Martedì 16 dicembre / mattina

E luce fu – Diario dalla Palestina 103

Ieri sera c’è stata l’accensione dell’albero di Natale, sulla piazza davanti alla Natività.

C’erano tante bandiere, e vari personaggi che parlavano di pace in un modo un po’ ambiguo. Le bandiere che ho riconosciuto sono state, Palestina, Vaticano, Betlemme.

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Ecco l’albero, ancora non acceso:

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La piazza è tutta addobbata di luci, anche davanti alla moschea:

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E poi, all’accensione dell’albero, i fuochi d’artificio!

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Lunedì 15 dicembre

Se il mondo è piccolo, Betlemme cos’è? – Diario dalla Palestina 102

E io che volevo fare una sorpresa a tutti, domani, al primo incontro con i bambini. E invece è bastato fare un giro per Betlemme perché incontrassi la metà delle persone a cui volevo fare la sorpresa, che – presumibilmente – l’avranno riferito all’altra metà.

Domenica 14 dicembre

In partenza – Diario dalla Palestina 101

Sono finalmente in ripartenza, fra qualche ora mi sottoporrò agli interrogatori della security israeliana, sui quali c’è una vasta letteratura, anche fra i blogger, domande assurde per le quali tutti si chiedono “ma a che serve?”, alcuni sostengono che però funziona, altri sottolineano il carattere vessatorio, perché – effettivamente – gli israeliani hanno molti meno problemi a passare.

In compenso, avevo anche letto del perché di questo, la cura per gli oggetti è minima. Lo screening è sulle persone, e non sugli oggetti, così- sembra assurdo che succeda nell’aeroporto con più security al mondo – nessuno ti dice nulla se porti liquidi che sono altrimenti vietatissimi nel resto del mondo, e questo non perché non se ne accorgano (lo scrupolo è oltre l’umano, ma perché non gliene frega nulla.

L’ultima volta, passato con questa busta in mano:

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Martedì 2 dicembre

A volte ritornano – Diario dalla Palestina 100

Che avrei passato i prossimi mesi ancora in Palestina, si sapeva. Ma quando fossero iniziati questi “prossimi mesi”, non si sapeva. Ora si sa: il 14 dicembre.

Che la destinazione sarebbe stata ancora a Betlemme si annusava, ma ora so che ci sarò anche a Natale. Se riesco a trovare un posto alla Natività (dice che bisogni prenotare mesi prima, ma magari attraverso amici di amici di amici…) prometto un reportage per la messa di mezzanotte, per quanto riguarda capodanno… beh di botti, se ne sentono anche troppi, mi accontenterei di un Cenone in grande stile. Mi accontenterei della replica di questo, per dire:

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I piattini con tutte le diverse salse, e odori, e verdure sono tipicamente mediorientali.

Lei si chiama Omer Goldman

Omer GoldmanLei si chiama Omer Goldman, ha 19 anni, il suo numero di matricola è il 5398532.  È una Shministim, o refusnik. Ha rifiutato di arruolarsi nell’esercito israeliano, e per questo è stata più volte rinchiusa in un carcere militare.
Di suo padre dice: «in fondo abbiamo un carattere simile, entrambi combattiamo per quello in cui crediamo: soltanto che abbiamo visioni diametralmente opposte».
La cosa – neanche troppo originale – che molti diciannovenni direbbero del proprio padre.

Il padre, però, non è un genitore qualsiasi. È stato vicecapo del Mossad fino all’anno scorso, ed è considerato tutt’ora una delle persone più influenti nel campo della security in Israele.

Ma lei, Omer, la pensa in un altro modo: dice che “proprio perché crede nel servizio alla società di cui fa parte” non può arruolarsi nell’esercito. E che “La violenza non porterà da nessuna parte, e io non commetterò violenze, a qualunque cosa io vada incontro…”

A cosa va incontro lo sa bene, significa essere richiamata più volte sotto le armi, e fare un periodo in prigione a ogni rifiuto. Per poi essere rilasciata, e essere richiamata, magari pochi giorni dopo.

