Venerdì 31 ottobre

Non chiametela bomba – Diario dalla Palestina 94

Conoscerete in molti l’esperimento Diet Coke + Mentos, ma voglio scommettere che nessuno di voi conosce l’esperimento Bimbi Palestinesi + Diet Coke + Mentos: il risultato è ancora più entusiasmante!

Loro non ne sapevamo nulla… potete immaginare cosa abbiano pensato quando mi hanno visto arrivare al centro con tre bottiglie di Coca Cola, e due pacchetti di Mentos…

Della prima bottiglia non abbiamo riprese, sulla seconda addirittura una foto in posa:

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Ahmed e Yazan vogliono collaborare:

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Yazan il coraggioso:

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Un lavoro da artificiere (al contrario):

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Un attimo prima di fuggire:

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Tina dove scappi?

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Attenzione, sta per esplodere!

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Martedì 28 ottobre

Ma chi sono? – Diario dalla Palestina 93

Macchissono?

Ve lo sareste chiesti anche voi, se andando in giro per un piccolo villaggetto della Palestina aveste incontrato questi due personaggi, completamente identici, vestiti nello stesso modo, con lo stesso identico passo. Uguale taglio di capelli, stessi occhiali, medesimo look. Spiccicati. Sembrava qualcosa come una candid camera o un flash mob. Oppure tipo Matrix. Fosse successo alla Stazione Termini a Roma, sì, ma in un villaggio di contadini della West Bank?
Un mistero.

Considerata l’impreparazione nella quale sono stato còlto, i pochi momenti che ho avuto per aprilozzainoprendilamacchinafotograficaescattalafoto queste due istantantanee – una davanti e una dietro – sono un bottino discreto:

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Voi c’avete capito qualcosa?

Sabato 25 ottobre

Al Khalil – Diario dalla Palestina 92

Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto…
chi ha dato, ha dato, ha dato…
scurdámmoce ‘o ppassato

Al Khalil è il nome arabo di Hebron, l’ebraico suona Hevròn. E Hebron è il luogo dove fanno mostra di sé i peggiori fra i peggiori: i coloni seguaci di Goldstein.

Qui il problema non è soltanto l’assenza di una storiografia comune, e la completa indisponibilità a qualunque compromesso; non è soltanto il racconto di una verità vera ma parziale, come qui:

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(traduco: questa terra è stata rubata da arabi nel ’29, a seguito dell’eccidio di 67 ebrei)

Perché l’argomento non è che non è vero, che non ci sia stato l’eccidio. È più che vero, come è vero che la comunità ebraica della città è stata completamente spazzata via, in quegli anni. Ma è altrettanto vero che il nuovo insediamento è nato dopo un altro massacro, di 29 arabi questa volta. Ovviamente ciascuno racconta solo la parte a sé più conveniente.

La complicazione è che qui, persino i farabutti – da una parte o dall’altra – hanno una parte di ragione. Anzi, in qualche modo l’hanno più loro, perché qualunque compromesso è un torto a qualcuno, quasi sempre sono due torti.

Per quanto possa stonare alle vostre, e le mie, orecchie assetate di giustizia, quei tre versi lì sopra (chi ha avuto ha avuto/ chi ha dato ha dato/scordiamoci il passato) sono l’unica soluzione di buon senso: neanche di buon senso, l’unica soluzione – e basta. Ciò vuoldire anche che, spesso, chi è stato più stronzo in passato avrà di più.

Però dicevo che il problema, a Hebron, non è questo. A Hebron il problema è la delinquenza deliberata. Gli ebrei qui insediati non sono semplicemente folli, come capita spesso ai fondamentalisti religiosi, ma sono dei mascalzoni di prim’ordine. Odiati da tutti, compresa la quasi totalità degli israeliani, che hanno però la responsabilità di un esercito connivente, e di un governo che li finanzia. Anche se la maggior parte dei fondi arriva da ebrei americani.

Sono 300-400 individui, che vivono in una sorta di città fantasma presidiata da un numero incredibile di soldati (si dice che il rapporto soldati/coloni sia di 4 a 1 per i soldati).
E qui non c’è nessun «eh, ma…»: eh, ma niente. Qualsiasi giustificazione, o tentativo di sminuire vuoldire pregiudizio.

Hanno acquistato i piani superiori di queste case, e visto che sotto passano arabi, loro lanciano rifiuti, spazzatura, sassi:

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Così sono state messe queste reti, per impedire alla varia oggettistica di raggiungere i bersagli:

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Come vedete molti dei resti sono ancora lì.

