Mutando vita

Lorenzo Cairoli racconta della Roma dei barboni che ho avuto modo di conoscere anch’io, lavorandoci, lo scorso anno:

a Roma ci sono tutte le mense che vuoi. Ho un amico rumeno che a Brasov faceva l’autista di pullman. A Natale si è ritrovato la casa infestata da parenti: volevano vedere Roma, il Colosseo, il Papa e Piazza San Pietro. Per un mese li ha scarrozzati da Trigoria ai Fori Imperiali e a colazione e a cena gli ha fatto fare il giro delle mense romane.

La Roma di Veltroni (ma anche della potentissima Caritas) era anche questa, piena di cooperative dai vertici molto compromessi, che però svolgevano il proprio lavoro. E, dopotutto, lo svolgevano bene. Grazie alla sensibilità delle persone che ci lavorano dentro, spesso molto poco professionali, cosa che in fondo si rivelava essere un bene. Perché in quelle situazioni non ci sono molte regole. Ci puoi trovare di tutto, e devi essere sempre pronto: anche senza il manualino. E anche di tutti: il soldato che fa il doppio lavoro senza dirlo ai propri capi in caserma, l’assistente sociale che fa la gavetta, quella che la gavetta l’ha già fatta ma non ha ancora trovato un posto fisso e arrotonda così, il giornalista che vuole provare l’esperienza, e poi i tanti stranieri: il bulgaro che è venuto con la famiglia e fa il portiere, l’eritreo che viene da Lampedusa e dall’essere quasi morto di sete in Sudan che dice «no, a casa non voglio tornare: Italia mi piace», l’albanese che studia giurisprudenza e si paga così l’affitto.

Sempre Cairoli:

Verso dicembre le cose miglioreranno un po’, perchè scatterà l’emergenza freddo e allora per chi dorme in strada potrebbero spalancarsi le porte del paradiso: un letto in un centro o su un pullmino, invece che dormire nel vagone di un treno, su una panchina della Termini, in una macchina, o su un permaflex di cartoni.

Accusavano Veltroni di buonismo, che tante iniziative buone fossero solo di facciata (in effetti l’emergenza freddo è durata esattamente sino al giorno delle elezioni) , ma che intanto ci sono, o c’erano.
Non so come sia la nuova Roma di Alemanno da questo punto di vista, a quanto mi dicono i miei ex-colleghi sembrano esserci pochi cambiamenti, ma tutto deve ancora cominciare.

Anche nella sfiga occorre fortuna. Morale: se proprio devi finire in strada cerca di finirci quando c’è l’emergenza freddo.

Io so che l’anno scorso, all’emergenza freddo, specie nei mesi di gennaio e febbraio erano molti più quelli che eravamo costretti a buttare fuori che quelli a cui riuscivamo a trovare un posto. Non voglio immaginare come sia ora, se davvero hanno tagliato tanti altri c’entri d’accoglienza.

Sono tornati tutti a Brasov più in carne di come erano partiti. Il problema qui non è mai il cibo.

Eh sì: se volete aiutare una struttura come questa non portate cibo, ce n’è tanto, e tanti ne portano – per fortuna: c’è il barista che allunga la strada dopo aver chiuso il bar per consegnare i panini non consumati, oppure c’è quello della parrocchia che raccoglie il cibo e lo porta ogni domenica. Non portate neanche giacche, o piumoni, maglioni. Anche quelli ci sono. Ce ne sono tanti, ognuno ha un maglione di cui disfarsi. Portate scarpe, ma soprattuto mutande. Mutande e calzini, quando uno che è finito in strada smette di cambiarsi le mutande è il principio di un barbone, quando un barbone comincia a potersele cambiare, è il principio di una nuova vita. Perché c’è chi ci riesce, a farsi una nuova vita. Portate le mutande e i calzini, perché nessuno ci pensa mai, e mai se ne trovano.

Bassorilievi

santiago.JPGIvan Basso oggi torna a correre dopo più di due anni. Era uno che mi piaceva, Basso: semplice nell’unica delle tante accezioni in cui questa parola può essere un complimento. Quando in un Giro che avrebbe stravinto ebbe una congestione sullo Stelvio e perse tre quarti d’ora, invece di ritirarsi – come avrebbe fatto qualunque altro favorito – decise di rimanere e soffrire; a fine tappa gli chiesero «ma perché non sei salito sull’ammiraglia?», che vuoldire in macchina, tornare a casa; lui rispose «piuttosto salivo sull’ambulanza».

