Lunedì degli aneddoti – XXI – A che ora è la fine del mondo?

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

A che ora è la fine del mondo?

L’avevo raccontato quando ero in Palestina, ma merita di stare anche qua: una degli aspetti minori della questione arabo-israeliana, e della vita dei palestinesi da “occupati” è che c’è sempre questo equivoco fra l’essere uno stato a sé e il dipendere militarmente ed economicamente dalla forza occupante. Ci sono quindi tentativi, anche comprensibili, di distinguersi sotto qualunque aspetto da Israele per affermare la propria diversità, e quindi indipendenza. Sforzi che però, necessariamente, si scontrano con la necessità di non complicare troppo la vita ai palestinesi che lavorano in Israele: fino alla seconda intifada quasi la metà di tutti gli abitanti della Palestina.

I giorni festivi, ad esempio, sono scelti autonomamente: quindi dove in Israele il giorno festivo è il sabato, in Palestina il sabato è lavorativo, anche se – ovviamente – per coloro che lavorano in Israele, le festività sono quelle del nemico, e questo potenzialmente condiziona l’intero sistema economico palestinese: servono gli autobus, qualche negozio aperto, etc. È il medesimo, invece, l’orario: Israele adotta un fuso europeo (GMT+2, quello della Grecia), e in Palestina si segue lo stesso. Ma c’è un’eccezione, ed è l’ora legale: il rientro all’ora solare non è mai contemporaneo, specie se c’è una coincidenza con il Ramadan. In tal caso, in Palestina come in tutti i paesi arabi, l’ora solare legale viene sfruttata con il principio contrario a quello cui siamo abituati – ovvero di risparmio energetico: solitamente si ritarda il ritorno all’ora solare il più possibile per guadagnare luce, in Palestina – sotto Ramadan – si anticipa l’ora solare per anticipare il buio, e cioè il tramonto (così per riniziare a bere mangiare).

In questo modo, però, ci sono due settimane in cui c’è un bel trambusto, perché a ogni passaggio di check-point cambia anche l’ora, e le incomprensioni sono all’ordine del giorno. La più clamorosa – assieme macabra e grottesca – fu il caso di tre terroristi palestinesi, una decina di anni fa, che stavano portando in Israele delle auto-bomba fabbricate nei Territorî così da farle esplodere nell’ora di maggior affollamento nei mercati di Haifa e Tiberiade.
Il piano consisteva nel parcheggiarle lì pochi minuti prima che esplodessero, per avere il tempo di allontanarsi dal luogo dall’esplosione, senza però rischiare che le automobili fossero notate e disinnescate.
Soltanto che gli attentatori non avevano considerato il fatto che il timer degli ordigni era stato tarato sull’orario palestinese – ancora non passato a quello solare, come in Israele – e quindi un’ora in avanti sui loro orologi.
Alle 17.30 in punto, mentre i tre sprovveduti attentatori si stavano ancora dirigendo sul luogo del potenziale massacro, gli esplosivi di cui erano imbottite le automobili scoppiarono per strada, con i tre attentatori come uniche vittime della detonazione.
Il colmo è che questi non erano terroristi-kamikaze, non avevano intenzione di suicidarsi nell’esplosione, come in altri casi – ma soltanto di fare una strage.

Questa prestazione valse loro un Darwin Award, premio che – come recita l’epigrafe – onora coloro che migliorano la specie umana semplicemente rimuovendosi da essa.

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Lunedì degli aneddoti – XX – Il gallo nero

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Il gallo nero

Forse il punto migliore da dove cominciare a raccontarla è la Juventus, i gobbi, come li chiamano tutti i non gobbi.

