Lunedì 2 febbraio

Pulizie – Diario dalla Palestina 156

Il modo di fare le pulizie, qui in Palestina, è particolare: si buttano dei grandi secchi d’acqua per terra, e poi si gioca a buttare l’acqua dentro le fessure. Metteteci i bambini, un bambino un po’ cresciuto, e un’educatrice disperata, e il risultato è questo:

pict0029.JPG

Questo:

pict0034.JPG

Ma soprattutto questo:

pict0037.JPG

p.s. I bambini, aggeggiandoci, mi hanno rimesso la data in sovraimpressione sulla macchina fotografica.  È assurdo, non riesco a toglierla: ho provato a rifarceli aggeggiare, ma non ha funzionato…

Domenica 1 febbraio

Ovest, ma neanche tanto – Diario dalla Palestina 155

Se vi trovate a Gerusalemme come fate a riconoscere quando vi trovate nel cuore della parte ebraica? Beh, facile, perché ci sono negozi come questo:

kippa.JPG

E scuole come queste, con bambini davvero orribili (poveri) – senza capelli e con lunghe trecce ai lati:

come0.JPG

Che appena si accorgono che li stai fotografando… scappano:

come1.JPG

Sabato 31 gennaio

I bambini – Diario dalla Palestina 154

Dunque due racconti che ieri non vi ho fatto a proposito di Popcorn e cinema:

1 – Mentre stavamo guardando il Robin Hood Tina si alza, viene da me e mi chiede «posso andare al bagno?»; io mi stupisco – non devono mai chiedere se possono andare in bagno, se hanno bisogno ci vanno – e trasparendo nella mia incomprensione, dico «sì, certo, perché no?». E lei: «nono, questo vuoldire che devi fermare il film!».

2 – Durante la proiezione Ghaida si è girata verso di me e mi ha fatto la linguaccia, allora io le ho risposto con la linguaccia, e lei mi ha ririsposto con la linguaccia, così poi io le ho riririsposto con la linguaccia, e poi lei mi ha ririririsposto con la linguaccia, e alla fine io – che sono una persona seria – le ho fatto l’occhiolino come per dire «dài, ti voglio bene, ma se andiamo avanti così non finiamo più: ora guardiamo il film», e mi sono messo a vedere il film.
Ora direte voi: e che c’è di strano? Tu sei grande e grosso, e quella è una bambina. È normale che tu sia più “saggio”.

Ecco, il fatto è che ve l’ho raccontata al contrario: cioè sono io che ho cominciato a farle la linguaccia e lei che, saggia, a un certo punto mi ha fatto l’occhiolino come per dire «ok, ora torniamo a Robin Hood».

Venerdì 30 gennaio

Pop corn e McGyver – Diario dalla Palestina 153

Tutto comincia qualche giorno fa, quando abbiamo preparato la stanza a mo’ di cinema per vedere il film: sedie in prima fila, sedie in seconda fila, sedie in terza. Difatti, proprio come al cinema, appena diamo il via libera i bambini si catapultano, di corsa, per prendere i posti migliori. A quel punto, una delle mie scemate, prima di far partire il “quadro”, scrivo a caratteri cubitali sullo schermo “avete pagato il biglietto?”.

Seguono lamentele: «noi non paghiamo il biglietto perché non ci sono i pop-corn!» «senza i popcorn non è un vero cinema!». Uno a zero per i bimbi, dunque.

Era dura, perché al centro di Amal non c’è una cucina o un fornello. Ma non potevo non raccogliere la provocazione, così ci siamo consultati con Ahlam su cosa si potesse fare: «eeeh, se avessi ancora la bici potrei andarli a fare a casa, e tornare di corsa – ma a piedi arriverebbero più che freddi», dicevo io; «maddai, sono buoni anche freddi», diceva lei; «mannò, freddi non sono come al cinema», dicevo io; «Beh, ma comunque non lo sanno, il cinema l’hanno visto in televisione», diceva lei.

Perché dovete sapere che a Betlemme un cinema non c’è, ce n’era uno, ma è andato a fuoco e nessuno l’ha più ricostruito: ora la zona dove c’era il cinema si chiama “cinemà”, con l’accento sulla ‘a’ finale ma un cinemà non c’è.