Certo, Ivan Basso non è mai stato uno di quei corridori che fanno Svissh, ma del resto quell’ultra-fenomeno di Pantani non m’è mai stato simpatico, i corridori che s’alzano sui pedali e volano via ti sembrano degli extra-terresti, Basso invece era uno quasi normale, di quelli la cui fatica potevi leggere ogni metro, soffriva ogni pedalata e si vedeva. Sapevi che avresti potuto fare un centesimo di quello che faceva lui in bici, ma lo faceva proprio-come-lo-fai-tu, anche se per lui era la Marmolada e per te il cavalcavia vicino casa. Quando gli dicevano «ma guardalo, non scatta mai a Armstrong» io pensavo sempre «Ivan, non preoccuparti, sei l’unico che riesce a stargli dietro a quello lì, lasciali stare: soffriamo insieme! Tu là sul Tourmalet, io qui in poltrona davanti alla tv!».

Ecco, Ivan, io volevo essere tuo amico. Però tu avresti dovuto collaborare, mica così.

No, non parlo di emotrasfusione. Di operazioni Porto, o dottori miei omonimi (eh sì, Fontana è l’aggettivo relativo di ‘fonte’). Non parlo di doping, insomma.

Non parlo nemmeno di quella volta che Rocco saltò la scuola per venire da te, invece che uscire con qualche ragazzina del liceo. Tu avevi l’udienza al CONI e dicevi ancora d’essere innocente, però un po’ le cose puzzavano, e allora nessuna squadra ti voleva. Così Rocco, che è uno che corre davvero in bici – mica come me che faccio solo i cavalcavia di cui sopra – era venuto a darti la maglia del suo gruppo sportivo e ti aveva detto «se nessuno ti vuole in squadra, beh io ti ci voglio». E tu sì, avevi sorriso, ma non l’avevi presa quella maglia (30° secondo nel video) da quel ragazzino diciottene con in mano il casco del motorino, e lo zaino pieno di libri inutili, quel giorno. Ti aveva detto io-ti-voglio-con-me-in-squadra, e aveva saltato la scuola per te: non ti costava nulla; ma vabbè, eri nervoso, teso, i giornalisti ti stavano per assaltare, te l’avrei perdonato.

augurisantiagoyr8.jpgE ti avrei perdonato pure Santiago. Avrei qualcosa da ridire anche su Domitilla – visto che tu sei il Terribile del ciclismo, lo zar, avrai pensato che un’imperatrice ci stesse bene – ma te l’abbono; però Santiago? Che è un nome da dare a un figlio? A ‘sto punto meglio San Sebastián!

Ma vabbè.

Ora però ti racconto io, quel giorno. Era il Giro del 2006, era la penultima tappa. Dopo il 2005, la rivincita – e il Giro l’avevi vinto: 6 minuti di vantaggio sul secondo, 10 e mezzo sul terzo, che era Gilberto Simoni. Una vecchia gloria, di quelli che ti dicono che ha vinto 2 Giri d’Italia, ma glielo leggi in faccia che vuoldire che n’ha persi almeno cinque o sei. Uno antipatico, molto antipatico. Talmente malsopportato da tutti che finiva per esserti simpatico.

Ed era lì, sull’ultima salita prima dell’arrivo, che – di nuovo – vi ritrovate in due, voi due. Ivan Basso e Gilberto Simoni. Un quadro stupendo, quasi un passaggio di testimone dal vecchio campione al nuovo, sul Mortirolo: c’era scenario più adatto? Lui è lì perché vuole vincere una tappa, tu ne hai già vinte due. E poi ha ancora qualche possibilità di scalzare dalla seconda piazza quel bufalo di Gutiérrez.

Arrivate in cima al Mortirolo, di sicuro Simoni ha fatto fatica a starti dietro, ma ha anche provato a darti una mano. Però in discesa le gerarchie si capovolgono, tu sei sempre stato un po’ scarso. Dici che non vale la pena di correre rischi, ma l’impressione è sempre che sia tu a correrne di più di rischi, anche se vai più piano degli altri. Poco male, i Giri non si vincono in discesa, sarà successo una volta in tutta la storia del ciclismo, fra la mezza di Magni e la mezza di Savoldelli. E poi tu, l’abbiamo detto, l’hai già vinto ‘sto Giro, chi te lo fa fare di correre rischi inutili per nulla? T’ha già fregato l’anno scorso, la sfortuna, vedi mai che anche stavolta… vai piano Ivan.

Però con te c’è Gilberto Simoni, e lui mica è uno scarso in discesa. Anzi, è uno bello forte. Poi lui sì che ha poco da perdere. Di podî ne ha già fatti sei al Giro d’Italia, questo sarebbe il settimo: lui vuole vincere la tappa. Avrai pensato “se le curve me le traccia lui non rischio tanto, e insieme poi si va meglio anche in pianura”, così gli hai detto «dài, facciamola insieme la discesa» che vuoldire «aspettami» che a sua volta, lo sai, vuoldire «andiamo insieme all’arrivo, e ti lascio vincere», come faceva Indurain. È logico. Sono queste, le bellissime regole non scritte della bici.