Che nelle regioni dell’estremo sud, Sicilia, Calabria, anche Basilicata ci siano un sacco di tifosi della Juve è cosa nota, assieme a quelli che tifano per il Milan e per l’Inter: si capisce anche, di squadre con tradizioni calcistiche affermate non ce ne sono molte, e allora si ripiega sulle strisciate.
Ma c’è un altro buco nero di juventinite, in Italia, ed è la Toscana. Ma come? Proprio dove c’è la Fiorentina, la squadra che più odia la Juve? Appunto!
Fateci caso, tutti i posti della Toscana, Prato, Siena, Pisa, Viareggio, anche Arezzo o Pistoia son pieni di juventini. E il paradosso è che, invece, a Grosseto, che è la provincia toscana più distante dal capoluogo sono tutti per la Fiorentina. Sembra assurdo, ma la ragione è semplice: tutte le città, nel medioevo, erano dominate da Firenze, e quindi odiano i fiorentini, l’unica che era sotto Siena, Grosseto, odia i senesi, e tifa la Fiorentina!
Direte voi: ancora? Ma non è possibile, 800 anni dopo quelle battaglie c’è ancora un lascito di quel genere?

Di più. Pensate che ogni anno a Siena-Fiorentina, i tifosi bianconeri – sì, hanno anche i colori della Juve! – espongono striscioni che inneggiano a Montaperti, battaglia campale che vide la vittoria senese (l’unica che vinsero, parola di fiorentino!).
E il Gallo Nero che c’entra? Non è un vino? Sì, certo, è un vino, il Chianti Gallo Nero. Ma da dove prende il nome? Sempre da lì.

Vuole la leggenda che per mettere fine ai reiterati conflitti fra Firenze e Siena, e dirimere la principale ragione di contesa fra le due potenze toscane – ovvero la sovranità di tutta la zona del Chianti, a sud di Firenze e a nord di Siena – si fosse organizzata una tenzone davvero particolare: essendo molto difficile tracciare un confine mediano, anche in ragione dei limitati strumenti del tempo, si decise di lanciare i due migliori cavalieri di ciascuna città in direzione dell’altra: il punto di incontro dei due uomini a cavallo sarebbe divenuto il confine, e avrebbe sancito la spartizione delle colline del Chianti.
I due paladini sarebbero partiti, da dentro le mura cittadine, al cantare del gallo: una delegazione di fiorentini fu inviata a Siena, per controllare la regolarità della partenza, e così una delegazione di senesi a Firenze. I senesi scelsero un gallo bianco, e lo rimpinzarono di cibo convinti che questo gli avrebbe dato più energie al risveglio, mentre i fiorentini fecero esattamente l’opposto: non solo cromaticamente, il gallo nero fu lasciato al digiuno più impenitente.

La mattina della contesa il gallo nero, stretto dai morsi della fame, si destò e cominciò a cantare ben prima dell’alba: il cavaliere fiorentino non aspettava altro, e partì – è il caso di dirlo – a sprone battuto. Intanto a Siena si aspettava ancora il chicchirichì del gallo bianco; anche quello arrivò, ma arrivò – puntuale – all’alba, quando il cavallo fiorentino aveva già calpestato tutto il Chiantigiano: l’incontro fra i due cavalieri avvenne a una dozzina di chilometri da Siena, in località Fonterutoli, sancendo così il passaggio – di fatto – dell’intero Chiantigiano alla Repubblica Fiorentina.
Quando poi, nel 1384, Firenze costituì, in funzione deliberatamente anti-senese, una lega diplomatico-militare fra i propri alleati dell’area, la Lega del Chianti, questi scelsero come stemma – manco a dirlo – un gallo nero.

Grazie a Andrea

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Lunedì degli aneddoti – XIX – (Very) Nouvelle Cousine

