estranei che s’indignano per conto di qualcun altro.