Sabato 17 gennaio

Onore al sofferente amico del popolo – Diario dalla Palestina 137

Tutti coloro a cui racontano l’assurdità di quello che mi è successo, qui in Palestina, mi cospargono di una solidarietà – sicuramente eccessiva, ma sentita – che mi mette in imbarazzo. Tantopiù che più d’uno mi ha indirizzato frasi come «ora puoi capire davvero la sofferenza del popolo palestinese» o «è questo che succede al nostro popolo». Per una bici. Ed è una situazione molto paricolare, perché io non penso che le cose – e soprattutto le sofferenze – si capiscano dal di dentro, anzi spesso si capiscono peggio. Pochissime volte la vittima di un’angheria ha il cuore libero. E in più ho una diffidenza della parola “popolo”, quasi quanto della parola “onore”.

Il tutto è reso ancora più fastidioso dalla consapevolezza che se al posto mio ci fosse stato un palestinese, quei soldati, quei poliziotti, pur nello stesso torto avrebbero trattato molto peggio** il possessore della bicicletta. Così mi trovo a far parte di una cosa di cui trovo distorcente far parte (la vittima), di cui trovo sbagliato far parte (il popolo), e di cui comunque non faccio parte (la discriminazione), e tutto questo nella più cerimoniosa, ma affettuosa e onesta, buona fede. Mi sento viscido.

**Questo è quello che tanti scudieri d’Israele per pregiudizio non accettano, che ci siano delle discriminazioni che vanno al di là delle leggi e cioè discriminazioni d’atteggiamento; che sono naturalmente (endemicamente) meno peggio di quelle legalizzate, ma pur sempre vive, presenti e pestifere. Israele è lo stato per gli ebrei, non degli ebrei. È una differenza rilevante oltre che visibile.

Venerdì 16 gennaio

Lost & found – Diario dalla Palestina 136

A testimonianza dell’assurdità della storia della bicicletta bomba, ieri abbiamo passato metà pomeriggio con i bambini a fare un indovinello su cosa fosse successo alla bicicletta, e ci hanno messo veramente tantissimo per indovinarlo. Quando ho rivelato l’arcano e ho fatto vedere loro le foto, sono andati a raccontarlo ai loro genitori, e i loro genitori gli hanno detto “no, ti stava prendendo in giro, è uno scherzo: non è mica possibile”.

Intanto ho perso una bici ma ho guadagnato un negoziante di fiducia, l’altro giorno mi aveva dato 10 shekel di resto in più, e io gli avevo detto “la, la”, no-no, lui aveva fatto la faccia incazzosa pensando che mettessi in dubbio la sua onestà, e quando ha visto che invece gli stavo dando indietro i dieci shekel si è illuminato. Ci sono tornato ieri, e mi ha trattato con una gentilezza incredibile.

LA BICICLETTA BOMBA

SUICIDE BICYCLE – Diario dalla Palestina 135

Preparatevi ad ascoltare la storia più assurda del mondo. Più assurda dell’incidente con il matto + incontro con sanità palestinese? Peggio, molto peggio. Calmi. Tranquilli. Ben adagiati sulla sedia.

Ora lo sto scrivendo, domani lo pubblicherò: ho paura di non crederci più, domani, da quanto è incredibile.

Antecedenti: i miei giorni liberi sono il lunedì e il mercoledì, che sono i giorni in cui non lavoro con i bambini, l’insegnamento dell’italiano non l’ho ancora ricominciato, né ho cominciato il monitoraggio ai check-point. Quindi o di lunedì o di mercoledì, spesso, vado a Gerusalemme. A fare compere, a fare un giro, a prendermi una birra (che a Betlemme è più difficile trovare).

Ho una bici. Avevo una bici. Questa bici multa per aequora è il mio mezzo in Palestina. Ed è anche stata protagonista di varî aneddoti, ma questo supera qualunque cosa: altro che aequora!