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

(Very) Nouvelle Cuisine

Delle volte mi chiedono «che hai studiato?», io rispondo Filologia Romanza e la domanda diventa «che hai studiato?!?». Allora a quelli più romantici racconto di Lancillotto e Ginevra, di Tristano e Isotta. A quelli più pragmatici racconto questo: le lingue sono corpi pieni di storie, aneddoti, prese in giro, raccontate dalle parole, dai nomi di luoghi e di persone. Così, per esempio, tutte le “rive” sopra a Rimini e La Spezia rimangono rive, come la Riviera Ligure o Riva del Garda; invece tutte le rive al meridione di Rimini e La Spezia diventano (in realtà è vero l’opposto, son le ripe a diventare ribe e poi rive) “ripa”, come Bagno a Ripoli, come Marina Ripa di Meana, come via di Ripetta, dove un tempo passava il fiume.
Per tutte le parole? Beh, no. Quelle facili. Dicevamo fiume, ecco fiume. Il fiume in latino era flumen. Poi “fl” non riescono più a dirlo e diventa “fi”. Come il florem, diventato fiore. E quelle difficili? Beh, quelle no. Quelle rimangono ancora per un po’ in latino, e difatti ce le ritroviamo con un bel “fl” intatto: floreale, fluviale – gli aggettivi relativi, già son più difficili. Però che vuoi che cambi. Fiore, floreale, siamo lì. Macchiato, maculato, stessa solfa, anche se – certo – se proviamo a chiedere al bar un latte maculato il barista ci guarda un po’ storto.
Poi però arrivano gli inglesi. Cioè, quelli che arrivano sono i francesi, perché gli inglesi sono – ehm, perdonate – dei buzzurri. O meglio, quelli che non sono del volgo – quelli che frequentano l’alta società – parlano in francese. Così arrivano i francesi e gli insegnano tutto, gli insegnano tutto e glielo insegnano in francese. L’inglese non è una lingua latina, però se andate a vedere tutto il lessico più del 70% è di origine latina diretta o indiretta: solo che son le parole difficili! E così “re” si dice “king”, che è germanico, ma reale – sempre l’aggettivo relativo – si dice royal, che se lo pronunciate con l’accento sulla “a” sapete da dove viene. E sinistra? Beh, sinistra si dice “left”: non è latino, perché è facile. Però in italiano si dice anche una cosa sinistra, un concetto un po’ meno immediato. E come si dice in inglese? Già, “sinister”.
Ma la cosa più bella, io dico, è questa: quelli, dicevamo, non sapevano far nulla: neanche cucinare! Arrivano i francesi e glielo insegnano. Bravi. E allora che succede? Che i nomi degli animali che si mangiano, in inglese, si dicono in francese: direte, ma come, “Cow” “Lamb” “Pig”, per dire i tre animali che si cuociono di più, non suonano mica latini. Appunto! Perché quegli stessi animali, cotti, diventano francesi: beef, che viene da boeuf, bove. Mutton, il montone, Pork, il porco. E pensate un po’ che ci sono anche quelli che fanno avanti e indietro, come il bove, diventato beef, poi beef steak, pezzo di carne, e tornato al di qua della Manica e al di qua delle Alpi come beef-steak, bistecca. Magari una bella Fiorentina.

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Lunedì degli aneddoti – XVIII – Botta di culo