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Venerdì 24 ottobre

Take a talk on the wildside – Diario dalla Palestina 91

C’è questo ragazzo, dunque, che sale sul taxi collettivo. Ci sale assieme a un’altra ragazza, molto velata, con la quale condivideva il marciapiede di attesa, ma non il lato. Che due sconosciuti, maschio e femmina, si parlino in pubblico va contro le norme culturali in Palestina.
Il taxi arriva, io sono lì dentro e vedo questo ragazzo salire accanto a me, la ragazza sale dietro, con altre due donne.
Nel taxi non si parlano. Lui le lancia soltanto un’occhiata, lei non risponde. Pochi metri dopo essere montato – poteva tranquillamente farla a piedi! – il ragazzo scende e paga sia per sé che per la ragazza; lei non fa in tempo ad accorgersi di quello che sta succedendo, accenna un «no», ma lui è già sceso.
Ho provato a spiegarmi l’episodio altrimenti, ma non ho potuto che concludere che fosse una piccola galanteria furtiva, una minuta forzatura nella costrizione di quel ferreo controllo sociale.
E, così, mi sono sentito testimone di un incontro tanto romantico quanto segretissimo.

Mercoledì 22 ottobre

Ancora sull’italiano – Diario dalla Palestina 89

Di tutti i miei studenti d’italiano il più particolare è Murad. Sarà pure normale, per noi, imparare le canzoni straniere e mugolarle, visto che non sappiamo il testo. Se poi uno se la cava con l’inglese, va a cercarsi come gruppo preferito uno islandese, con risultati persino peggiori.

Però che qualcuno sia appassionato della musica italiana – De André, De Gregori non l’opera – senza capirne le parole, mi sembrava strano. Invece Murad è così, e va più avanti: viene a imparare l’italiano proprio per capire le canzoni di De André, che – vi garantisco – sa tutte. O almeno sa mugularle tutte, e quando gli spiego i testi dice «aaah ma che bello».

Perché la cosa strana del fatto che l’Italia stia simpatica a tutti, è che – a parte Murad, che l’ama alla follia – è sempre la seconda nazione più simpatica, o il secondo popolo (che brutta parola) più simpatico. Chi dice che preferisce gli irlandesi, e poi gli italiani; chi dice che preferisce gli spagnoli, e poi gli italiani; chi i (in realtà “le”) francesi, e poi le italiane). Chi tifa il Brasile, e poi l’Italia. Chi vorrebbe vivere in Palestina ma, se costretto ad andare via, andrebbe in Italia. E così via, è un po’ come se fossimo il Chievo delle nazionalità.

E poi c’è Mohammed, il fratello di Ahlam, che è un tipo un po’ particolare. Ha l’aspetto e l’accento più da ghetto americano che possiate immaginare (trust lo dice pulito pulito “ciast”) tanto da essere soprannominato da qualcuno Puff Daddy, però è molto attento alla religione, alle tradizioni, a quello che pensa la gente. Dall’aspetto, veramente non lo diresti, anche perché ascolta musica americana, vede film americani.

Una volta mi chiese: «ma perché voi italiani avete due modi di parlare, uno normale e uno lento?» Io ci pensai un attimo, perché non capivo a cosa si riferisse, ma poi ebbi il colpo di genio: «The Godfather!» gli dissi, il Padrino. Che, ovviamente, era il suo film preferito. Così gli ho fatto l’accento siciliano, quello che lui collega al boss mafioso, quello che allunga tutte le vocali toniche (se provate a farlo, capite cosa intendo), e lui: «yes exactly!», Esatto!

E allora gli ho spiegato che quello non è “l’altro modo di parlare l’italiano”, ma è un dialetto. E che di dialetti ne abbiamo tanti, tanti altri. Però se provavo a imitargli il romanesco, il toscano, o il napoletano, non li distingueva. Quello del Padrino, invece sì.

Lunedì 20 ottobre

Vetro e ceramiche a Hebron – Diario dalla Palestina 88

Questo post è per il povero Carlo. Il tapino ha una collezione di coffee mug (tazze, quelle americane con il manicone) da tutto il mondo. E perciò mi ha commissionato l’acquisto di una di queste con la bandiera della Palestina. Ora voi direte, ma la Palestina non è (ancora?) uno stato. E io dico, beh non ditelo a me ditelo a lui.

Il problema, come avevo scoperto nella mia precedente visita, è che nonostante il nazionalismo che si vede da entrambe le parti del muro (andando in giro, vedendo tutte le bandiere da entrambe le parti, direste che è perennemente in corso una partita di calcio fra Israele e Palestina, e in un certo senso) non esiste quella tazza, fatta in serie, in tutta la Palestina.
Credevo fosse facilissimo trovarla, d’altronde fanno qualunque cosa con la bandiera palestinese, e invece si trova con simboli della fede, con le città, ma nessuna con la bandiera.