Quando vado a Gerusalemme vado con la bicicletta. O meglio, d’estate andavo in bici, ora è troppo freddo, e allora mi faccio quel paio di chilometri che separano casa mia dal check-point in bici, supero il check-point e lego la bici in fondo a una discesetta. Ho chiesto un paio di volte ai soldati dove metterla, una volta mi hanno detto «dove vuoi», un’altra mi hanno detto «lì», indicando una specie di ringhiera. Così è lì che la lego sempre. Faccio così perché superare il check-point in bicicletta anziché a piedi è molto più facile, quando c’è fila. Certo, le macchine impiegano molto più tempo a essere controllate, però quando sei in bici non fanno nessuna perquisizione cosicché posso passare avanti a tutti senza arrecar loro nessun danno, faccio vedere il documento ai soldati, loro di solito manco mi guardano, e delle volte non devo neanche fermarmi. Passarlo a piedi invece è molto più complesso, varî metal detector, e se c’è fila bisogna aspettare.

***

Stasera tornavo a Betlemme dopo la giornata a Gerusalemme, e arrivato a un mezzo chilometro dal check-point vedo una fila bella lunga. E lo spiazzo di fronte al parcheggio completamente libero. Fanno così quando pensano ci sia una bomba. Mi era già capitato una volta in autostrada, si aspetta, e poi si riparte.
Però con me ho la mia macchina fotografica, e decido di scendere per vedere quel che succede, e fare un po’ di foto da lontano (perché i soldati non sono mai contenti che li si fotografi): chissà, mi dico, magari interessa a qualcuno dei miei amici vedere cosa fanno quando pensano ci sia una bomba.

Questo è lo scenario che mi si presenta. Ancora non so a cosa sto andando incontro:

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Mi avvicino e vedo dei mezzi militari che non ho mai visto in vita mia, uno è un antimine, si riconosce da degli aggeggi che ha sopra, altri non so. Così mi avvicino, penso: accidenti dovrò aspettare, non posso neanche fare il giro lungo da Beit Jalla perché la mia bici è nella zona bloccata. Così mi avvicino.

Mi avvicino ancora, ora sono quasi al bordo del cordone di polizia dove i curiosi si affacciano, e vedo una cosa stranissima, incredibilmente simile ai robottini che si vedevano in certi cartoni animati; questo robottino sta attorno a un oggetto metallico, in mezzo alla strada, con delle cose che sembrano braccia (poi scoprirò essere bocche di fuoco). In quel momento cerco con gli occhi, in lontananza, la mia bicicletta. Non c’è. Volto lo sguardo di quel poco per focalizzare sull’oggetto metallico e: «oddio… quella è LA MIA BICI!!!».

Per un attimo penso: “Che ho fatto?”. Un dubbio di colpevolezza che potrebbe venire solo in questa maledetta situazione fra israeliani e palestinesi, ché qualunque cosa tu faccia potrebbe essere sbagliata, e tanto basta per farti stare sempre sulle spine: avrò fatto qualcosa di male? Qualcosa che non si può?

Poi penso che no, non c’è nulla che abbia fatto di male, nulla che non abbia fatto le altre volte. No, non era oggi che mi era caduta una penna dalla tasca alla sbarra del check-point. Non era oggi che sono passato e quella al check-point m’ha richiamato per un altro controllo. Ripeto a tutti i soldati che mi dicono «non puoi passare», «that is my bicycle!!!», tutti hanno una faccia stupitissima, e mi lasciano passare. Intanto che mi avvicino alla bicicletta penso: ecco, è la volta buona che qualcuno ha cercato di rubarmela, so che tutti i lucchetti sono “rompibili”, con del tempo da perdere. Ho sempre questa paura quando torno dalla mia bici, di non trovarla più. Mi succede anche con il motorino, a Roma. Eppure non mi hanno mai rubato né la bici, né il motorino. Penso: qualcuno avrà provato a rubarla, sarà arrivato un soldato e quello è scappato. Poi pensando chissà che cosa fosse hanno fatto dei controlli.

Sono sulla bicicletta. I soldati intorno a me non dicono nulla. La vedo, la tiro su, dal mezzo della strada, e mi prende un colpo: la vedo perforata di proiettili. E vedo i proiettili per terra. A quel punto, in un attimo penso davvero di tutto: penso al tassista con cui mi sono lasciato a male parole qualche settimana fa – mia sorella mi aveva domandato «ma non hai paura che si ricordi di te?». Penso a qualunque cosa.

Riappoggio la bici dove stava prima, voglio chiedere ai soldati se hanno visto il lad… in quel momento faccio due più due, vedo la bici, vedo i proiettili per terra, vedo quel robottino che cammina in mezzo alla strada, mi volto verso quello che capirò essere della squadra anti-bombe e con una faccia che doveva essere sconvolta, a mani congiunte, esclamo: «what have you done?!?». Quello mi guarda, non parla inglese, forse è russo, dice solo: “security”.