Però c’è un problema. Cioè un problema, una cosa bella, che in questo contesto diventa un po’ un problema: proprio ieri è nato tuo figlio, l’hai chiamato con un nome discutibile, ma in fondo sei un campione, te lo puoi permettere: per i compagni di classe sarà il-figlio-del-ciclista non quello-col-nome-strano. Ti sei portato la sua foto a spasso per 212 km, chissà dove, magari nelle mutande ché altrimenti ti scivolava via. Te la sei portata perché vuoi dedicargli una vittoria, e oggi ti senti bene. Già il più forte lo sei sempre, figurati oggi che c’è da festeggiare Santiago.

E cavolo, però hai promesso a quel Simoni, quello lì antipatico. Cioè, non proprio promesso, gli hai chiesto di aspettarti, di non provare a staccarti, di collaborare, che è un po’ la stessa cosa. Allora ti viene il colpo di genio. Sei un campione mica per nulla, mica hai solo le gambe, hai anche una gran testa e l’hai dimostrato altre volte. Così gli dici «senti Gilberto, c’è questa questione» lui intanto sbuffa, appena è finita la salita ha cominciato ad arrancare «mio figlio è nato proprio oggi, ci terrei tanto a vincere. Lo sai, è una cosa per tutta la mia famiglia, anche mia moglie, t’immagini quanto sarebbe contenta?». Lui, che non è mai stato uno simpatico – ma forse anche perché non ce la fa articolare tanto altro mentre pedala, stanco com’è, così evidentemente più di te – ti risponde soltanto «eh? e allora?», ma tu lo rassicuri «nono, Gilberto, non ti preoccupare, me lo ricordo che t’ho chiesto di aspettarmi, non lo farei mai…».

Sisì, lo so che lo sapete che; ma aspettate un attimo, seguite il racconto.

IB: «Senti, Gilberto, facciamo così, prendi ‘sta foto»
….
IB: «anzi, forse è meglio che te la metta io nella tasca qui dietro ché mi sa che non ce la fai neanche a staccare le mani dal manubrio»
GS: «uff, uff, sì?»
IB: «Qua, Gibo, te l’ho messa lì dietro accanto alla borraccia»
IB: «Ecco, ti dicevo, ora si va assieme, tu stammi dietro, ché sei piccoletto, e vedi che te lo copro io il vento, quasi come hai fatto tu in discesa. Così magari riesci pure a prendere qualche secondo a quello spagnolo dopato»
GS: «cavolo *pant* sì, *pant* Basso»
IB: «poi al traguardo mi fai questo favore, tagli tu per primo il traguardo, ma invece che come normale a braccia alzate, prendi la foto – ti ricordi, te l’ho messa lì dietro? – è quella di mio figlio, sì, prendi ‘sta foto e la alzi in aria, la fai vedere a tutti. Magari non gli fai vedere che sei così stanco, gli fai un gran bel sorriso, e io arrivo subito dietro di te…»
GS: «accidenti, sì, Ivan, certo che lo faccio, grazie»
IB: «ma no, figurati: anzi, se gliela dedichi tu è perfino più bello, pensa quando rivedrà il filmato da grande e saprà che papà era il più sportivo di tutti, e aveva tanti amici, perfino quel Gilberto Simoni che – te lo confesserò – non è che tu stia simpaticissimo a tutti, lo sai eh Gibo».
GS: «Umpf»

Telecronista: «Una bellissima pagina di ciclismo quest’oggi, sul traguardo dell’Aprica è Gilberto Simoni a tagliare il traguardo ghermendo (Bulbarelli potrebbe tranquillamente dirlo, NDR) la foto del neonato figlioletto di Ivan Basso, secondo quest’oggi dietro di lui, e Maglia Rosa di questo Giro d’Italia. La dedica di questa grande e bellissima vittoria va a Santiago Basso».

La storia racconta come finì la corsa. Invece.
Superata la discesa, dopo pochi chilometri di pianura, con una facilità disarmante Basso stacca Gilberto Simoni, che a fine gara e nei giorni seguenti gliene dirà di tutti e troppi colori.

Caro Ivan, quel giorno per me hai perso.

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Lunedì 6 ottobre

Una boccata d’aria – Diario dalla Palestina 78

banksy.jpg Quello che vedete non è un mirino, ma l’obiettivo di una macchina fotografica. Il gioco degli specchi – che rincorre a vista la mia foto sola – di questo giorno denso.

La vita è ciò che ti succede mentre sei occupato a fare altri programmi, bellissimo ragazzo.
La vita, per sua quotidianamente inopinata sincronia, non può essere fatalista.

Tanto che nel suo grumo, l’oggi, che doveva essere il più pianificato e il più lontano dall’efferatezza della guerra non combattuta ha scartato di lato, fuori dal binario, invertendo i due assunti.