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Botta di culo

Poche cose si portano dietro un numero tanto alto di storielle come le sigarette Lucky Strike. Così tante che ognuno ha la sua. C’è chi dice che si chiamino così perché talvolta nei pacchetti si poteva trovare – al posto di una sigaretta – una canna, e che questo costituisse il colpo di fortuna. C’è chi dice che lo “strike” in questione sarebbe uno sciopero particolarmente fortunato dei dipendenti della fabbrica. E c’è la mia preferita, quella che fa risalire il nome di queste sigarette, la cui peculiarità è la tostatura del tabacco, a un incendio che avrebbe distrutto il capannone dove erano stipate tutte le riserve di tabacco, finite così arrosto. L’impossibilità di buttare tutta quella materia prima avrebbe convinto i proprietarî a prepararne comunque delle sigarette, e che queste sigarette – con la specialità del tabacco tostato – avessero avuto un successo così grande da convincere i produttori a sottoporle sempre, di lì in poi, allo stesso trattamento. Il lucky strike, il colpo di fortuna, o più ancora, la “botta di culo” sarebbe stato quell’incendio.
C’è però una storia, un aneddoto, che è accertatamente vero. O meglio, accertatamente falso. Nel senso che furono proprio quelli della Lucky Strike a menare il can per l’aia.
Agli inizi degli anni quaranta le Lucky Strike avevano un pacchetto verde, con al centro il classico cerchio rosso. Delle indagini di mercato avevano però suggerito che un colore più neutro, come il bianco, avrebbe potuto attirare maggiormente i clienti, in particolare quella femminile che al tempo si stava timidamente affacciando al vizio del tabacco. Ma come giustificare il cambio di colore agli occhi dei clienti più tradizionalisti?
L’America era appena entrata in guerra, e tutto il paese – all’indomani del repente attacco a Pear Harbour – era concentrato nell’impegno bellico: così, nei primi mesi del ’42, le Lucky Strike cambiarono colore, passando dal verde all’attuale bianco, e la modifica cromatica fu accompagnata da uno slogan che fu pubblicizzato su radio e giornali: “Lucky strike green has gone to war”, il verde delle Lucky Strike è andato in guerra – visto che la vernice verde, a base di rame, serviva allo sforzo bellico la società aveva fatto questa scelta patriottica; questo dissero.
In realtà non era vero niente – come non era vero che il nuovo colore, bianco con il cerchio rosso al centro fosse stato scelto in spregio al Giappone – e il verde della vernice non aveva nulla a che vedere col rame necessario per fare la guerra. La scelta di marketing, però, si rivelò un successo: le nuove Lucky Strike “guerrafondaie” vendetterò quasi la metà in più rispetto alle stagioni precedenti. E non per un colpo di fortuna.

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Lunedì degli aneddoti – XVII – La caduta del Muro

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La caduta del Muro

Il mondo finì il nove novembre del 1989, vent’anni fa. Finì come non ci si aspetterebbe mai che finisca un mondo, per caso, quasi per sbaglio. Di mondi – a quel tempo – ce n’erano tre, e a finire fu il secondo: povero come il terzo mondo, ma potente come il primo.
Fini a Berlino, con il crollo del Muro. Un crollo il cui rumore impiegò un paio d’anni per attraversare tutto il globo, ma un crollo inesorabile, ancora più significativo perché avvenuto dal di dentro al di fuori, e non il contrario. Uno non ci pensa mai, considera il Muro di Berlino come il Muro di Berlino Est: e invece no. Era il muro che circondava completamente quel piccolo lembo di Germania orientale, Berlino, che era sempre rimasta libera.
Non è vero che tutto accadde per caso, né che le coincidenze furono determinanti per l’intero corso della storia, ma l’ultima picconata, sì, a quel muro la diede un insieme di coincidenze che fecero finire in commedia rocambolesca quello che era stato un regime fondato sulla più nociva coazione all’organizzazione.
Erano i mesi successivi all’estate dell’89, che era stata l’estate di manifestazioni per la libertà e apertura di frontiere limitrofe. In agosto l’Ungheria dischiuse le frontiere, con l’effetto di ritrovarsi migliaia di tedeschi dell’est che volevano fare il giro per poter andare nella sorella Germania. Operazione fino ad allora vietata, l’attraversamento, e impresa nella quale molti erano rimasti uccisi e altri erano riusciti con i metodi più strani, come una mongolfiera che scavalcasse il muro.
A quel punto nella DDR si studiarono misure per contenere le manifestazioni, e si arrivò ad una conferenza stampa nella quale si sarebbero annunciate dei provvedimenti di concessione in questo senso: ma Günter Schabowski, colui che teneva la conferenza stampa, non aveva partecipato alla riunione in cui il provvedimento era stato pianificato e si era trovato a descriverlo senza padroneggiarlo.
Al termine della conferenza stampa un giornalista chiese: «ma quando entreranno in vigore queste misure?». Schabowski rispose: «per quanto ne so, ora». Immediatamente dopo l’annuncio fallace, che tutta la Repubblica Democratica Tedesca aveva ascoltato per televisione, una marea di persone affollò i varî punti di passaggio per chiedere di avere concesso ciò che il funzionario socialista aveva loro accordato.
Le guardie di frontiera furono prese alla sprovvista da quella folla di gente che si sentiva in diritto di passare di là, e non poterono far altro che aprire le frontiere.
La sera del 9 novembre tutta Berlino Est si riversò dentro a Berlino Ovest, producendo in un attimo quella commistione che era mancata per almeno trent’anni. All’improvviso arrivare dei tedeschi dell’est, quelli dell’ovest poterono fare soltanto una cosa: offrire birra gratis a tutti.
Buon anniversario anche a voi.