Questo è l’aspetto che ha la bici quando la riappoggio alla ringhiera: il cerchione è divelto, e la ruota davanti ha un buco largo metà spessore, quello dietro sembra solo scheggiato in punta ma la camera d’aria dentro è come se non ci fosse più. Il telaio ha tre buchi di una larghezza incredibile per dei proiettili, e sembra bucato come fosse gomma. Il lucchetto, mi avevano assicurato fosse resistentissimo, è completamente scardinato (dovevo inventarmi che chi me l’ha venduto abbia detto “resiste anche all’esercito israeliano”, no?):

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Queste sono i bossoli dei colpi che raccolgo da per terra, mi domando come un coso del genere possa fare tanto, ma suppongo sia normale:

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Tutti quelli che arrivano lì fanno quelli molto incazzati, quando gli dico che un loro collega mi ha detto che la potevo mettere lì, che se lo vedo in faccia so dir loro qual è, che è da quest’estate che metto la bici lì una volta a settimana, si zittiscono e l’unica cosa che riescono a dire è “security”.

La cosa assurda è che la bici non era vicino al check-point, cioè era oltre il parcheggio delle macchine (e mi pare più probabile, o almeno più provata una “autobomba” che una “bicicletta bomba”).

Gli dico che sono completamente matti, e ora che cosa faccio con questa bici? È completamente inutilizzabile. Il tipo russo dell’antimine, sembra Homer Simpson bianco bianco, mi dice che non mi devo preoccupare che mi ridaranno i soldi.

Così mi danno questo foglio, scritto solo in ebraico e in arabo e compilato in ebraico dicendomi che devo portarlo in un posto a Gerusalemme, per farmi ridare i soldi. Un modulo tipo standard, in carta copiativa gialla: certo non è da tutti i giorni avere un modulo dell’antiterrorismo.

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C’era poco più in là un soldato che avevo visto un paio di volte, lui mi dice “you can dream”, cioè i soldi te li sogni. Io sono veramente curioso di questa cosa, perché potrebbe essere un buon esempio di come funzionino le cose in Israele. Sono pazzi scatenati con la sicurezza (e per molti versi è comprensibile) e sanno di esserlo, o sono pazzi e non se ne rendono conto? Perché ho avuto racconti in tutti i sensi, cioè persone a cui l’esercito ha detto “per ragioni di sicurezza ti dobbiamo tirare giù la casa, porta fuori la tua roba”, ma poi gli hanno dato il doppio dei soldi, oppure altre volte che se ne sono proprio fregati dicendo solamente “security”.

Certo, si trattasse di una macchina sarei più in pensiero per i soldi, ma così sono proprio curioso di sapere se mi ridaranno ‘sti soldi. Se me li dànno devo organizzare qualcosa, magari una cena offerta con quei soldi solo a chi raggiungerà il risorante in bici. Vi terrò informati.

È finita che ho saputo che avevano chiuso il check-point e tenuto la gente bloccata in fila per due ore (DUE ORE!) dopo che la bici era lì da forse 8 (quindi per 6 ore non aveva costituito un pericolo, poi sì). E non era stata un pericolo tutti gli altri lunedì/mercoledì in cui ero andato a Gerusalemme/Tel Aviv/etc e l’avevo lasciata esattamente nello stesso posto.

L’unica ipotesi che ho fatto è che sia passato di lì un grande capo della sicurezza, e qualcuno animato da uno zelo diverso da quello da quest’estate a qui ha pensato furbescamente: “Facciamogli vedere come siamo efficienti”. Magari mancavano i soldati che mi avranno visto passare mille volte, e così hanno chiamato tutto l’ambaradàn.

Il tassista che mi riaccompagna a casa, con la bicicletta nel bagagliaio (la mia nemesi, proprio ieri facevo ironia sul fatto che i tassisti si fermassero per me anche quando ero in bici: cosa pensano che voglia montare sul taxi con la bici? Ecco, me lo merito), mi ha detto che oggi devo andarlo a raccontare alla TV palestinese.

p.s. Mi è venuto in mente il colmo di tutto ciò: chi mi ha dato la bici, me l’ha data con una catena incastrata sul manubrio perché aveva perso la chiave: è ancora lì, perché non ho mai trovato come toglierla, e me ne ero comprata un’altra. Una volta avevo chiesto a un soldato se potevano tagliarla loro e questo soldato mi aveva risposto: «non abbiamo niente per farlo».

