Not in His name

La storia è questa: una ragazza, poco dopo la nascita, perde la vista. Vive una vita molto ritirata, quasi dimessa: esce poco se non accompagnata dai genitori. I suoi genitori non vogliono avere un cane in casa, quindi lei non può avere un cane-guida. In queste condizioni è praticamente privata della possibilità di muoversi. Arrivata a ventotto anni riesce a trovare un escamotage: un cavallo! Inspiegabilmente, questa volta, i genitori accettano.

Se ascoltaste questa storia fin qui cosa pensereste? Che quei genitori sono dei mascalzoni. Che mettono davanti al bene della figlia la loro repulsione per i cani. Chissà quanti di noi non amerebbero avere un cane in casa, però in confronto alla felicità della figlia chi potrebbe sentirsi di fare questioni? Invece questi genitori egoisti e capricciosi non si curano del bene della figlia, ma delle loro fisime.
Sbaglio, o è quello che tutti noi penseremmo?

Mona

Ora, si dà il caso che questa ragazza sia mussulmana, e che per molti mussulmani i cani siano animali turpi: vedete come tutta la storia assume un significato, come quei genitori iniziano ad avere delle potenti attenuanti? La foto con il cavallo ci fa quasi simpatia, alla fine è stata una buona idea. E quanto ai genitori, beh, in fondo è la loro fede. È quello che “sentono”, come tanti altri “sentono” un altro Dio. Che ci possono fare?
Ed è esattamente questo il problema dell’atteggiamento che abbiamo con la religione – ogni religione: ma soprattutto ogni religione che imponga divieti infondati sulla felicità delle persone – e cioè che diamo dei bonus di responsabilità, un assegno in bianco per la cattiveria, a chi motivi i proprî atteggiamenti lunatici e prepotenti sotto l’egida di un culto.

«Fa’ quello che vuoi, amico mio, per carità, ma non sono disposto a scontarti nessuna delle responsabilità di ciò che fai in nome delle cose in cui credi»
Dare a ciascuno le proprie responsabilità, che è anche la cosa più altruista che c’è.

Stivali e sTuvalu

Un ottimo modo per capire la situazione politica in un paese è sempre stato il report annuale di Freedom House, che valuta con un punteggio da 1 (il massimo) a 7 il grado di libertà in ciascun paese, secondo due indicatori: i diritti politici, e le libertà civili. Ci sono altri progetti, a latere, sui diritti delle donne e sulla libertà di stampa.
È sempre stato anche un ottimo strumento di confronto: dire che in Italia c’è una dittatura è vergognoso, specie in spregio di chi sotto le dittature ci vive veramente. E il fatto che  l’Italia avesse la valutazione massima in entrambi i campi era un argomento molto potente a confronto con quelle che sono davvero le dittature: la Russia, per dirne una, che ha 6 e 5. Come si può immaginare, all’Italia non andava così bene in quanto a libertà di stampa.

È uscito il report del 2009, e per la prima volta dopo sette anni Freedom House declassa, a due, il livello delle libertà civili in Italia. Questo è l’elenco degli stati che hanno un grado di libertà civili migliore del nostro:

Andorra
Australia
Austria
Bahamas
Barbados
Belgium
Canada
Cape Verde
Chile
Costa Rica
Cyprus
Czech Republic
Denmark
Dominica
Estonia
Finland
France
Germany
Hungary
Iceland
Ireland
Kiribati
Latvia
Liechtenstein
Lithuania
Luxembourg
Malta
Marshall Islands
Micronesia
Monaco
Nauru
Netherlands
New Zealand
Norway
Palau
Poland
Portugal
Saint Kitts and Nevis
Saint Lucia
San Marino
Slovakia
Slovenia
Spain
Sweden
Switzerland
Taiwan
Tuvalu
United Kingdom
United States
Uruguay

La pace putativa

Ho letto una citazione bellissima a proposito della “guerra silenziosa”, di tutti quei posti del mondo dove non ci sono libertà, dove le persone vengono ammazzate quanto e più che nelle guerre rumorose, dove i diritti di donne e omosessuali sono umiliati, quella stabilità che qualcuno si ostina a chiamare “pace”:

Il problema è che una volta che l’hai vista, non puoi cancellarlo. E una volta che l’hai vista, stare zitto, non dire nulla, diventa un atto politico come prendere una posizione. Non c’è innocenza. In entrambi i casi sei responsabile. (A. Roy)

Una costola della Lega

Il cerchio si chiude. Ora che anche il ministro più truculento della storia della Repubblica ha reiterato il concetto più bieco che abbia mai allignato fra le file della sinistra, l’indegno ragionamento sotteso a quel concetto è restituito al suo tenutario naturale.

Calderoli ha detto che “la democrazia non si può espostare”, perché “non tutti sono pronti per la democrazia”: argomenti tanto razzisti, quanto in voga ai tempi della guerra in Iraq.
Ci sono due equivoci qui: il primo è che ci sia qualcuno che, appunto, sia meno pronto di altri per la democrazia. Come se, davvero, in qualche parte del mondo fosse meglio vivere senza le libertà; come se noi – in qualità di Occidente – fossimo i possessori di quei valori, che sono invece universali.
Il secondo equivoco è che la democrazia si può esportare eccome, in tutte le parti del mondo si è stata esportata: in Italia, in Giappone. Le buone idee sono contagiose: una donna vede un’altra donna che può votare e si domanda «perché io no?».
Ciò che non si può fare è imporre la democrazia, ma questo non si può fare per definizione, perché la democrazia è un metodo, non un fine. Ed è libertà di scelta. Sarebbe come dire che «prendi la pizza che preferisci» è una frase che ti impone un tipo di pizza.

È un caso che tali parole vengano dal partito più incivile dell’intero emiciclo? Da quello che – in maniera molto poco latente – odia gli immigrati? Non lo è per nulla, è la naturale prosecuzione di quell’idea.
Forse dovrebbe essere chi, a sinistra, ha sostenuto per tanto tempo che ci siano degli individui che, endemicamente, non sono in grado di governarsi da soli e hanno bisogno del dittatore di turno, a scartare di lato è togliersi da quella cattiva compagnia.

Lunedì degli aneddoti – II – GRA

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

GRA

Perché l’anello che circonda Roma si chiama Grande Raccordo Anulare? Raccordo Anulare, tornerebbe anche, ma grande? Il motivo è particolare, e la sigla – un acrostico – anticipa addirittura il nome: il Direttore Generale dell’Associazione Nazionale AutoStrade, e grande ideatore del progetto, si chiamava Eugenio Gra. Gra sostenne l’idea di un’autostrada che circondasse Roma così ferventemente che tutti, durante la fase costruzione, si riferivano al progetto come “il progetto di Gra” o, più brevemente, come “il Gra”. A costruzione ultimata quel nome fu mantenuto, associando a ogni lettera una parola: Grande Raccordo Anulare, appunto.

[Qui il primo: Brutti e liberi]

Giallo

Oggi Parigi accoglie due persone importanti, mia sorella, e questo signore qua:

Tour