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Lunedì degli aneddoti – XVI – Gagarin, patente e libretto

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Gagarin, patente e libretto

«La Terra è blu, è stupenda», Yuri Gagarin la disse veramente questa frase quando divenne il primo uomo a orbitare intorno al nostro pianeta. Quell’altra, «non vedo nessun Dio quassù», gliela mise in bocca Krusciov, poi, anche se l’effetto retorico c’era.
Quella mattina lo svegliarono e gli dissero «ehi bello, oggi vai nello spazio». Chi non vorrebbe essere svegliato da una notizia del genere? Beh, non tutti, perché le possibilità che la missione andasse in porto erano cinquanta e cinquanta, e se fosse saltato fuori croce, come dicono nei western, l’astronauta c’avrebbe lasciato le penne.
Lyndon Johnson, che sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti di lì a poco, diceva che non bisogna mai rifiutare due cose: un invito a cena, e un’occasione per fare pipì.
Un consiglio che sarebbe servito anche a Gagarin, quella volta, perché il suo bisogno fece registrare il primo imprevisto in una missione così delicata: Gagarin si fermò, prima di raggiungere la sua capsula, per fare la pipì. Una sosta, divenuta un rito ancora oggi praticato da ciascun astronauta russo in partenza.
Così, a 27 anni, Yuri Gagarin diventò il primo uomo ad andare nello spazio, un’ora e mezzo di volo e un atterraggio non proprio previsto, in un campo, dove dovette convincere due contadini di non essere un nemico venuto dallo spazio. Ci si misero, poi, anche dei soldati, che non lo riconobbero e gli chiesero i documenti.
Alla fine ce la fece, Gagarin, ad avere il meritato tripudio, venne accoltò a Mosca come un paladino al quale furono tributati tutti gli onori, fra cui un pilota personale – Seregin – che doveva tutelare i voli dell’astronauta per garantirne l’incolumità e preservare così la vita dell’eroe nazionale.
L’ironia, o la cattiveria, della sorte raccontano che l’espediente non funzionò tanto bene perché fu proprio un volo pilotato da Seregin, sette anni più tardi, a schiantarsi al suolo mettendo fine alla vita propria e a quella di Gagarin.

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Lunedì degli aneddoti – XV – Servizî segretissimi