Però è una collezione, e le capisco le ossessioni. Quindi dico, vediamo se la posso ordinare, se chiedo loro di farla. A Betlemme conosco varie persone – oramai amici – che vendono souvenir, pensavo dunque di non avere problemi, specie dopo le rassicurazioni: «la ordiniamo a Hebron, quello è amico mio, vedrai che un favore te lo fa». Me l’hanno detto in più persone, e quando non arrivava beh, domani, inshallah: se Dio vuole.

E qui sorge un altro problema: non solo affidarsi alla volontà Dio per un ordine (ma Inshallah è quasi un intercalare: allora ci vediamo alle 2 domani? Inshallah.) sembra un briciolo scomodante per la divinità, avrà altro da fare, credo.
Ma anche su “domani” ci sono dei problemi, come mi hanno spiegato in Palestina “bukra doesn’t mean tomorrow, it means not today” – Bukra non vuoldire ‘domani’ come insegnano le grammatiche – vuoldire ‘non oggi’.

Così dopo mesi di promessa insoluta mi sono deciso ad andarmela a prendere da me, dice che Hebron è l’unico posto dove farla. E a Hebron, l’unico posto dove fanno questo tipo di cose, è questa fabbrica:

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All’entrata c’è un cartello, con scritto in inglese: per favore entrate e fate tutte le foto che volete:

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Effettivamente vedere queste persone all’opera, lavori di precisione fatti a mano, è molto bello:

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Loro sono molto professionali nel non essere distolti da stranieri fotografanti, e anzi spesso si fermano mentre li fotografi – come a mettersi in posa:

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So bene che, purtroppo, le foto non rendono bene la bellezza di queste operazioni:

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Alla fine, la a-lungo-desiderata coffee mug è questa. Ma ovviamente ci mettono qualche giorno a farla:

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Dipingono gli interni, e dentro ci disegnano la bandiera della Palestina. Un po’ piccolina effettivamente, ma in tutta la Palestina non c’è altro posto.
Sono tornato a mani vuote, dunque, ma con questa foto come bottino, da passare al vaglio del collezionista, per poi andare a ritirarla fra un mesetto.
Quindi Carlo, ti chiedo, Hal a’jabak?

Venerdì 17 ottobre

L’Italia agli israeliani – Diario dalla Palestina 87

Al di là del muro, invece, quello che mi dicono tutti è: «oh, sei italiano, ma che bella lingua che avete». La mia professoressa direbbe che è un peccato che noi – col nostro orecchio abituato – non possiamo sentirlo, non la captiamo quella bellezza nei suoni.

Gli israeliani sono pazzi per l’italiano, quelle cose tipo «dài, dimmi qualcosa in italiano». Che tu, classico, non sai che dire: frasi di circostanza? una poesia? uno scioglilingua? Io ho preso a dire «Guglielmina sul tagliere l’aglio taglia: non tagliare la tovaglia; la tovaglia non è aglio. Se la tagli fai uno sbaglio». L’ho imparata da bambino, e si è sempre rivelata utile.

E tutti ascoltano ammirati, tutti quei “gl”.

Ma la cosa più bella mi è successa a Ra’anana – che io ero solito definire la Piacenza d’Israele in quanto città calma, tranquilla, noiosa. Ma siccome oramai so di avere lettori sia a Piacenza che a Ra’anana, dovrò improvvisare qualche stratagemma per non essere colto in castagna.
Io ho una certa passione per un certo tipo di cose medievali, e a Ra’anana c’è un negozio di “cose medievali” più che bello. Costruito come fosse una foresta, con in mezzo passaggi e ponti, in cui tutto è fatto a forma giusta, e in cui la precisione della bellezza impedisce di essere kitsch.

Ammirato com’ero, iniziai a scambiare due chiacchiere con il proprietario del posto. Ovviamente, non parlando ebraico, comunicavo in inglese: così lui mi chiese di dove fossi. Alla mia risposta cambio completamente atteggiamento. Italiano? Da persona gentile e cordiale, a persona interessata e partecipe; mi disse, alla soglia della deferenza: «ti vorrei fare una domanda». Gli dissi che certo, mi faceva piacere rispondere. E lui, come parlasse a un esperto del campo mi chiese «ti piace il negozio? Ti piace come l’abbiamo fatto?». Io gli dissi che sì, mi piaceva eccome.

Allora lui disse: «questo mi fa enormemente piacere, ed è il complimento più bello che tu potessi farmi. Perché qui abbiamo provato a fare il negozio come voi italiani fate qualunque cosa: prima abbiamo pensato a che fosse bello e poi – forse – che fosse funzionante».