Mercoledì 14 gennaio

Speriamo questa guerra finisca, anche per questo – Diario dalla Palestina 134

È da ieri sera, quando è successo, che mi sto domandando se sia peggiore il fatto che due miei amici palestinesi – per altri versi molto per bene – esultassero al video mostrato da Al Jazeera della morte di un soldato israeliano, se invece sia peggiore il loro “certo” quando gliene ho chiesto conto, o se infine sia peggiore il pensiero di coloro che li giustificherebbero perché è-ovvio-che-eccetera trattandoli come una colonia batterica.

Tutte e tre le cose mi suscitano una costernazione di un genere molto affine a quella che sento, quando vedo le morti dei bambini di Gaza, sebbene queste ultime – purtroppo – non siano solo nella mia testa.

Quando i bambini hanno capito tutto

Le norme che regolano gli spostamenti in Israele e nei Territori Occupati sono estremamente complesse, c’è sempre una diversa fattispecie, un’eccezione non contemplata. Per fortuna delle volte questi pericolanti compromessi servono a districarsi fra le mille ragioni di sicurezza vere o presunte. Come nel caso di Karimi, un ragazzo che studia al lycée française di Gerusalemme. Far studiare i propri figli alla scuola francese è un modo per dar loro una via di fuga, e magari ottenere il visto per la Francia. Lui però vive a Betlemme, e ha il “documento verde”, quindi non può mettere piede in Israele. Così si è stabilito che quella scuola, in realtà un convento affittato all’ambasciata francese, viene considerato territorio francese. E persino il pulmino che lo va a prendere, gli fa passare il check-point e lo porta a scuola è ufficiosamente riconosciuto come suolo transalpino. In teoria Karimi, nei 10 chilometri che separano Betlemme da Gerusalemme, non potrebbe scendere per fare pipì: ma questo è lo stratagemma ingegnato per permettere a tutti di fare il proprio dovere, anche ai soldati al check-point.

Come in tutte le scuole francesi sparse per il mondo, non si insegna solo il francese, ma anche l’arabo e (facoltativo) l’ebraico, quali lingue locali. E certe volte sembrano essere i bambini ad aver capito tutto delle contraddizioni di questo conflitto: una maestra di francese mi ha raccontato di un bambino, figlio di due arabi-israeliani, che non sopporta l’insegnante d’arabo. Per quanto quella sia la lingua madre di entrambi i genitori, e l’unica lingua parlata in casa. L’altro giorno è andato dall’insegnante in questione e gli ha detto: «Ho deciso che non devo più fare arabo». Allora il maestro gli ha chiesto: «E perché..?» E lui, inventando di sana pianta: «Perché mio padre è ebreo, e mia madre francese».

[Unità, ieri]

Martedì 13 gennaio

‘zo vuoi? – Diario dalla Palestina 133

Qui in Palestina, per le ragioni più volte spiegate, non sono proprio abituati alle bici in strada quindi tutta la segnaletica – che chi è abituato ad andare in bici conosce – non viene compresa. Neanche la più intuitiva. E poi succede che qui non ci siano veri e propri mezzi pubblici, ma macchinoni lunghi lunghi adibiti a taxi collettivi, e almeno il 30% dei mezzi che girano sono taxi o Service, che sarebbero questi altri. Così capita che quando io indico a quello dietro a me che sto per girare a sinistra, se sull’altra corsia passa un taxi o un service (cosa abbastanza comune), il conducente non capisce che gli sto indicando una mia svolta, ma pensa, dal gesto con l’indice puntato, che io stia cercando di fermare il taxi.

Mi è capitato più volte che quelli, vedendomi in bici, mi facessero una faccia come dire “ma che vuole questo? Montare con la bici sul taxi?”.

Suonare l’arpa

(roba che avevo preparato, riscritto – che magari in qualche forma avete già letto – poi non è servita, quindi la metto qui)

A Roma, fra i quartieri male, si dice «suonare l’arpa» per intendere rubare: basta provare con la mano a mimare il gesto del suonare le corde dell’arpa, per capirne il perché.