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Servizî segretissimi

Il Mossad, quello israeliano, è considerato il servizio più segreto del mondo. Quello più efficiente, che è dietro a qualunque cosa. Se c’è qualcosa di poco chiaro, nel mondo, state sicuri che c’è sempre qualcuno che se ne esce con «è stato il Mossad!». Del resto, essendo un servizio segreto, meno le proprie attività  vengono rese pubbliche, più vuol dire che sta funzionando: e così chiunque ha buon gioco a dire che c’è dietro un complotto: «è il Mossad!» «Ma non c’è nessuna prova!» «Appunto!». Appunto.
È vero, però, che il Mossad ha – forse anche più della Cia, che si è spesso limitata a sovvenzionare dittatori – orchestrato azioni inverosimili, e perciò – quale cosa se ne pensasse – spettacolari: dal raid di Entebbe, al bombardamento del reattore di Osiraq, passando dalla cosidetta Lista di Golda Meir, fino ad arrivare al celeberrimo rapimento di Eichman. Tutte azioni pianificate o orchestrate dal Mossad assieme, ovviamente, alle divisioni dell’esercito israeliano.
La storia del Mossad non è fatta solo di successi però, e non tutti i suoi funzionarî hanno sempre dato prova della massima arguzia. Come quella volta, una decina d’anni fa, a Ginevra: il servizio segreto israeliano aveva mandato una sua cellula in Svizzera per monitorare un presunto uomo legato a Hizballah, il tutto ovviamente all’insaputa delle autorità elvetiche, note per la propria neutralità. Il capo di questa cellula aveva a disposizione quattro uomini, cioè, non tutti uomini, anche una donna. E qui veniamo al punto. Avevano pianificato tutto, il giorno in cui l’uomo sospettato non sarebbe stato a casa per tutto il giorno, e avevano deciso di intrufolarsi, in tre, e mettere delle microspie per tracciare le sue conversazioni. E gli altri due? Beh, gli altri due dovevano star fuori a fare i pali, e cioè a controllare che non arrivasse la polizia. Però quelli del Mossad non erano mica stupidi. Due persone lì davanti, a girellare intorno, avrebbero destato sospetti. Come fare a evitarlo? Beh, grande idea, viene al boss. Li mettiamo dentro una macchina – un uomo e una donna – ad amoreggiare, più normale di così!
Bella l’idea, ma il tipo non aveva fatto i conti con il contegno di una donna, molto perbene e molto svizzera, che non approvava: la signora chiamò la polizia denunciando due giovani che, davanti al proprio domicilio, si comportavano “in modo poco consono”.
Così, fra un bacio e l’altro, arrivò la polizia e il piano del Mossad andò in fumo.

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Lunedì degli aneddoti – XIV – Il barile si ferma qui

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Il barile si ferma qui

In Italiano deriva da un gioco di bambini che si faceva anche secoli fa, e si dice scaricabarile. È un’operazione di cui spesso accusiamo i politici – non a torto – ma a cui siamo tutti cagionevoli: la colpa è sempre di qualcun altro, e il barile viene passato di braccia in braccia fino a non capire chi ne è il responsabile.
Al contrario, una delle cose che si dice sempre dell’inglese è che sia l’unica lingua in cui esiste la parola “accountability”, che vuoldire qualcosa come “avere le piene responsabilità di”, ma un po’ di più; e che questo sia mostra della maggior attitudine alla responsabilizzazione degli anglosassoni.
Tuttavia lo scarica barile c’è anche in inglese, e si dice “to pass the buck”. Il “buck” però non è un barile, ma una sorta di segnaturno del poker. E fu proprio un giocatore di poker che regalò al Presidente Truman la piccola insegna che comparve sulla scrivania di Truman, destinata a rimanerci per entrambi i mandati: anche negli Stati Uniti succede che i politici si scarichino il barile della responsabilità di qualche provvedimento – l’unico che non può farlo, per ovvie ragioni, è il presidente.
Esattamente con questo intento, a significare che la responsabilità ultima fosse soltanto sua, Harry Tryman portò nello Studio Ovale il fermacarte con la frase divenuta oramai celebre e di uso comune negli Stati Uniti: Il ‘barile’ si ferma qui. “The buck stops here”.

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Lunedì degli aneddoti – XIII – Lo sconosciuto che salvò il mondo

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Lo sconosciuto che salvò il mondo

