Fare tredici all’anagrafe

Esperti internettari mi suggeriscono di mettere un disclaimer: l’articolo è lungo. Ma non è solo colpa mia, per raccontare questa storia bisognava necessariamente partire dall’inizio, anzi… dalla nascita.

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Ho sempre pensato che il senso calcio fosse racchiuso in due immagini che – da abitante della capitale – vidi in giovanissima gioventù.
Il ferramenta del quartiere, sfegatato laziale, che espone un bandierone della Roma all’entrata del negozio con la didascalia “le scommesse si pagano”. Lazio – Roma era finita dodici ore prima, e ovviamente aveva vinto la Roma; uguale e contraria sorte sarebbe capitata al dirimpettaio (e romanistissimo) barista, se all’Olimpico le cose fossero andate diversamente.
Anche per questo, da tifoso viola, ho sempre conservato una poco celata invidia per chi è attore di una stracittadina.


Una coppia di ragazzi, lui romanista lei laziale. Abbracciati all’uscita di un derby: lei avvolta in mille stracci biancoazzurri e con un sorriso smagliante, lui avvolto in mille stracci giallorossi e basta. Il risultato non lo ricordo, ma deduco che vinse la Lazio. Capii anche che quei due stavano litigando (lei era tutto un indicare la faccia di lui, e canticchiare), ma litigando in un ‘modo buono’;
Ci fu una cosa che mi stupì ancor di più: sapevo – per esempio – che era vietato entrare nella curva della Lazio con la sciarpa della Fiorentina; e quello lì c’era venuto tutto vestito di giallorosso. Era come se ‘sti due ragazzi fossero in possesso di un lasciapassare speciale, sembrava che persino gli idioti-criminali fossero cagionevoli a quella circoscritta, piccolissima, magìa.

Questo per dire – anche – che il calcio (e lo sport) si nutre un tanto di rivalità; che la presa in giro è il corpo dello spirito sportivo. Che desiderare la Juve in B, piuttosto che lo scudetto alla Fiorentina, è l’alimentazione di una prassi genuina, oltre che di una scornata autoironia.
Anzi, ho sempre pensato che fidanzate, mogli, amici, colleghi, compagni di merende, fosse meglio trovarseli di squadre rivali, in modo da potersi punzecchiare un po’, ché fa sempre bene e dà legna.
Prendo le cose troppo seriamente? Non c’è dubbio, ma c’è chi – sodale – fa di peggio.

Succede questo, un po’ romanzosamente: siamo nel 1973. Due giovani, fidanzati per qualche anno, sposati da poco. In comune hanno una passione: quella per il Queens Park Rangers.
È una passione molto sentita, il loro mondo, probabilmente si sono conosciuti allo stadio, vivono aspettando il sabato: e vogliono festeggiare la promozione della propria squadre nel massimo campionato. Decidono di dare al figlio in arrivo il nome di uno dei loro idoli: però loro sono affezionati a tutti, come fare a sceglierne uno solo? «Diamoglieli tutti!», eureka.
È così che nasce Anthony Philip David Terry Frank Donald Stanley Gerry Gordon Stephen James Oatway, l’ultimo è il cognome.
Un racconto del genere solitamente suscita un repente avvicendamento di reazioni, nel tifoso medio: per un attimo un moto di simpatia verso quei genitori – chi non ha mai indugiato in una piccola follia per i propri colori? – subito dopo però, più pragmaticamente, uno pensa alla vita del povero Anthony, a scuola, in ufficio, ovunque. Se manca il primo pensiero non si è abbastanza suonati per essere tifosi, se manca il secondo, beh, si è abbastanza, troppo, suonati per tutto il resto.

Avanti: i geni (con una i!) non mentono, e il nostro Philip diventa un appassionato di calcio, inizia a giocare, e riesce a ritagliarsi una onesta carriera da comprimario nelle serie minori inglesi. Alla fine smette con il calcio professionistico, e va a fare l’allenatore in seconda e giocatore di una squadra dilettantistica. La favola sarebbe finita qui, se non fosse che la squadra di David, il quasi altrettanto immemorizzabile Havant & Waterlooville Football Club, si ritrova a giocare nella competizione più antica del mondo: la Coppa d’Inghilterra.
Oltremanica è un trofeo molto ambito, forse più del campionato, e ha una formula che permette anche alle squadre di sesta serie, come gli Hawks del nostro Terry, di avere una piccolissima possibilità di ambire a insigni palcoscenici. Frank e i suoi ce la mettono tutta, e dopo sette partite contro squadre più blansonate, riescono a guadagnarsi la possibilità di giocare ad Anfield Road, forse il più celebre stadio di club inglese, contro i colossi del Liverpool.

L’impresa lascia di stucco lo stesso Frank, i tifosi, la società: sulla relativa sezione del sito ufficiale al posto della data e della presentazione del match, per giorni campeggia un’eloquente scritta “we still can’t believe it“. La partita si è giocata questo sabato, davanti a 42500 spettatori (850 volte la media spettatori della squadra di Donald). Per un tempo ci hanno creduto, sono passati in vantaggio due volte, e fino al 55′ erano in parità. Poi i Reds sono venuti fuori, e per Stanley e compagni non c’è stato niente da fare: 5-2 per i padroni di casa.

A proposito, Gerry aveva dichiarato che questa volta si sarebbe fatto da parte, che avrebbe fatto giocare una squadra di giovani per i quali quella era un’occasione unica, che lui aveva già avuto i propri momenti di gloria, e che – in fondo – quella passerella era perfetta per fare un grande regalo a quei suoi quattordici ragazzi (11 più 3 sostituzioni). E aveva tenuto fede a quanto detto, accomodandosi in panchina, lasciando giocare altri undici: con la sua squadra in vantaggio, con la sua squadra sotto, con la sua squadra spacciata, ha resistito e ha fatto altre due sostituzioni. Poi ha ceduto anche Gordon, e a quindici minuti dalla fine ha messo in campo Stephen Oatway, cioè sé stesso.

Che dire: caro James, un piccolo eccesso di egocentrismo – tutto considerato – lo possiamo concedere anche a te.

P.S. Come avrete notato, ho usato alternativamente gli undici nomi del protagonista di questa storia: volevo mostrare come si fa a una persona in particolare. Ecco, permettetemi una piccola nota polemica nei confronti della zia di Charlie Oatway; eh sì, Charlie, perché la saggia zia consigliò ai genitori-tifosi di dare almeno un soprannome al bimbo, e invece di attingere dall’ampio serbatoio prodotto dai signori Oatway, decise per un dodicesimo. Domandatogliene conto, costei spiegò che la ragione che la spinse non fu semplificativa, bensì che «Charlie gli stava proprio bene». Fu così che il nipote divenne, per tutti, Charlie. Per l’anagrafe, invece, Anthony Philip David Terry Frank Donald Stanley Gerry Gordon Stephen James “Charlie” Oatway.

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3 Replies to “Fare tredici all’anagrafe”

  1. /KNOWN THAT EVEN AT HER AGE SHE IS A VIRGIN… WIKI SAYS”She has never married nor had any crdeihln. In November 2007 on BBC Radio 4 she described how a journalist once produced a profile on her with the assumption that she had had at least “one sexual relationship”, to which Widdecombe replied: “Be careful, that’s the way you get sued”. When interviewer Jenni Murray asked if she had ever had a sexual relationship, Widdecombe laughed “it’s nobody else’s business”.

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