C’era quella favola raccontatami dalla nonna un giorno che fu (lontano come sono i giorni dei racconti delle nonne) di lui che aveva scoperto la lampada magica: quella che gli permetteva di andare avanti nel tempo; e il martedì saltava alla domenica perché sapeva che il dì di festa sarebbe stato gaudente, pieno, bello.
E fu così (lei la faceva più lunga per la mia indefessa ostilità al sonno e alle fini) che arrivò a ottant’anni in un battibaleno, senza averla vissuta, la sua “modesta e timorata gioia di vivere”.

Ecco, oggi si è colorato di uno di quei giorni di vetro – fra martedì e domenica – quelli che non potevi strofinare prima, per cui è meglio lasciarla lì, la lampada.

Eppure è stata la giornata in cui ho fatto la traversata della rozza indifferenza all’ingiusto, nella pigra ferocia dei soldati di stanza a Hebron, nel tronfio disprezzo dei coloni di lì.
E poi una moglie tanto velata, tanto professionalmente impegnata a non stringere mani di sesso maschile, tanto più giovane del marito che avrebbe dovuto essere così laico, così tollerante, così ateo da essere chiamato Gevara, Che Guevara qui. E poi come moglie aveva scelto lei.

Y entonces vivió, de lo oscuro.

Il mio lago di Narciso. Con il vitale fastidio, dubitoso di me, che sarebbe stato il mio ad ascoltarmi la prima volta, a fare le stesse domande, a grattare il barile vuoto delle stesse risposte. Due miei altri occhi.
E per quei pregiudizî amici di una parte sola nemici della pace, quella grata e pudica indignazione di chi sa il mercimonio di questa parola, indignazione.
Dei tanti che preferiscono, testardi, un malinteso giusto, alla gioia lucente di chi ha il cuore in equilibrio, per una pace possibile; che non capiscono cosa è giusto, nondimeno ignorano che ciò che funziona, talvolta, è più giusto di ciò che è giusto.
Chi ama soltanto una classe sociale – figurata – può fare finta che no, ma chi vuole bene alle persone, ciascuna persona, deve fronteggiare la realtà e il possibile. Coi dubbi laceranti, pensarci: non urlare pensieri.

Era già stato un po’ così con lui, più divertito e meno attento. Ma forse quella volta avevo meno bisogno di una testa pensante, di una boccata d’aria.
Non ero ancora abbattuto dalla cecità di questo tipo d’assenza di speranza.
Vorrei incontrare un profeta passeggero, ogni qualche tempo, per sapere che va bene. Che ha uno spiraglio di senso quello che faccio.

Potreste, a buon titolo, dire «cosa ti aspettavi?», sapevi di chi ha il fucile e ha paura di chi non ce l’ha, e sapevi della desolazione di chi non ha la grazia di Dio di essere maschio anziano. Ma si è sempre pronti a sapere, non a vedere.
C’è dell’altro.

Mi disse, una persona con un bel terreno e poca voglia di lavorarlo, che chiedeva agli altri di abitare-la-sua-stanza-senza-mai-spostare-niente-senza-mai-fare-rumore. In passato mi aveva sempre contestato l’irruenza del mio prender gli altri per mano, leggendo il mio Diario aveva glossato con brute ma non tiepide parole. Mi scrisse:

Non so, credo potrei sciogliermi per la dolcezza delle cose che scrivi e per la tua ingombrante presenza sorridente nelle foto. Sarà che non mi sembra la stessa persona che ho (appena*) conosciuto (?).
a presto

*appena nel senso di “poco”

Risposi che

È sempre stato il mio modo di dedicarmi agli altri, irrispettoso, invasivo, ingombrante.

Non aggiunsi che parte dei motivi per cui ho lasciato l’Italia per un po’, sono i tanti «devo» orecchiati: è bello capire che qualcuno capisce quelle ultime tre voluminose parole, piuttosto.

Tornerò, perché ora sto partendo, o qui o a Jenin, fra un mese.
E quando avrò il cuore stanco aspetterò l’arrivo della prossima, nuova, boccata d’aria.

E anche se l’omosessualità fosse una scelta?

Quando si leggono notizie come queste, “padre accoltella figlio perché gay”, si parte sempre dal presupposto che l’omosessualità non sia una condizione sui cui l’interessato può speculare. Si dice sempre, per difendere una persona dall’orrore di non essere accettato, che “l’omosessualità non è una scelta”. Capisco l’utilità nell’affermarlo, capisco e condivido il salvifico principio della riduzione del danno; però bisognerebbe sempre pensarci – e magari dirlo – che la cosa è del tutto irrilevante: fosse anche una scelta, sarebbe opinabile quanto tutte le altre scelte, quindi quanto l’eterosessualità.