Avete presente come andò quando la FIFA mise il golden gol? Era quella cosa fatta per fare sì che i supplementari fossero più movimentati e finissero prima, appena una delle due squadre segnava. Ma visto che tutti avevano il terrore assoluto di prenderlo, il gol, si vedevano sempre 30 minuti di catenaccio in cui nessuna delle due squadre ci pensava neanche, ad attaccare. La Guerra Fredda funzionava un po’ così.
Tutti avevano un sacco di armi – atomiche – ma sapevano che se l’avessero utilizzate, sarebbero stati annientati l’attimo dopo. Alla distruzione del proprio nemico sarebbe seguita la propria distruzione. Una volta Kennedy disse a Kruschev «abbiamo armi per distruggere 30 Russie», la risposta fu caustica: «noi abbiamo armi per distruggere un’America: e ci basta».
Quello che diceva Kruschev era vero, e la strategia era davvero molto chiara: la prima cosa da fare, in caso di un possibile attacco nucleare americano, era scaricare tutto il proprio potenziale atomico sull’America. Così, in ogni momento, c’erano soldati di guardia ai radar puntati sugli Stati Uniti.
La notte del 26 settembre 1983 a controllare il radar c’era il colonnello Stanislav Petrov, come ogni notte aveva il dovere di avvisare i superiori qualora avesse scorto un lancio di missili americani in direzione russa. Era una notte tesa, quella: qualche giorno prima un aereo coreano con a bordo diversi americani era stato abbattuto, e il KGB aveva fatto circolare un’informativa in cui si metteva in guardia da un possibile attacco americano a breve.
E quella notte un missile, in partenza dal Montana, apparve sul radar. Petrov ci penso un attimo e concluse che un attacco nucleare non sarebbe stato lanciato con un solo missile, e soprassedette. Ma qualche minuto dopo apparvero altri quattro segnali di missili in direzione del territorio russo.
La comunicazione che cinque missili erano stati lanciati dagli USA contro la Russia avrebbe certamente scatenato un massiccio bombardamento nucleare su varie città degli Stati Uniti secondo la dottrina della reciproca distruzione assicurata. La reazione americana non si sarebbe fatta attendere più di cinque minuti, e con essa la Terza Guerra mondiale. Sembra un film, ma è successo davvero.
Petrov decise, anche la seconda volta, che si trattava di un falso allarme, e non allertò nessuno. Vero è che dall’altra parte dell’oceano Ronald Reagan non aveva premuto nessun bottone rosso, e il falso positivo era stato dato dall’unico caso nella storia di errore dei saltelliti con orbita Molniya: Petrov aveva ed ebbe ragione.
Si dice che, in principio, Stanislav Petrov non fosse di turno quella notte: chissà come si sarebbe comportato un altro al suo posto.

[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte]

Suggerito da Francesco

Lunedì degli aneddoti – XII – Salvato due volte

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Salvato due volte

Per una volta mi concedo un aneddoto che non è un vero aneddoto. Una storia, anche pubblicata con credibilità su varî libri, e di cui si parla da sessant’anni, ma che è soltanto una leggenda. Ho pensato molto se metterla oppure no ma alla fine ho deciso di sì perché è – sarebbe – troppo bella.

La storia ci racconta questo: un tredicenne, Alex, figlio di un pastore scozzese sta pascolando il suo gregge, quando vede che proprio nel lago di fronte a casa sua un ragazzo poco più grande sta annegando. Alex si tuffa per andare a salvarlo e lo porta a riva. Il ragazzo si rivela essere il rampollo di una ricca famiglia della noblità dell’Oxfordshire, che lo ringrazia fino a non sapere come sdebitarsi. Anzi, qualche anno più tardi trova il modo: telefona ad Alex dicendo che i proprî genitori vogliono pagargli i costosi studî in medicina che costituiscono il sogno di Alex, e che – in altro modo – questi non si sarebbe mai potuto permettere. Alex mette a frutto i suoi studî, la sua passione, e il suo talento e viene chiamato come studioso di batteriologia nel più importante centro di ricerche di Londra. È proprio lì che Alex, diventato il celebre Alexander Fleming, per un’occasione fortunosa – ma questa è un’altra storia – scopre la penicillina, il precursore di tutti gli antibiotici. La penicillina comincia a essere utilizzata durante la Seconda Guerra Mondiale ed è addirittura il primo ministro Winston Churchill, ammalatosi gravemente in Africa nella vecchia Cartagine, uno dei primi a essere curato – e ad avere così salva la vita – con questa nuova medicina miracolosa.
Quel Winston Churchill che era anche il ragazzo salvato in quel lago di Scozia, quarant’anni prima.

Peccato che non sia vero.

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