«Possiamo chiedere a Nabil, se ci presta la cucina», ma ad Ahlam scocciava molto chiedere a Nabil. Così – c’era un mercoledì libero di mezzo – mi sono trasformato in McGyver, e al grido “se si vuole davvero fare, si può fare” ho preso da casa pentole, grani, mestoli, olî, scolatoî. Poi, inquadrato il mio obiettivo (una stufa elettrica), ho impugnato un cacciavite di fortuna (un coltello) e zac, via il coperchio. Poi un barattolino di vetro da mettere sotto alla stufa in modo che, adagiata per terra, sia orizzontale:

1-tolta-stufa.JPG

Poi si riavvita il coperchio in modo che sia molto più vicino alla fonte di calore, ma certi che il ferro non tocchi l’altro ferro, ed ecco qui Tina in posa, mentre si dà alla cucina – purtroppo Ahmed, il fotografo, non è bravo alla macchina fotografica, quanto Tina è brava con i popcorn:

2-tina-ahmed.JPG

Ed eccomi che servo il primo giro – Tina sembra divertita, ma mica tanto convinta di quei pop corn:

3-tina-non-sembra-molto-convinta.JPG

Alla fine tutti se ne convinceranno, a mani piene:

4-tutti-film.JPG

Tuttavia, è ovvio, i popcorn non li hanno distratti dalla proiezione di Robin Hood:

5-concentrati.JPG

Giovedì 29 gennaio

Dopo il nazista ciclista, il nazista dentista – Diario dalla Palestina 152

Ho sempre saputo che i dentisti non stessero simpatici in giro, e – con quel trapano – avevo anche sentito ‘sta metafora… ma non pensavo seriamente:

nazi.jpg

Qui un’altra entrata, ma senza caratteri latini:

nazi2.jpg

Mercoledì 28 gennaio

Occupazione – Diario dalla Palestina 151

Ho sentito più volte, durante la guerra a Gaza, dire che la Striscia non è più sotto occupazione dallo smantellamento delle colonie tre anni fa: questa è sia una mezza verità, che una bugìa deliberata.

È una mezza verità perché, come per i campi profughi, l’occupazione non è quello che ci si immagina in Europa se si sente parlare di “occupazione militare”, ma questo non ha nulla a che fare con il (ovviamente commendevole e necessario) piano di Sharon del 2005, con cui l’ex premier ha demolito gli insediamenti e portato via di forza i settemila abitanti.

È invece una bugia per molte ragioni, alcune delle quali proverò a raccontare: Israele si è ritirata da Gaza nel senso che ha portato via i coloni, e di conseguenza i soldati che servivano a difendere quelle colonie. Questo cambia veramente poco in termini di “occupazione”: i soldati israeliani agli incroci non ci sono da Oslo I, ovvero dal ’94-’96. L’esercito, invece, entra per le operazioni militari, come succedeva prima del ritiro dei coloni. La maggior parte delle volte sveglia la gente in piena notte (è, ovviamente, l’orario meno rischioso) e gli dice “domani presentati al commissariato X domani”. Altre volte va a finire peggio, con degli arresti. E altre volte ancora, ci scappa il morto.

Secondo il criterio dello smantellamento delle colonie Ramallah sarebbe sotto occupazione e Gaza no, ed è ridicolo sostenerlo. L’occupazione militare, invece, è l’altra faccia del non avere uno stato da parte dei palestinesi. Quindi vuoldire non avere dei confini, e non avere una frontiera: se un palestinese vuole andare in Giordania, passerà dal Ponte di Allenby che è una vera e propria frontiera israeliana, con tanto di esercito e timbri israeliani. Se un abitante di Gaza vuole uscire da Gaza, più semplicemente, non può: perché tutte le frontiere sono chiuse, e i valichi (anche quelli) sono tutti gestiti da Israele, tranne quello di Rafah che è gestito dall’Egitto – a seguito di un accordo Israele/Egitto, non Egitto/Palestina – e supervisionato da Israele.

A Gaza è Israele a decidere cosa entra e cosa esce (legalmente, poi ci sono i tunnel), a Gaza si paga con gli Shekel – ve lo immaginate il fondamentalista di hamas che compra il pane per le quattro mogli con le monete con sopra la Menorah? Ecco, succede. A Gaza (come nel resto della Palestina) non ci sono ambasciate straniere. E così via.

Io considero molte delle cose che talvolta vengono imputate all’occupazione, prima di tutto la drammatica condizione delle donne, come estensioni abusive dei nessi causali. E non sono per nulla persuaso che se Israele terminasse questa occupazione-soft che dura da 40 anni, Hamas accetterebbe la convivenza. Però dire che questi tre anni di governo Hamas a Gaza hanno dimostrato che – anche senza l’occupazione – i palestinesi vogliono distruggere Israele è falso.