Giovedì 16 ottobre

L’Italia ai palestinesi – Diario dalla Palestina 86

Certo, c’è la storia del pizza-mafia-macaroni (e ‘sta questione che maccheroni non è sinonimo di pasta bisognerebbe spiegargliela, una volta per tutte), ma è una cosa molto amichevole, come quando piove e governo ladro: non è un fatto imputato agli italiani di avere la mafia, non hanno tale responsabilità, anzi semmai è una disgrazia di cui compatirci, una cosa caduta dal cielo (che poi nel caso della pioggia non è così sbagliato…) – e non si può offendere qualcuno per un monsone, per una sventura di cui non ha colpa. Anzi, piangersi addosso tutti insieme è cosa che unisce più d’ogni altra.

Funziona allo stesso modo per Berlusconi – malvoluto quasi quanto in Italia – è lì al governo ma «puoi criticare i governi, non le persone», e cioè il fatto che più della metà degli italiani l’abbia votato come premier (tantomeno che questa sia una cosa legittima) è fuori discussione, non se ne parla. Solo che c’è una differenza con l’Italia, quando spiego che Berlusconi è il presidente del Milan tutti storcono la bocca per dire «allora non è poi così male…». È divertente come un dato per noi così assodato, nella nostra testa addirittura precedente al Berlusconi politico, altrove stupisca.

Perché, come immaginerete, il calcio è un fattore tutt’altro che trascurabile, e notevole polo d’attrazione: e quello è il campo dove tutti amano l’Italia. Se c’è un argomento su cui israeliani e palestinesi sono stati d’accordo è per chi tifare alla finale del 2006, non ne ho trovato uno – fatti salvi israeliani/francesi e palestinesi/francesi – che tifasse per la Francia.

A Al ‘Eizariya (che sarebbe dove c’è la tomba di Lazzaro: sì, lo so, uno non ci pensa ma alla fine, non al primo ma al secondo tentativo, anche dovrà pur esser morto) ho visto una bandiera italiana dipinta su una parete, e quando ho chiesto perché mi è stato risposto «perché abbiamo vinto i mondiali».

Mercoledì 15 ottobre

Il nemico del mio nemico – un post sconclusionato – Diario dalla Palestina 85

Qualche tempo fa si faceva la considerazione che effettivamente il passaporto italiano, è uno dei migliori passaporti al mondo: certo, se hai quello americano e ti rapiscono in Camerun arrivano i marines, e l’Italia in geopolitica conta come il fattore campo quando si gioca a porte chiuse. Ma non parlo di questo, dico di come gli italiani siano amati un po’ da tutti.

In un conflitto come questo, dove inevitabilmente qualsiasi cosa – persino il colore con cui ti vesti o il bere Pepsi piuttosto che Coca Cola – ha un significato politico, e ogni atteggiamento viene schiacciato sulla tavolozza di uno dei due schieramenti, la nazionalità è una delle prime componenti passate al vaglio, per dire: questo da che parte sta?.  È una sinuoso orizzonte d’attesa che inevitabilmente condiziona. Qualunque cosa tu faccia sarà scansionata, e – inevitabilmente – avrai sempre la percezione che c’è qualcosa per cui sentirti in colpa. È chiaro che essere ebreo in Palestina è l’estremo da un lato, e essere arabo in Israele lo è dall’altro (anche se molto meno, se non altro per ragioni quantitative), ma in mezzo – in questo spettro – ci sono mille nazionalità. Un americano, ma anche un inglese, in Palestina è in qualche modo “colpevole”. Così come un francese è considerato, comunque sia, una propaggine di un stato (storicamente) amico dei propri nemici, da un soldato israeliano ai check-point.

Tutto questo non è così chiaro, ovviamente, questi pensieri non sono espressi alla luce del sole, ma sono malesseri sottotraccia che stando una settimana non si notano. Poi via via, vivendo lì, inizi a capire dove comincino le chiavi di questi codici. O almeno, così è come li percepisco io. Mi hanno rimproverato di non parlare mai, nel Diario, di come mi senta io, personalmente: ecco, questa è una cosa che mi fa sentire sempre in tensione. Coi muscoli tirati. Se faccio questo vuoldire che sono filo-palestinese? Se faccio questo vuoldire che sono filo-israeliano?

Ed è forse l’inevitabile sterilizzazione indotta da questo riflesso condizionato a rendermi insofferente per chi fa propri (o meglio, si fa fare proprio da) questi schematismi: qualificarsi come stante da una parte, agire secondo tale canone, significa esserne connivente e riprodurlo – il canone.

Per fortuna, come dicevo, l’essere italiano non connota in questo senso: è un po’ come se la nostra nazionalità non passasse sotto a quella pedante e rognosa lente d’ingrandimento sotto alla quale passa qualunque cosa in Israele e Palestina. Gli italiani – bravagente – non hanno bisogno di essere nemici dei propri nemici per essere amici, sembra. Siamo amici di tutti?
Domani vi racconto qualche episodio.