Eppure le possibilità di scamparla, con un sotterfugio, non dovrebbero mancarle: non si può dire che non abbia conoscenze. E, in ogni caso, con le donne che proprio non vogliono fare il servizio militare è più facile che si chiuda un occhio per fittizî “motivi religiosi” o “di salute”, per i maschi è ben più difficile. Chissà se c’ha mai pensato o ha tirato dritto per la sua strada, lastricata di quell’idealismo testardo che – dagli anni ’70 – ha convinto vari ragazzi israeliani a fare la stessa scelta.

Non so se sarei del tutto d’accordo con lei e i suoi amici, perché qualunque posizione è infinitamente complessa e difficile da comprendere e conciliare, in quella zona di mondo; ma sono i personaggi come lei ad affascinarmi, a dare una radice di speranza. A far saltare gli schemi e i pregiudizî, che sono sinonimi quando si parla di Israele e Palestina.

Degli ebrei che si battono per l’altra parte valgono molto di più: perché qui ogni cosa è schieramento, l’identità connota e esige lealtà cameratesca: chi ne sfugge è aria fresca.
Così come per le ideologie: il sionismo è considerato ragione dell’occupazione da una parte, e alla stregua del nazismo dall’altra? Ci sono questi, che sparigliano le carte, e proclamano – con argomenti anche convincenti – che i veri sionisti sono coloro che vogliono la fine dell’occupazione.

Del resto è forse soltanto in Israele che possono accadere queste cose. Sarebbe sicuramente difficile immaginare la figlia (omosessuale, per di più) di un primo ministro impegnata nel combattere le ingiustizie foraggiate dal governo del padre, e senza che questo crei troppo scandalo. Non lo immaginerei in Italia, vorrei farlo in Palestina, ma è meglio non farlo.
Qualcuno dice che sono proprio queste le contraddizioni di Israele, se è così, beate contraddizioni.

Il 18 dicembre c’è l’iniziativa dell’organizzazione Free the Shministim per richiedere la liberazione, e il congedo, di Omer e i suoi compagni di disavventura, quel giorno sarò nuovamente in Palestina, magari faccio un salto al di là del muro e vi racconto.

Giovedì 20 novembre

La falsa questione dei profughi – Diario dalla Palestina 99

Uno dei nodi che vengono sempre tirati in mischia quando si parla di Israele e Palestina è quello dei profughi. Tutti i trattati di pace si sono, in un modo o nell’altro, invischiati in questo problema e in quello di Gerusalemme, senza mai uscirne veramente. Ma se la questione di Gerusalemme è un problema lacerante – sebbene risolvibile con profusione di pragmatismo e volontà* – quella dei profughi, ho imparato giorno per giorno, è una vera non-questione, un gonfalone ideologico che è stato agitato negli anni – si badi – da entrambe le parti.

La storia, per sommi capi, la conosciamo: nel ’48 all’indomani della dichiarazione d’indipendenza d’Israele, gli stati arabi mossero guerra allo Stato ebraico. I capi religiosi e militari arabi, incitarono mussulmani e palestinesi a venire via da Israele. Alcuni seguirono questi proclami, molti altri furono cacciati dagli israeliani con questo alibi e spesso mascherandolo come azione di guerra; l’obiettivo era quello di ebreizzare la parte maggiore possibile di Israele: dopo l’evacuazione di interi villaggi, una vera e propria “normalizzazione” – case nuove, onomastica nuova, etc.
Ovviamente, come in questo e tanti altri casi, ognuno riconosce solo la parte di storia che fa tornare i propri conti: non si parla di dichiarazione di guerra, non si parla della “chiamata alle armi” fra i palestinesi, e non si parla di Nakba (distruzione) – se non, molto timidamente, negli ultimi vent’anni, per mezzo dei cosiddetti nuovi storici – in Israele.