Perché sì, le discussioni su un livello filosofico un po’ più distaccato dal materialismo (assolutamente necessario) del sopruso quotidiano sono il campo d’inciampo della sinistra, se non c’è Dio a stabilire il Giusto, e non si accetta il relativismo bieco e fancazzista, bisogna trovare un nuovo appiglio che necessariamente non è evoluto. Spesso si ripiega sul diritto naturale, o più abborracciatamente su cosa ci sia in natura (senza spiegare perché quello che c’è in natura, annesse le peggiori crudeltà fra animali, dovrebbe essere giusto); si difende dall’accusa della contro-naturalità dei gay obiettatando che non sia “naturale” neanche il matrimonio, o che persino fra altri animali – scimmie in testa – l’omosessualità sia diffusa. Anche qui: foss’anche innaturale, embè?

Certo che – se non si mette in mezzo un Dio – non c’è nessun motivo Universalmente Giusto per nessuna cosa, quindi neanche per i diritti civili, per il riconoscimento delle coppie gay, etc. Ma portiamola alle proprie conseguenze questa argomentazione, quella per la quale Bagnasco ha – impeccabilmente – sovrapposto incesto e omosessualità, diciamo che non c’è nessun motivo Universalmente Giusto per non bruciare in piazza i gay, e staccar loro le braccia: e questo è – argomentativamente – un pizzico meno persuasivo, no? Ma soprattutto non c’è nessun motivo per non fare lo stesso con chi è eterosessuale. Non c’è nessuna ragione perché sia Giusto riconoscere il matrimonio etero, per dire.

Facciamola noi ‘sta scelta, decidiamo di essere partigiani, di stare dalla parte dei più deboli: faziosi delle minoranze. Non per il fascino romantico di quest’ultime da parte di un certo conservatorismo di destra e di sinistra (che poi guardacaso quando si parla di omosessuali in Iran se ne frega), ma perché la democrazia – e ancora di più tutte le altre forme di governo – ha l’aporia della dittatura di chi è maggioranza. E bisogna costantemente mettersi nei panni dell’altro, farne da costanti supervisori: armarsi, proprio armarsi di empatia. Perché il sano principio della libertà propria che finisce quando inizia quell’altrui è sempre scivoloso, ed è difficile stabilire quale sia il punto di valico: come un cattolico può dirsi offeso dall’esistenza di matrimonî gay, un Ayatollah può contestare – anche qui impeccabilmente – una donna non velata in quanto questo inficerebbe la propria libertà di non vederla e esserne offeso.

È lo stesso per l’inveterata abitudine del definire l’essere gay come pura normalità: come al solito l’intenzione è buona ma finisce per adombrare un concetto pericoloso, ovvero che chi non è normale vada bandito. Cercando di estendere abusivamente la definizione di normalità a qualunque cosa (il che, comunque, è una considerazione puramente statistica), non facciamo difetto a quelli che – giocoforza – ne rimarranno fuori? L’omosessualità non è normale? In qualche modo è vero. Ma se questo è il campo di discussione, neanche tifare per la Fiorentina a Roma è normale. E penso ci siano tante altre cose meno, normali, dell’amare una persona dello stesso sesso – anche nell’ambito dei gusti sessuali – cose che nessuno si sognerebbe di contestare.

Insomma qui si decide, con qualche licenza al bando, di non usare quelle stropicciate espressioni – come quella da cui sono partito secondo cui “l’omosessualità non è una scelta” – che, senza volerlo, insinuano un concetto da tregenda: cioè che l’omosessualità sia uno scempio della natura, ma in quanto tale vada accettata. Che non si può scegliere, è una menomazione, e che quindi bisogna accogliere cosa ti dà in sorte il destino. Che un figlio omosessuale è una disgrazia, ma una disgrazia ineluttabile. Spianiamo con la ruspa, questi assunti. Non permettiamo, neanche, le sinuosità.

Ah, ovviamente, ma questa non è né un’intuizione né una novità, la disgrazia è avere un padre simile.

Impara la storia

Oggi c’è stata la prima tappa vera. Ha vinto Bosisio. Di Luca, Piepoli, Riccò e Contador hanno guadagnato un minuto: ma tutto questo non conta.

Quello che conta è che quest’uomo qui è un grande:

di-spalla.JPGQuesto qui, proprio qui accanto, di spalla, oggi non ha vinto. Non è andato in fuga. Non ha fatto uno scatto. Non ha neanche forato né è caduto-e-ha-continuato-pervicacemente, le solite cose che piacciono tanto a noi sadici amanti del ciclismo, e masochisti amanti della fatica dell’andare in bicicletta.

Anzi, si è staccato. Anzi ancora, si è staccato più di una volta.

