Giovedì 25 settembre

E la storia continua –  Diaro dalla Palestina 65

Oggi soltanto qualche foto, ché magari rimettono di buon umore anche voi:

La storia continua e taluno è più attento di tal altri…

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…qualcuno che è fin troppo assorto…

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…così assorto che quando tutti gli altri vanno a giocare, decide di rifletterci un po’ su!

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Martedì 23 settembre

Oggi tocca a voi – Diario dalla Palestina 64

Oggi tocca a voi consolarmi. Il problema è che qui nessuno, anche quelli che sembrano i più illuminati, vuole la pace. Non la vuole concretamente, non la vuole nei fatti. Sì, certo, piacerebbe a tutti, ma per chiunque qualunque prezzo è troppo alto. C’è una tale sproporzione fra il desiderio di giustizia (così astratto, così partigiano), e il desiderio di pace – che dovrebbe essere più immediato, genuino: un istinto primario, come il mangiare e il bere.

E invece no. Meglio aspettare 100, 200 anni, magari millenni, con un’occupazione militare, senza uno stato, etc., piuttosto che vivere accanto a un paese che si chiama Israele. Non chiedo neanche un bagno di realismo (magari!), domando attenzione alla propria vita, avere a cuore i propri figli e i propri cari, non domandare un tale sacrificio per un pezzo di terra in più, per uno sciocco ideale.

Quanto mi piace quella frase di Russel che diceva così: «non morirei mai per le mie idee: potrei avere torto».

Ciò non vuoldire che la gente sia dalla parte del terrorismo, non ho incontrato nessuno che sia a favore dei kamikaze – ovviamente qualcuno ci sarà, ma la percentuale è residuale – ma allo stesso tempo sembra che tutti preferiscano perpetuare questa condizione, piuttosto che accettare la convivenza con Israele: è come un tabù, lo percepisco proprio, dirlo sarebbe tradire la propria gente, il proprio ideale, i propri morti.

È in questi momenti che penso che l’unica possibilità sia costruire un muro indistruttibile, alto 50 chilometri – qualunque sia il percorso – e, forse, fra duecento anni i nipoti dei nipoti dei nipoti di questa generazione torneranno a parlarsi.
Che l’unica pace possibile, è una pace imposta.

Com’era? Domani è un altro giorno.

Lunedì 22 settembre

Là dove il sì suona – Diario dalla Palestina 63

Un aggiornamento su quello che sto facendo: la mia occupazione principale, ovviamente, sono i pomeriggi con i bambini, ma – avendo le mattine libere – avevo programmato di tenere dei corsi d’italiano, come facevo in Italia con gli immigrati: l’ho detto più volte, qui l’italiano è apprezzato molto più di quanto non si pensi. Per dire, la scuola elementare più importante qui insegna tre lingue: arabo, inglese e italiano.

Più persone si erano mostrate interessate al mio corso, intorno alle due direttrici ben chiare che si occupano di volontariato in Palestina: i cattolici, e i comunisti. Ovviamente si conoscono tutti, e avevo detto a loro di mettersi d’accordo sul dove e il quando: soltanto poi ho capito che ogni gruppo ha un suo entourage, e difficilmente gli affiliati degli uni e degli altri convergono. In ogni caso avevo cominciato un corso all’Azione Cattolica, che aveva offerto i propri spazi. Era un corso che si teneva la mattina per i ragazzi delle scuole, e che sarebbe durato fino all’inizio della scuola.

Quattro di questi ragazzi mi avevano poi chiesto di continuare privatamente, cosicché avevamo programmato le lezioni nelle mattine in cui non c’è scuola (venerdì e domenica), e le sere – verso le 19 – dopo l’incontro con i bambini di Amal. L’incidente con la macchina aveva ritardato l’inizio del corso con l’Alternative Information Center, che sarebbero i marxisti, ma per fortuna ero riuscito a continuare con Dima, Yusef, Issa e Najeeb, che – quando ero bloccato a casa per la gamba – venivano da me, a domicilio, per fare lezione.

Così poi avevo fatto sapere all’AIC che avrei potuto iniziare: alcuni studenti l’avevo trovati io, nel frattempo, fra amici e conoscenti in giro per Betlemme, fra cui Murad che mi avrebbe dato un passaggio all’andata e al ritorno da Beit Sahour, luogo dov’è basato l’AIC; altri li aveva procacciati Sara, una ragazza italiana che fa il servizio civile in quell’organizzazione.