Martedì 27 gennaio /mattina

Attorno al caminetto – Diario dalla Palestina 149

Ieri sera sulla via del ritorno, intorno alle 22.30, sono passato davanti alla Mukata’a: il quartier generale della polizia/esercito palestinese, quello bombardato da Israele durante l’intifada del 2002. E, come faccio sempre, ho salutato il soldato di guardia, che mi ha ricambiato il saluto. Poi in due parole mi ha chiesto se volevo un tè, e io ho detto «beh…sì». E mi sono ritrovato intorno a un fuoco allestito in un bidone bello fondo, dentro al quale erano stati infilati vari tronchi: il fuoco non solo teneva caldo, ma serviva anche a preparare il tè.

Poi, lui tapino, uno dei tre soldati è corso sù a prendere la salvia. Maramìa, qui. Perché qui quando ti offrono il tè chiedi sempre «ma’a nana ou maramia?», con la menta o con la salvia? Anche se è scontato che d’inverno è la salvia e d’estate la menta. Però è un gioco delle parti di cui conosci già tutte le risposte, e in questo modo fa sentire un po’ a casa, ospitato e ospitante.

Hanno infilato una specie di teiera dentro al fuoco vivo. Quella si è arroventata, e il tè era pronto in un attimo. Abbiamo fatto a turni, perché di bicchieri ne avevano solo due, e abbiamo chiacchierato per una mezzoretta; e siccome non sapevano una parola d’inglese (anzi una: per dire “a Roma sono più sorridenti“, dicevano “cheese”, dopo un minuto ci arrivate anche voi) credo di aver utilizzato l’intero esiguo bacino di parole arabe che so. Ci siam capiti comunque, perché c’era la collaborazione di tutti, e se le coniugazioni verbali in arabo sono terribili, io la dicevo al presente e agitavo le mani indietro, e quelli capivano che era passato remoto.

Purtroppo non avevo la macchina fotografica, ma mi hanno invitato a passarli a trovare a lavoro una di queste altre sere, che vuoldire passare di lì e sedersi su una delle poche sedie bianche che non sono occupate dal fucile d’ordinanza, lì attorno al fuoco.

Lunedì 26 gennaio

Empatìa – Diario dalla Palestina 148

Oggi pomeriggio girovagavo per il centro di Gerusalemme ovest, la parte ebraica, irritandomi a ogni manifesto di Netanyahu di cui la città è tappezzata. Indisposto dalle schiere di ebrei ortodossi che cercavano di fare proselitismo all’interno della comunità. Poi ho visto un ragazzo europeo con il kufiah al collo, quello rosso per di più (che nasce come quello del FPLP, ma ha assunto il senso di quello di chi supporta il terrorismo, in opposizione a quello nero – di Fatah – dei più pacifisti) l’ho fissato e m’è presa paura: “cosa gli succederà?”, mi sono chiesto.

Non gli è successo nulla, ovviamente: ci saranno abituati forse, e comunque la gente non l’ha neppure considerato. Mi sono domandato se quel ragazzo ignorasse tutto questo, o se magari avesse pianificato quella bravata: chissà se ci ha pensato a quale sarebbe la reazione, a parti invertite, se andasse in giro per la Palestina con uno dei vari tratti distintivi dei coloni o degli ebrei ortodossi, come le treccine e il nastro arancione qualche anno fa. Ma oramai era passato avanti, ed era troppo tardi per chiederlo a lui.

Domenica 25 gennaio /sera

Confronti – Diario dalla Palestina 147

Le cose che sto per dire sono come quelle che si dicono sui tedeschi, che sono precisi, i francesi antipatici etc. Ovviamente tutti abbiamo esperienza di quanto sia vasto il campo delle eccezioni, ma l’evidenziazione di tratti comuni è un’operazione alla comodità della quale, ogni tanto, è utile ricorrere.

Ognuno – quindi – ne trarrà quello che vuole, forse il rafforzamento dei proprio pregiudizî, tant’è: poche persone sono maleducate come gli israeliani (ebrei), e se gli arabi-israeliani sono una via di mezzo, i palestinesi rientrano molto nel cliché dell’arabo prodigo e sprovveduto.

Ora sicuramente tutti avrete un sacco di esempi di israeliani gentili e palestinesi informati, ma posso garantire una certa larghezza del campione, quindi ridurrò ai termini così: se in Israele chiedi un’indicazione, l’israeliano sa la strada ma non sta a sbattersi per indicartela. Se in Palestina chiedi un’indicazione, l’arabo non sa la strada, ma te la indica lo stesso.

In ogni caso, portatevi una mappa.