Prodi e D’Alema dissero che la missione Unifil, in Libano, era molto diversa dall’invasione alleata dell’Iraq: che quella era una missione di pace, e che i soldati non avrebbero dovuto sparare. La verità è che una missione ONU era lì dall’83 e non era riuscita ad assicurare la sicurezza né ai libanesi né a Israele. Più d’uno arguì che anche l’Unifil avrebbe fatto la stessa fine, e che la sperimentata prudenza europea si sarebbe trasformata in vigliaccheria: ora il Libano è così.
Votammo
Qui c’è un’analisi incredibilmente accurata del voto di quasi un mese fa.
L’ha detto il telegiornale
Si tratta di Ariel Maximiliano Richeze, velocista 25enne, iscritto nelle fila del team Csf Group – Navigare.
Oggi Repubblica fa il solito errore.
Insoddisfazione
Contro Giovanni, ma con pietà
Ok, va bene. Me l’ha detto persino mia sorella (diciottenne in pieno target-Moccia) che ho fatto un post stupido. Pietà.
Tre metri accanto a Zoro
Oggi sono stato a contatto con una celebrità, uno che ha ospitato Mentana in televisione. Uno di quelli che quando lo incontri te lo ricordi. E te lo ricordi perché sai che lo potrai raccontare ai nipoti. Incidentalmente sul palco c’era Al Gore in versione Beppe Grillo (insiemeabbatteremoilsistema), e proprio davanti a me sedeva il numero due del PD, Franceschini. Ma la vera star era lui, così umile da sedersi in mezzo a noi; accanto a sé aveva due bravi d’eccezione, lui e lui: come se le guardie del corpo di Batistuta fossero Toni e Vieri (quello di un tempo, non questo). Ma ovviamente a stagliarsi in mezzo alla folla, a sbrilluccicare di luce propria era lui: Zoro.
Tutti si fermavano a salutarlo, inchinandosi, qualcuno ostentava familiarità («ehi Diego»), qualcun altro mostrava deferenza, altri sembravano Saccà con Berlusconi. Al di là dei due della security, c’era solo un numero imprecisato di donne che evidentemente bramavano una sua parola, una sua attenzione.
La dea bendata mi fece regalo di un posto così prossimo a lui da aver potuto apprezzare tutte le sue risate (e quando rideva lui, tutti lo seguivano), i suoi applausi (e quando applaudiva lui, applaudivano tutti). Franceschini ha cercato in tutti i modi di di rubargli la scena, di attirare le attenzioni su sé stesso, alzandosi in piedi, arrivando in ritardo, fingendo di telefonare, agitando la mano per salutare qualcuno (che inevitabilmente non gli ha risposto): ovviamente il risultato è stato senza esito – in realtà c’era qualcuno che mi diceva sempre che “senza esito” non si deve dire, perché in realtà c’è sempre un esito, anche se negativo, ma in questo caso e unico caso era proprio senza esito.
Io, per me, non ho trovato il coraggio di proferire alcuna parola nella sua direzione, di chiedergli di poter toccare il santino come avrei tanto voluto: agogno di avere una nuova possibilità, e spero che per quel giorno avrò acquisito la necessaria temerarietà
Qua la mano, hai letto Borges?
Avendo sperimentato i senegalesi, non posso che ammettere che è un’idea geniale.
Gay Pride and prejudice
Cristiana Alicata scrive una lettera molto bella al neo-sindaco di Roma, in cui si parla di gay pride, di famiglia e di normalità: la trovate sulla home di Repubblica. Un invito ancora: leggetela davvero.
In the pocket
Tutto è andato abbastanza come previsto, in Indiana c’è stata una lotta all’ultimo voto e ha vinto Clinton, in North Carolina ha vinto molto bene Obama, ma senza arrivare a una volta e mezzo i voti dell’avversaria, cioè il 60% che sarebbe stato il cappotto.
A ora Obama ha aumentato il vantaggio di 15 delegati (il NC dava comunque più voti dell’Indiana), ne devono essere ancora assegnati 14, e alla fine il vantaggio sarà intorno alla ventina.
Aumentare il proprio vantaggio di venti delegati è molto, perché a questo punto – come quando mancano poche giornate allo scudetto, e ogni giornata che passa con distacchi invariati è una giornata a favore della capolista – anche ogni pareggio va a favore di Obama. Per dire, se Hillary ne guadagnasse il doppio – 40 – nelle ultime 4 tornate di primarie, non riuscirebbe a raggiungere Obama: ed è un’eventualità non remota, bensì impossibile.
Rimangono meno del 7% di delegati pledged (cioè assegnati in base a primarie e caucus), e dopo le prossime (martedì prossimo) primarie del West Virginia a Obama mancheranno meno di 150 delegati per raggiungere la maggioranza di 2033, mentre a Clinton più di 300. Considerando che questo stato delle cose condizionerebbe non solo i superdelegati, ma anche gli elettori clintoniani tiepidi, che però non vogliono la famosa “spaccatura del partito”, ci sono serie ragioni per credere che – se non prima – il 20 maggio, giorno di Kentucky e Oregon, Hillary si ritirerà dalla corsa.
Il discorso di Obama non è stato sulle sue solite corde: comincia a essere ripetitivo. E a dire il vero, tranne i due minuti iniziali, e i due minuti finali ha usato intere frasi che aveva già usato in altri discorsi. Le novità sono due: la prima è che ha fatto notare come la vittoria in North Carolina sia allo stesso tempo una vittoria in un Big State (stati più popolosi) e in un Swing State (stati in bilico fra democratici e repubblicani) – Hillary ha sempre fatto notare questa sua incapacità di vincere negli stati chiave. Nessuna delle due cose è completamente vera, perché il North Carolina non arriva ai 10 milioni dei Grandi Otto, né è strettamente uno Stato Viola.
Il secondo punto è stata la decisa spinta all’unità contro i repubblicani, Obama ha detto che sicuramente i suoi supporter voterebbero per Clinton, e che non crede che i supporter di Hillary voterebbero per McCain piuttosto che per lui. In due parole sta virando l’obiettivo della propria campagna da “contro Hillary Clinton” a “contro Joh McCain”, segno evidente che – anche lui – si sente la vittoria in tasca.