Va a finire che un’incolpevole e imbarazzata Sara mi comunica che – al contrario di quanto mi avevano detto in un primo tempo – era stato deciso che gli studenti avrebbero dovuto pagare 50 Shekel ciascuno; saranno anche pochi (10 euro), ma il fatto che su un corso d’italiano gratuito ci volesse guadagnare l’organizzazione non mi ha fatto un’ottima impressione: non stanno lì apposta per aiutare i palestinesi?

Come era andata a finire? Che, ovviamente, mi ero rifiutato di far pagare gli studenti cercandomi di arrabattare per trovare un posto e – non trovando altrimenti – finendo per addobbare ad aula il centro della mia associazione; certo, non è la cosa migliore, manca una lavagna, e lo spazio è quel che è, ma ci si può arrangiare senza problemi, con sedie e tavoli per bambini, foglie e cartelloni – qui vedete una foto:

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Ecco, una cosa va veramente detta, che per quanto piccola e disorganizzata (scopro oggi che è scaduta la registrazione del dominio del sito!!!), la mia associazione è animata da persone il cui unico interesse è provare a dare una mano.
Altro che scopo di lucro. E se c’è un modo per rendere più utile l’affitto che paghiamo per la sede, che ben venga.

Qui la foto di uno dei cartelloni che ho preparato per la prima lezione, e che lasceremo attaccato nella sede, perché l’alfabeto italiano può sempre tornare utile in un’associazione Italia-Palestina (quelli che vi sembrano scarabocchi sotto alle parole sono le traduzioni in arabo, ignoranti!):

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Il cartellone ha suscitato entusiasmo sia in Nabil che in Ahlam: Nabil è venuto anche lui a lezione d’italiano (alla fine eravamo 8 + 2 assenti giustificati, che considerate tutte le defezioni di chi non può muoversi da Beit Sahour a Betlemme è un buon numero); Ahlam invece ha voluto che facessi la prima lezione anche ai bambini cosicché imparassero almeno l’alfabeto italiano ché può sempre essere, qualunque sia la loro strada, un ottimo strumento:

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Io, per me, mi sono stupito di come questi bambini fossero profondamente interessati e partecipi: ovviamente adattando un po’ la lezione per renderla divertente, e nel modo in cui possono esserlo i bambini, sfidandosi l’un l’altro a indovinare la pronuncia delle lettere, ma è anche questo un modo di imparare, anzi, forse è il miglior modo.

Qui una foto di Yazan e Ghaida che indovinano (bravi!) le due pronunce della “O”:

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Infine quella che avrebbe dovuto essere una foto di gruppo, ma la fotografa – Tina – è molto più interessata alle foto che le si fanno (per le quali sta in posa anche 5 minuti) che a quelle che fa, perciò ha inquadrato soltanto la prima fila.

Così, a parte Ghaida, Ahlam e Yazan, s’intravedono soltanto un occhio di Nasri, un naso di Ahmed, un ciuffo di Reem, e Lana che – del tutto spontaneamente – è andata a prendersi un foglio e una matita, il tavolo su cui appoggiarli, e s’è messa a scrivere appunti estremamente impegnativi!

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p.s. poi c’è anche una suora a cui insegno un pochino d’inglese, ma questo è più diletto che opera.

Sabato 20 settembre

Mogli e buoi – Diario dalla Palestina 62

Mi ricordo che ai tempi della prima chiusura di Napster era nato un programma di p2p di cui non ricordo il nome che – essendo basato nei Teritori Occupati, ovvero dove uno stato non c’è – sfuggiva alla legalità internazionale. Così non c’erano problemi di diritti d’autore perché le case discografiche non avevano appigli legali per rivolgersi alla polizia e porre sotto sequestro i server, come accaduto per Razorback – il più popolare server di Emule fino a qualche tempo fa.

Questo per dire che, sempre nell’alveo della legalità, stavo cercando di scaricare un disco di un gruppo conosciuto da poco, con una modalità un po’ diversa da Emule, il torrent; Cerchi il file via internet, con l’album che desideri: trovi una pagina, spesso zeppa di pubblicità, che ti darà da scaricare un piccolo file usato come riferimento dal tuo programma. È un po’ più laborioso, c’è meno roba, ma è molto più veloce, e potete immaginare quanto la precaria connessione di qui sia un bell’ostacolo in questo senso. E io ero proprio curioso di sentire ‘sto gruppo.