Un vero suonatore d’arpa, invece, non l’avevo mai visto: è capitato a Gerusalemme. Attirato da una musica simile a un carillon intento a suonare l’inflazionato Canone in re maggiore di Pachelbel, sono sbucato su Ben Yehuda che è un po’ il centro della parte ovest della città, quella ebraica, ma anche quella più occidentalizzata. Da più vicino il carillon si è rivelato essere uno di quegli strumenti da dei dell’Olimpo con tanto di suonatrice in carne e ossa.

A giudicare dall’abbigliamento e da altri particolari direi che vivesse di quella musica, e dell’elemosina che gliene derivava. Quasi tutti quelli che passavano lasciavano qualcosa, colpiti dalla regalità dell’arpa e di chi la suonava: c’erano vari gruppi di ragazzi seduti ad ascoltare, come non mi ricordavo d’avere mai visto per un musicista di strada.

Poi sono passato davanti a un suonatore di violino che rientrava molto di più nel cliché del Juif Errant – c’era quel famoso indovinello Yiddish: perché i violinisti sono tutti ebrei? Beh, prova tu a scappare con un pianoforte sulle spalle!

Così gli sono passato davanti, e a lui che non aveva colpito la mia fantasia, non ho lasciato soldi. Poi, però, mi sono sentito in colpa di questa disparità di trattamento.

Mi sto ancora domandando se gli altri spettatori improvvisati abbiano avuto la mia stessa percezione: visto che avevano lasciato qualche moneta a lei dovevano lasciarla anche a lui, o – al contrario – avendo lasciato qualcosa a lei avevano consumato la propria buona azione così da non sentire il bisogno di lasciare qualche spicciolo anche a lui?

Insomma, mi sono chiesto: la suonatrice d’arpa, rispetto al violinista, avrà «suonato l’arpa»?

Lunedì 12 gennaio

Dài, che la vita è bella – Diario dalla Palestina 132

Grazie al bel regalo dei miei nonni, abbiamo potuto iniziare a vedere dei film insieme ai bambini. In giro per la rete si trovano i sottotitoli in arabo, così non c’è neanche bisogno di passare dall’inglese. I bambini si sono appassionati a Benigni, cosa che mi ha sorpreso un poco, ma sicuramente fatto felice (già immagino il vostro strale: io lo considero l’unica persona veramente innamorata al mondo, pensate un po’). Abbiamo visto la Tigre e la neve, e la Vita e bella. Il primo è stato molto divertente, e i bimbi volevano farmi da interpreti nelle parti in cui si parlava in arabo, è stato delizioso (se vi ricordate il film è ambientato durante la guerra in Iraq). La Vita è bella, invece, è tutta un’altra cosa. Da non esperto di cinema quale sono, quindi solo apprezzandone il godimento, lo considero il più bel film che c’è. Merita un capitolo a sé stante il fatto che il film affrontasse il tema dell’Olocausto, con bambini che non ne sapevano nulla, e che sono educati a odiare gli ebrei fin da bambini. Avevo qualche remora al proposito, ma ho trovato in Ahlam un’insperata molla propulsiva: abbiamo visto la prima parte assieme, e poi la seconda parte l’ha valutata lei prima di farla vedere ai bambini, e il suo responso è stato – dobbiamo farlo vedere ai bambini. Però che Hitler ammazzasse anche gli omosessuali non l’ha voluto dire, lei stessa ha scoperto dell’esistenza dell’omosessualità alle porte dei trent’anni.

L’iniziativa, comunque non è piaciuta soltanto ai bambini, anche Mahdi – il fratello di Ahlam, che la viene a prendere ogni sera perché lei non può camminare da sola per strada – è venuto un po’ in anticipo per partecipare alla visione:

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E poi c’è stata la volta successiva, in cui dovevamo vedere la seconda parte della Vita è Bella, ma Lana, Ghaida, Rowan, Mohammed, Roa, Marah, Tina e Nasri l’avevano già vista, mentre Jaber no. Quindi abbiamo messo Jaber da solo a vedere la prima parte, continuando le nostre attività nell’altra stanza. Ma non c’è stato verso: Lana, Ghaida, Rowan e Mohammed volevano a tutti i costi rivedere anche la prima parte:

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Così non abbiamo potuto far altro… che arrenderci alle cause di forza maggiore:

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E questa? Beh, hanno voluto rivedere la scena finale, e uno di loro – non ricordo neanche più chi – ha preso la macchina fotografica, e gli ha fatto una foto. Eccola qui:

