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Galileo costruì il suo primo telescopio nel 1609, e cominciò a guardare lassù. Nel frattempo aveva uno scambio epistolare, da Venezia Padova e Firenze a Praga, con un altro grande astronomo del tempo, Keplero. Galileo fece una scoperta importante, e decise di comunicarla alla comunità scientifica del tempo, fra cui Keplero. Con un anagramma. Un giocherellone? Anche, però non solo: Leonardo metteva degli errori nei suoi progetti – il copyright non esisteva – così da non farsi rubare l’idea, allo stesso modo l’anagramma era uno stratagemma per non rivelare nulla, ma poter dire successivamente: «visto? l’avevo scoperto prima io»; del resto quante frasi latine di senso compiuto e astronomico possono prodursi con la stessa successione di lettere? Galileo scrisse:
smaismrmilmepoetaleumibunenugttauiras
Keplero cercò di convincere Galileo a farsi rivelare la soluzione, ma senza esito. Così decise di scervellarsi per risolvere l’anagramma, e venne fuori con questa soluzione:
Salve umbistineum geminatum Martia proles
Soluzione in un latino un po’ barbaro, come Keplero stesso ammise, e che mancava di una lettera dell’anagramma galileiano, ma che aveva un preciso senso descrittivo: benvenuti, pugnaci gemelli, figli di Marte. Keplero, convintosi in precedenza che Marte avesse due lune, pensò: le ha trovate! Marte ha due lune, come pensavo, e lui le ha osservate. Naturalmente la soluzione dell’anagramma di Galileo era tutt’altra:
Altissimum planetam tergeminum observavi
Ho osservato il pianeta più alto triforme. Al tempo, l’ultimo pianeta conosciuto (l’altissimum) era Saturno, e Galileo aveva visto attraverso il proprio telescopio – che nel frattempo aveva perfezionato – i famosi (ora) anelli di Saturno. Le tre forme a cui si riferiva Galileo erano un’approssimativa descrizione degli anelli, che in prospettiva gli erano sembrati altri due corpi orbitanti attorno a Saturno (“ho osservato essere non una stella sola, ma tre insieme”). Fu solo nel 1877, più di duecento anni dopo, che si scoprì che anche Keplero aveva ragione (sbagliando): Marte ha due lune.
Poco tempo dopo, Galileo fece un’altra scoperta e – indovinate un po’ – inviò un altro anagramma che Keplero lesse:
Haec immatura a me iam frustra leguntur oy
Questa volta, a parte il sofferente “oy” finale, la frase aveva un senso compiuto, più o meno: ho raccolto queste cose invano e prematuramente. La frase nascosta dietro a questo lamento era:
Cynthiae figuras aemulatur mater amorum
La madre dell’Amore emula le figure di Cinzia. Cinzia è la Luna, e Galileo aveva scoperto che la madre dell’amore – Venere – ne emulava i movimenti, e cioè che anche Venere ha delle fasi, come quelle lunari: intera, a metà, un quarto, etc. Il che suggeriva che Venere girasse intorno al Sole, con le enormi conseguenze in direzione dell’eliocentrismo che questa conclusione implicava.
Solamente che, anche questa volta, Keplero si era cimentato nella decodifica dell’anagramma prima che fosse resa pubblica la vera soluzione. Ed era riuscito a tirare fuori, fra le altre, una frase di senso compiuto:
Macula rufa in Iove est gyratur mathem ecc.
Giove ha una macchia rossa che rotea seguendo principî matematici. Ora, indovinare per caso – o per successione matematica – che Marte ha due lune è una coincidenza, ma non così gigantesca. Quante lune può avere Marte? Zero, una, due, cinque, dieci. Dice due, e ti va bene.
Perché sì, Giove ha una macchia rossa, e sì, essa non sarebbe stata individuata con precisione fino a duecento anni più tardi. Che dire? Una frusta dà, di uva, aceto.
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