A dire la verità, oggi, Bettini non ha fatto neanche il capitano. Oggi, come qui accanto, ha fatto da spalla: ed è questo il punto. Per voi non sadomasochisti quella maglia lì, quella così semplice e così bella, quella così bianca eppure così colorata, è la maglia di campione del mondo. La vinci a settembre/ottobre, e la tieni tutto l’anno: è un po’ come l’iPhone o un link del Guardian per i blogger. Ce l’hai, è indiscutibile, sei arrivato primo e sei il più forte (anche se poi non sei il più forte – già negli scritti altrui). Tutti ti invidiano, e per quel periodo vali di più. Bettini non avrebbe bisogno di valere di più per valere di più, ma sta il fatto che ha vinto due volte il mondiale, una di quelle cose che riescono a pochi; ne avrei voluto scrivere, avevo iniziato a farlo quando ancora n’aveva vinto uno solo, poi ho smesso, chissà se un giorno…

Insomma, lui con questa maglia sul dorso è stato tutta la giornata davanti Visconti, che per una bella fuga è andato con astuzia e perizia e anche con un poco di furbizia (cit.) in maglia rosa. Tutti dicevano che oggi l’avrebbe persa, le prime salite vere (leggasi più lunghe di 5 km) Visconti non è uno che tiene. E infatti non ha tenuto, però ha tenuto la maglia. Invece di dieci minuti, ne ha persi due. E questo è – anche, in gran parte – merito del gregario Paolo Bettini.

A me Visconti sta simpatico, ha l’età mia (sono almeno un paio d’anni che ho deciso che non farò il calciatore, né il ciclista, né l’astronauta, quindi metto da parte l’invidia), è siciliano ed è andato a vivere in Toscana (la perfetta trafila dei poeti), dove ho passato parte della mia infanzia, fra l’altro: dicono che sia l’erede di Bettini, le caratteristiche ci sono, di chilometri e successi da battere ce ne sono tanti anch’essi. E poi è simpatico lui: l’urlo liberatorio che ha lanciato ieri quando Di Stefano gli ha detto che la maglia rosa era proprio sua, è il più bello spot per il ciclismo. Per la genuinità.

Oggi nella conferenza stampa ha encomiato il bicampione del mondo e ha spiegato che oltre alle gambe, alla fatica alla forza, gli è servita anche tutta la saggezza del suo capitano: la testa. Quella che spesso si dice che Bettini non abbia (salvo poi dare spettacolo nella peggiore ipotesi, far saltare il banco nelle altre). Non andare ora, aspetta. Dài, su ora. Forza.

Visconti ha aggiunto anche che il suo sogno – domani o poi – è «lanciarlo in una tappa, ma così lanciato, in modo che i giornalisti scrivano ‘l’ha fatto vincere Visconti’». Domani, effettivamente, potrebbe essere la tappa per Bettini che solitamente è sfortunato, e ultimamente più che solitamente: quindi domani più che sempre “forza Paolo Bettini!”.

Ah, Bettini è arrivato al traguardo con una trentina di secondi di ritardo su Visconti, perché alla fine – stremato dopo aver completato il lavoro da gregario – si è staccato. Gli hanno fatto chiesto del suo lavoro: «Che c’è? C’era Giovanni in maglia rosa, no?»

Altre parole? Quelle scritte su questo muro:

storia.JPG

Troppa poca vita davanti

Io invece l’ultimo film di Virzì l’ho visto. Non dico che nonostante tutto è fatto bene, perché sia dire «nonostante tutto» che dire è «fatto bene» è da esperti di cinema, cosa che non sono. In realtà anche il dire di non esserlo, è un po’ da esperti di cinema, ma la falsa modestia non alberga qui.

Dunque posso solo dire che valeva la pena vederlo – e non solo per non essere escluso dalle conversazioni di amici; che certe cose sono raccontate proprio come mi piace che siano (a me persino il narratore fuori campo è sempre piaciuto, fin dai Laureati di Pieraccioni), altre sono banalizzate a tal punto che in certi momenti mi sono domandato: «ma lo sta facendo apposta?», per poi controdomandarmi «perché dovrebbe?».

Cerco di fare un post senza spoiler, quindi per quanto riguarda la trama dico solo che il finale è un po’ troppo prevedibile (e io sono un che i finali li azzecca solamente nei film horror/thriller, o più propriamente nei pochi horror/thriller che ho visto).
Effettivamente alcune scene sembrano decisamente macchiettistiche, immaginare che esista una casa in cui durante un preteso ritrovo molto chic ci siano televisori (credo al plasma) in tutte le stanze, accesi e sintonizzati sul Grande Fratello, non per burla o auto-ironia, né come condizione straordinaria, ma dipingendo il fenomeno come la più ordinaria assurdità della società d’oggi, è da pregiudizio culturale de sinistra. È la mutuazione decenni dopo, del Berlinguer che-la-televisione-a-colori-è-capitalista. Cioè essere conservatori. Il male, appunto della sinistra attuale.

In più lo scenario è surreale ma viene presentato come fosse ovunque così: ha forse ragione Akille a dire che (in alcune) società gli incaricati alla motivazione sfiorino il ridicolo, quel ridicolo del «Ma dove andremo a finire?», ma è categoricamente impossibile che non ci siano dubbi o lamentele, che questo meccanismo così oleato salti soltanto quando qualcuna viene licenziata per poca produttività o per una plateale crisi di nervi. La vita ha molte più sfumatore, almeno la metà di quelle dipendenti troverebbe ridicolo fare un balletto prima di entrare a lavorare (forse lo farebbe, per conformismo, ma lo troverebbe uno dei prezzi da pagare di quel tipo di lavoro).