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Domenica 11 gennaio

Una piccola confessione – Diario dalla Palestina 131

La mia casa, attualmente, è una bella casa. Grande, troppo grande. Abbastanza vicina al Centro di Amal, e abbastanza lontana dal centro di Betlemme (sapete che anche in arabo si usa la parola markez per entrambi i significati di “centro” in italiano?). Qualche perdita d’acqua rintuzzata, ma nulla di che. La cosa peggiore è che la casa è in effetti molto fredda, perché qui in Palestina il riscaldamento non l’ho mai visto. Si va con le stufe elettriche, ma quelle consumano un sacco e – come dice una voce saggia – “non ti riscaldano se non ti ci siedi sopra”. In ogni caso a casa ci sto poco, e quindi poco male.

La casa è così grande, e tutta per me, perché il proprietario la vorrebbe affittare a due persone (in effetti ci sono due stanze da letto), ma è da quando sono qui che non trova un altro affittuario, quindi me la godo tutta io pagando metà affitto, cioè perfino un po’ meno di quello che pagavo nella casa precedente che era un buco. In questa casa posso ospitare chi mi viene a trovare senza alcun problema – se non per il freddo – ma il mio programma era, dalla seconda metà di gennaio, di andare a vivere in un campo profughi.

Un’esperienza che volevo provare e che – ovviamente – avrebbe comportato qualche scomodità in più, specie per l’ambiente attorno: ecco, oggi mi ha chiamato la persona con la quale mi ero messo d’accordo e mi ha chiesto se – per favore – potevo rinunciare perché c’erano delle persone che avevano veramente bisogno di quella casa (mi ha parlato di Gaza, in qualche modo, ma credo fosse un pretesto). Che ovviamente se avessi insistito, l’avrei presa io, ma che a queste persone serviva veramente.

Ecco, devo dire che – alla fine, in fondo – un po’ sono stato contento di rinunciare. Le ho detto di farmelo presente qualora trovasse un’altra casa, e di tenerci comunque in contatto, ma …insomma – nonostante un ragionamento serio che si era concluso con un “è un’esperienza davvero interessante: per un periodo ne vale la pena” – ho tradito una buona parte di me a essere attaccata alla pigrizia delle mie comodità.

La donna è mobile

(roba che avevo preparato, riscritto – che magari in qualche forma avete già letto – poi non è servita, quindi la metto qui)

Fare volontariato in Palestina attira troppi encomi; così – per sfatare questa nomea di essere tanto buono – racconto sempre di quando vado in bici.

Tutti mi guardano strano perché qui la bicicletta è usata soltanto da bambini e ragazzetti. Ahlam, l’educatrice palestinese che lavora con me, mi ha raccontato che a 13 anni il padre le ha tolto la bici dicendole che non era più il momento di giocare, e che ora doveva essere una donna. In cambio ha avuto un velo con cui coprire collo e capelli. Altri amici betlemiti mi hanno spiegato un altro problema: «se vai in bici significa che non hai soldi per permetterti di meglio, e qui la tua immagine sociale è decisa da ciò che mostri».

Per me, invece, la bicicletta è un mezzo molto comodo – e, appunto, economico – per andare da un capo all’altro della città: Betlemme è piccola; tanto piccola che oramai tutti mi conoscono come quello-della-bici, e chi ha preso confidenza mi chiede «ma perché vai ancora in bicletta?».

Invece di bambini in bici se ne incontrano tanti, in pieno centro o nel bel mezzo del mercato: non so il perché, ma si divertono a terrorizzare i turisti puntandoli e scartando all’ultimo, cosicché i poveri malcapitati si prendano un colpo. Perciò ho perfidamente deciso di prendere contromisure.

Essendo abituato a girare in bici anche in Italia, ho una certa maneggevolezza con il mezzo: così quando fanno per puntarmi contro, io acquisto una faccia ferma e risoluta, quasi da killer, e urlo in italiano qualcosa di insensato: «la donna è mobile!», «qual piume al vento!», «sopra la panca!», facendo finta di essere io il primo a mirarli. Va a finire che sono sempre loro a sterzare, e quando mi giro e li saluto in arabo vedo che si sono presi un bel colpo, ma – forse per lo scampato pericolo – non sono mica arrabbiati: anzi, un paio di volte m’hanno persino chiesto di rifarlo!