Ovviamente la maggior parte delle pubblicità sono a sfondo sessuale, trova una moglie, trova una fidanzata, trova una puttana. Come funzionano questi Ad? Il sito in questione riconosce la località dalla quale è connesso l’utente e ti propone donne (eh sì, visto che il computer non può riconoscere se sei maschio o femmina, punta sui maschi che sono sempre i più idioti sul tema) dalle località più vicine. Aggiungendo poi una foto di una modella mezza nuda o in posizioni che dovrebbero essere sessualmente appetibili, ma assomigliano di più a numeri di ginnastica, o esercizi di qualche disciplina orientale new-age.

Quindi qual è il punto? Che stavo adoperandomi per scaricare questo album e sulla pagina relativa (potete scommettere su cosa viene a voi, in basso a sinistra) c’erano le foto, occidentalissime, di quattro presunte ragazze palestinesi bendisposte che venivano da… Ma’ale Addumim, Har Homa, e Har Gilo. Che sono tre colonie israeliane qui intorno.

Venerdì 19 settembre

Ramadan, episodi 6 – Diario dalla palestina 61

Effettivamente durante il Ramadan le strade sono completamente deserte fin dalle 6 di sera, nessuno gira per strada e tutti i negozi sono chiusi. Tutti con un’eccezione: i panifici. Dato che i mussulmani non possono mangiare durante il giorno, gli è inutile preparare il pane alla mattina, così cominciano la propria attività al tramonto e vanno avanti per rifornire di pane anche a chi si sveglierà alle 3 di mattina dell’indomani per mangiare prima dell’inizio del digiuno.

L’altra sera mi sono fermato a uno di questi forni per comprare lo shrak, il pane a piadina che in Europa si usa per il kebab: il fornaio non parlava una parola d’inglese, allora nel poco arabo che so, ho abbozzato: «dare pane shrak!». Lui me l’ha preso. Ho chiesto: «caldo?» – lui, per tutta risposta, ha preso queste sfoglie di pane arrotolate, mi ha afferrato il polso e ce l’ha sbattute contro. In effetti era caldo.

Giovedì 18 settembre

Disegnami una pecora- Diario dalla Palestina 60

Oggi abbiamo fatto talmente tante cose che a raccontarle tutte ci vorrà una settimana: intanto il racconto del Piccolo Principe sta venendo proprio bene, Ahlam è proprio brava a raccontare, aggiunge del suo, e tutti capiscono.

Ecco qui un esempio filmato, cosicché possiate apprezzare il talento:

Stampiamo sempre tutte le immagini e i bimbi sono sempre ansiosi di vedere qual è la prossima figura:

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E io come faccio a seguire, mi hanno chiesto in tanti? in genere sono il dispensatore di figure, e il domandatore. Nel senso che ovviamente non capisco tutto, però le poche parole che ho imparato mi sono sufficienti per seguire sul testo inglese (che ho sotto) a che riga siamo, così da poter proporre il disegno necessario, o una domanda che mi ronza in testa al momento giusto; domande alle quali i bimbi rispondono con stupefacente acribìa.

Qui un’altra inquadratura:
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Io sono veramente sorpreso di come tutti i bambini siano attenti e cerchino di seguire la storia, senza distrarsi: a un certo punto – in un momento di particolare suspance, il quarto disegno della pecora – vista l’attenzione quasi ossessiva, Ahlam mi ha detto soltanto sei parole in inglese, come cenno d’intesa: «this is exactly what we want». Questo è esattamente ciò che vogliamo. Lana, che voleva la continuazione della storia, non ha sopportato neanche questo fulmineo intermezzo: «Halas inglizi, yalla», ha detto. Basta inglese, daje!

Mercoledì 17 settembre

Ramadan, episodi 5 – Diario dalla Palestina 59

Ieri, proprio mentre finivo di scrivere il post sul Piccolo Principe, s’è inceppato l’altoparlante del Muezzin che cantava per la fine del Ramadan, dopo un litigio furibondo (che ha sentito tutta Betlemme) con il suo compare, ha iniziato a fare «uno due tre prova», intervallato da preghiere cantate che interrompeva alla seconda parola perché si rendeva conto che veniva fuori solo un suono metallico. Poi di nuovo «uno due tre, prova». Una scena davvero comica.