È caricaturale presentare invidie sotanto fra le due migliori centraliniste del mese, e non se ne intravvedano nel maremagno delle altre ragazze la cui unica aspirazione sembra quella di essere premiate come dipendenti del mese. Una folla di persone che si lancia ad abbracciare la ragazza che ha vinto un portachiavi (sic!), ancora, non perché sotto al gioco psicologico, ma per pura spinta d’animo, beh è assolutamente inverosimile.

E poi l’ossessione del Grande Fratello: ho sentito Virzì a Condor raccontare di un giornalista con la puzza sotto al naso che gli avrebbe cercato di estirpare qualche censura del fenomeno reality, rimanendone deluso. Ecco, io avendo pur ascoltato le parole del regista mi trovo nella paradossale condizione di legittimare la domanda del giornalista. Anche qui, poi, tutto sempre esasperato, finto: io mi son trovato a contatto con ambienti ancor più abbrutiti di un pullman di centraliniste, e non mi è mai capitato di avere a che fare con una ventina di persone che dicano in coro «Non guardi il grande fratello…?!?», dopo averne parlato ininterrottamente per qualche minuto. Mi sembra una di quelle descrizioni dei ggiòvani d’oggi che si trovano sugli inserti dei quotidiani, oppure Bruno Vespa che parla dei blog: ehi, il mondo non è questo. Le persone sono più varie, la vita è più varia, c’è chi va a mangiare ad Ariccia e suona la chitarra, la ggente (così affine ai ‘ggiovani’) non è lo stereotipo immaginato dallo stereotipo dell’intellettuale radical-chic con una vista così miope da non arrivare a vedere il mondo: c’è tanta altra vita davanti.

Ovviamente da supercriticone quale sono ho parlato prevalentemente dei lati negativi, lascio quindi al voto che ho dato di riequilibrare questo commento venutomi fuori così ingeneroso:
Voto 6.5 con freccia in sù. Sono un classificatore (oltre che un ortografo vezzoso).

Sinceramente di sinistra

silvio_berlusconi.jpgA me tutto questo giubilo per la pretesa ammissione di incapacità da parte di Berlusconi genera un po’ di imbarazzo: nessuno è stato colto in castagna, non si tratta di dichiarazioni strappate. Sono parole di Berlusconi in un’occasione pubblica.

Il capo dello schieramento avverso – come lo chiama Veltroni – ha sempre dimostrato di essere molto più in grado della sinistra di fare una cosa molto di sinistra, ovvero quella di non prendere l’etichetta alla lettera. Se alle volte il suo fare marpionesco, e la trivialità del personaggio hanno connotato negativamente questo tipo di uscite, non bisogna confondere la forma con il contenuto: delle altre volte la sostanza è stata all’altezza e per nulla mal calibrata. Come in questo caso o come quando disse che «L’Islam è indietro di qualche secolo» (ehi, ma un capo di governo non lo può dire!), parlando certo semplicisticamente, ma dando voce a un pensiero che ognuno sa essere fondato.

Come già scrissi, trovo il concetto di ‘opportunità’ molto instabile: figlio di una concezione della politica nascosta sotto il tappeto. Dei vizi privati e delle pubbliche virtù.
È chiaro, niente di quello che dico va estremizzato, ma se dovessi giudicare soltanto da questa vicenda e da queste dichiarazioni, avrei l’impressione – davvero, come titola Sofri – che Berlusconi sia l’unico sincero (oppure qualcuno dubita che Prodi, per dirne uno, abbia maggiore dimestichezza con la rete?). E temo che questa sia proprio l’impressione che – una volta di più – ha dato il ‘nostro’ aitante candidato.

P.s. Ovviamente non ho dubbi nella malafede di Berlusconi, convinto come sono, che se Veltroni facesse una dicharazione simile, il Cav. sarebbe pronto ad azzannarlo sotto al collo, citandola in ogni occasione. Ma questo conta poco, tantopiù che discettare sulla buona o la cattiva fede, non è esercizio da elettore, ma da amico (o da prete).

La storia siamo noi

postato su Pennarossa

Oggi, mentre ero in auto, ho visto – non visto – un signore avvicinarsi circospetto a uno dei cartelloni elettorali di Alemanno ad altezza uomo (di fronte alla metro Ottaviano), tirare fuori un pennarellone nero dalla tasca, guardarsi intorno, e disegnare al candidato del PDL i baffetti à la Hitler.

Valeria, con spirito più pronto del mio assonnato, è subito scesa dalla macchina dirigendosi verso di lui e il cartellone. Io l’ho seguita.Volevo far luce sulle motivazioni dello sfregio: era mandato da qualcuno (e semmai da chi?) o lo faceva per privato senso d’appartenenza?. Oppure perché era in pensione e non aveva nulla da fare.
Perché gli stava antipatico Alemanno (o perché gli stava simpatico?)? E i motivi erano personali, oppure l’avrebbe fatto con qualunque dei “loro”. Che poi c’era sempre da capire chi fossero, per lui, i “noi”. E per ogni partito che pensavo, mi veniva in mente un bagaglio di motivazioni credibile: da Ferrando a Storace.

Non ce l’abbiamo fatta, perché appena si è reso conto che la macchina parcheggiata lì davanti conteneva in effetti delle persone, si è allontanato con passo svelto: così non gli ho potuto chiedere quale atavico rimestamento lo stesse spingendo a un gesto che credevo solo uno stereotipo. Che nessuno faceva ancora, e se c’era qualcuno era impossibile incontrarlo; come quelli che scrivono “Amo Costanza, ma senza speranza” sui ponti, sai che esistono, ma non sai come fanno. E ti convinci che sono scritte che resistono lì da vent’anni (e comunque vent’anni fa come hanno fatto?), e che ora non si fanno più. E invece sembra di no.

In pieno centro a Roma, nell’ora di punta, solamente lontano dagli sguardi: c’è ancora qualcuno capace di adoperarsi in una protesta così d’antan. E soprattutto, c’è ancora qualcuno che usa l’espressione “d’antan”. Evidentemente sì.

Alemanno Hitler

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Comunque non ho ancora capito se il signore mi è stato simpatico, ma penso di sì.

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Fare tredici all’anagrafe

Esperti internettari mi suggeriscono di mettere un disclaimer: l’articolo è lungo. Ma non è solo colpa mia, per raccontare questa storia bisognava necessariamente partire dall’inizio, anzi… dalla nascita.

Fare tredici all’anagrafe /postato su Pennarossaoatway.JPG
Ho sempre pensato che il senso calcio fosse racchiuso in due immagini che – da abitante della capitale – vidi in giovanissima gioventù.
Il ferramenta del quartiere, sfegatato laziale, che espone un bandierone della Roma all’entrata del negozio con la didascalia “le scommesse si pagano”. Lazio – Roma era finita dodici ore prima, e ovviamente aveva vinto la Roma; uguale e contraria sorte sarebbe capitata al dirimpettaio (e romanistissimo) barista, se all’Olimpico le cose fossero andate diversamente.
Anche per questo, da tifoso viola, ho sempre conservato una poco celata invidia per chi è attore di una stracittadina.

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Rispondere in coscienza

jiminey-cricket-722558.jpgLeggere questa ulteriore stroncatura di Beppe Grillo mi ha fatto venire alla mente alcune riflessioni collaterali, che metto qui in piazza: nel constatare e nell’avere sempre nuove prove che Grillo sia uno di loro, ovvero un fenomeno finto, che tradisce la buona fede dei suoi fan (non sempre, buona fede), proviamo una sinuosa linea di piacere.

A ogni intervista rifiutata, rivelazione sui fini di lucro del suo blog, mancata risposta a civili obiezioni, autoriduzione a luogo comune, palesamento della sua indole reazionaria, o – appunto – dimostrazione della sua plastica strategia dell’isolamento, oltrepassiamo spesso la giusta considerazione che un vaffanculo non sia la risposta, andando a strusciare pericolosamente l’idea che gli altri “sono tutti uguali”, anche i sedicenti campioni dell’Italia pulita.

Parlo per me principalmente, ma parlo anche al plurale, perché mi sembra di aver intravisto un atteggiamento simile in molti di coloro che mi hanno manifestato le stesse perplessità nei riguardi del comico genovese, e con cui è come se avessi fatto schieramento (ecco, appunto).
Per continuare a cambiare qualcosa, e fare sì che non ci siano campioni dell’Italia pulita, ma un’Italia pulita e basta, bisognerebbe anche – oltre a molto e ben altro, certo – toglierci queste pigrizie ideologiche.
Probabilmente ho sbagliato quando ho detto che delle volte bisogna armarsi della stessa dietrologia, per smascherarlo.

Che importa se non è Beppe Grillo a scrivere il suo blog, ma un’azienda? Che importa se la Casaleggio Associati fa del tandem Grillo-Di Pietro una chiara macchina del profitto? E che importa se Beppe Grillo ha la sua condanna per omicidio colposo, e vagheggia di fedina penale linda?

Questi sono argomenti melliflui, più propriamente non sono argomenti, non è sostanza. Sono obiezioni che, da una parte stuzzicano quell’insano moto alla compiacenza laddove gli altri siano peggiori di noi, e dall’altra sembrano darci un credito di onestà da spendere per continuare a essere un po’ migliori degli altri, accontentandoci di questo.

È come se facessimo i Beppe Grillo con Beppe Grillo, o in altre parole i Beppe Grillo con noi stessi.