Alla fine, proprio quando pareva aver rinunciato e io mi stavo augurando che la gente iniziasse a mangiare ugualmente, il Muezzin deve aver anticipato il mio pensiero, e dopo 5 minuti di silenzio – oramai venti minuti dopo il tramonto – ha riniziato, e nonostante il disturbo permanesse ha cantato l’intera inintelligibile preghiera: come a dire – «vabbè, strafogatevi!».

Martedì 16 settembre

Sul cappello – Diario dalla Palestina 58

È un po’ che non racconto dei bambini, le motivazioni sono molte: intanto questa è una fase di transizione fra due diversi regimi di trasporti, quindi spesso le beghe organizzative hanno preso il sopravvento sulle attività. Dopodiché, dato il Ramadan e il digiuno, molti bambini sono stanchi e per questo vengono molto limitate le attività di gioco all’aperto, che giocoforza sono quelle più ritraibili in foto. E un po’ anche per l’incidente che mi ha costretto a rinunciare alle improvvisate partite di pallone.

Così oggi ho deciso di pubblicare subito le attività che abbiamo fatto, senza pensarci: Reem, Ahmed e Yazan non erano presenti quando avevamo fatto il gioco delle differenze, così – saputone dagli altri – hanno voluto la replica, tutta per loro.
Mentre Tina, Rowan e Mohammed facevano da spalla a Ahlam e me, ho improvvisato questa postazione:

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Yazan, che è il secchioncello del gruppo, la prende molto seriamente:

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Reem, invece, ne ride.

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Contro ogni pronostico ha invece vinto… Ahmed!

Poi, dopo una mano a carte (“Uno“, importato dall’Italia poche settimane fa, ha spopolato insieme a un altro gioco scemo, ma molto divertente, che mi ero inventato al mare da bambino) siamo passati all’attività principale, che aspettavamo da tempo.

Dopo infinite peregrinazioni (ci credete che in tutta Betlemme non esiste una libreria?) sono riuscito a trovare il Piccolo Principe in arabo, ovviamente ad Ahlam è piaciuto tantissimo, ed eccoci quindi con il primo capitolo. La scena del boa che ingoia un elefante è molto piaciuta, e fra le ipotesi su cosa fosse (ho stampato un foglio per ciascuno), nessuno ha azzardato il copricapo. Anche se Mohammed ha commentato «ecco sì», quando Exupery racconta degli adulti che lo prendono per un cappello.

Svelato l’arcano, la spiegazione e il disegno (stampato anche quello) di cosa fosse in realtà hanno convinto pressoché tutti. E, finito il capitolo, ho chiesto ai bimbi se secondo loro io e Ahlam fossimo diventati degli adulti, o fossimo ancora dei bambini: all’unanimità e per acclamazione è stato deciso che sia io che lei siamo universalmente bambini!
Proprio in quel momento è entrato Nabil, e Rowan – prima che chiunque altro prendesse possesso della scena – gli ha sbattuto in faccia il disegno del boa dal di fuori chiedendo cos’è?

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Lascio a voi immaginare il fragore e la durata della risata generale che è scoppiata ai danni dello sgomento Nabil quando ha risposto, come fosse la cosa più naturale del mondo: «Un cappello».

C’è chi ha voluto una copia dei disegni per fare lo stesso test a casa, ai propri genitori.

Lunedì 15 settembre

Ramadan, episodi 4/? – Diario dalla Palestina 57

Qualche espediente per rendere meno intollerabile il Ramadan c’è; uno di questi è l’utilizzo dell’ora solare con il principio contrario – ovvero di risparmio energetico – a quello con cui si usa l’ora legale nel resto del mondo: solitamente si ritarda il più possibile il ritorno all’ora solare per guadagnare luce, qui si anticipa l’ora solare per anticipare il tramonto.

Considerato anche il fatto che il fuso orario qui è piuttosto spostato verso l’Europa (una sola ora di differenza) rispetto al suo asse naturale, succede così che l’alba sia verso le 4 del mattino – tutti mangiano, poi tornano a dormire – e ci si sveglia verso le 8, portando così via 4 ore di sonno al digiuno. Siamo anche un poco più a sud dell’Italia cosicché prima delle sei c’è già il tramonto, circostanza abbastanza particolare essendo in estate.

Ovviamente il fatto che quello che è per metà lo stesso stato, e per metà lo stato nemico – ovvero Israele – adotti l’ora legale alla maniera europea crea non poche confusioni, specie nelle zone dove la giurisdizione è mista o in quelle dove il confine è molto prossimo, come Betlemme. Più volte mi è capitato di confondermi nei mei pellegrinaggi a Gerusalemme, o in altre parti della Palestina dove c’è ancora l’esercito israeliano. E non sono l’unico.

C’è anche chi dice che, come per la scelta dei giorni festivi (il venerdì e la domenica, potete immaginare che strano week-end!) molta parte di questa decisione risieda nel volersi distinguere da Israele e dagli ebrei. Voi festeggiate di sabato? Noi evitiamo il sabato, a costo di avere il week-end spezzato. Voi cambiate l’ora? Noi la cambiamo cos’à, anche a costo di perdere luce. È del resto vero che anche quando non c’è il Ramadan di mezzo, nei territori dell’ANP il cambio d’orario è indipendente.
Come vale per molte altre cose credo che anche qui ragioni religiose (il venerdì festivo per i mussulmani e la domenica per il 2% di cristiani, e l’anticipazione del tramonto per il Ramadan) e ragioni identitarie (volersi distinguere, sia come stato indipendente e autosufficiente, sia come diverso dal “nemico”) si fondano.

Tutto tornerà a combaciare a ottobre (intanto qui ho la stessa ora dell’Italia!), quando anche Israele riadotterà l’ora solare, mettendo fine ai possibili malintesi.
Fino a quella data c’è ancora tempo, però, perché accadano fatti particolari come quello che successe il 5 settembre del 1999: tre terroristi palestinesi stavano portando delle auto-bomba, fabbricate nei Territori, in Israele per farle esplodere nell’ora di maggior affollamento nei mercati di Haifa e Tiberiade.
Soltanto che, appunto, non avendo considerato il fatto che l’orario sionista viaggiava con un’ora di anticipo su quello di fabbricazione degli ordigni, le bombe scoppiarono per strada, con i tre attentatori come uniche vittime.

Il colmo è che questi non erano attentatori-kamikaze, non avevano intenzione di uccidersi con l’innesco, come altri. Questa prestazione valse loro un Darwin Award, premio che – come recita l’epigrafe – onora coloro che migliorano la specie umana… semplicemente rimuovendosi da essa.

Sabato 13 settembre

Ramadan, episodi 3/? – Diario dalla Palestina 56

In teoria lo sapevo già in Europa cosa fosse il Ramadan, però poi succede che uno non ci rifletta troppo su cosa vogliano dire, veramente e in pratica, molte cose. Così molte domande uno se le fa, solo quando vede tali cose con i propri occhi: è così che mi sono domandato, quando ho confrontato il caldo che c’era con il non poter bere per più di dodici ore: «ma anche i bambini devono farlo? E i malati?».

Per quanto riguarda i malati, questi sono almeno teoricamente dispensati, si dice che “appena sono in condizione” debbano riprendere il digiuno. Ovviamente quando c’è un limite non ben definito, i più zelanti ne circoscrivono al minimo l’estensione, così capiterà sicuramente che qualcuno si faccia (e imponga) del male per rispettare la volontà divina, ma è un bene che almeno di fronte alla malattia siano contemplate le eccezioni: in genere l’emisfero delle eccezioni è lo stesso emisfero del buon senso.

Per i bambini la questione è un po’ più complicata, e a occhio crudele. Sono poche le famiglie che li costringano al rispetto del Ramadan, almeno fino ai 10-12 anni; ma sono altrettanto pochi i bambini che rinuncino a seguire il digiuno – per sentirsi grandi, per emulare i genitori – disposizione d’animo, “purezza”, che solitamente è molto apprezzata dai familiari. Perciò finisce che anche molti bambini osservino il digiuno.

Ovviamente nel modo in cui può farlo un bambino, con quella certezza cieca delle verità, ma anche senza la percezione del dovere e della sacralità. Perché la sacralità è ancora quella dei propri bisogni: l’altro giorno, un paio d’ore prima del tramonto, Mohammed ha preso un foglio di carta e l’ha arrotolato come a imitare un altoparlante di quelli che circondano le moschee, poi ha iniziato a gridare, a modo di preghiera «Allah Akbar», «Allah Akbar». Simulava la preghiera di fine del Ramadan. Inizialmente non capivamo, poi ha bofonchiato: «ma quanto ci mette, ho fame!»