I 700.000 profughi palestinesi del tempo si disperdono fra Palestina, Giordania, Libano, Siria e (in misura minore) altri stati arabi. Ma, invece di ottenere la cittadinanza lì**, conservano questo inusitato status perpetuandolo a tutta la progenie. A complicare la questione è l’occupazione (fino al ’67) da parte giordana dell’attuale Palestina, cosicché la maggior parte degli attuali profughi ha un documento giordano. Nel frattempo tutti, Giordania, Libano, perfino Israele, cercano di strumentalizzare questa bomba demografica, innescandola come risultato.

Ora. Le persone che hanno lo status di profugo sono più di 4 milioni: pochissimi erano lì nel ’48, pochi nel ’67, la maggior parte hanno ereditato il titolo insieme alle chiavi della vecchia casa, che ora non c’è più, chiavi che si tramandano di generazione in generazione, e per le quali è in vivo un vero e proprio culto (questa foto dell’entrata di Aida, un campo profughi presso Betlemme dovrebbe darvi l’idea).
I campi profughi, come avevo fatto vedere qui, non sono quello che ci si aspetta. E – probabilmente per un (giusto) senso di colpa – sono molto coccolati dall’ONU: vi basti sapere che alle Nazioni Unite esistono due istituzioni che si occupano dei profughi nel globo – una è l’UNHCR, che si occupa dei profughi in tutto il mondo: Africa, Asia, Europa, America; Sudan, Somalia, Birmania, etc. L’altra è l’UNRWA e si occupa soltanto dei profughi palestinesi. Considerati tutti i limiti endemici all’ONU, l’UNRWA fa delle cose molto positive, e difatti è forse l’unica istituzione ufficiale a non essere unanimemente sprezzata.

E allora, se la situazione è così intricata, perché dico che quello dei profughi è un falso problema?
Le istanze di miglior volontà, Camp David 2000 e (pochi) seguiti, israeliane sono state formulate sulla base di Gerusalemme Est, quasi totalità dei territori 48-67, e il via libera all’ingresso (in Palestina) della totalità dei profughi ora in Giordania, Libano e Siria, mentre soltanto una quota simbolica di circa 100.000 potrebbe tornare in Israele, agli altri andrebbe un indennizzo economico tarato su il costo della vecchia terra, pagato in misure da definire da Israele/USA/ONU/Mondo. Si dice: se Israele accogliesse 4 milioni di palestinesi, con il tasso di natalità che si riscontra fra gli arabi, ben presto sarebbe cancellato.

Io non so se sia giusto che i cento (non esagero***) bisnipoti di un esiliato sessant’anni fa abbiano un diritto morale su quel pezzo di terra, trovo alcuni argomenti a favore e alcuni contro, ma so che – chi talvolta mi legge perdoni la ripetizione, è il mio mantra – spesso ciò che funziona è più giusto di quello che è giusto.
Ma so una cosa ancora più importante: la maggior parte dei profughi palestinesi non vuole tornare dov’era.

Non parlo degli aiuti economici, dell’elettricità, dei rifiuti, dell’acqua e del gas pagati dalle Nazioni Unite: non è un’agevolazione rateizzata che può estinguere quella che è la più legittima delle rivendicazioni, nella pressione etica di ciascun palestinese.
È semmai una considerazione concreta, quotidiana: quanti di coloro che rivendicano il diritto ad avere una casa al di là della linea verde ci andrebbe veramente a vivere? Quanti accetterebbero di essere cittadini di uno stato che si chiama Israele? Di abitare in una nazione che non è la, loro, Palestina? Di più, nello stato che più è considerato come un intruso nell’arco di migliaia di chilometri?

Pochi, pochissimi. Per la mia esperienza di Palestina, direi nessuno, forse una soltanto fra tutte le persone che ho conosciuto. Ciò non è un’inferenza o un processo alle intenzioni, è la registrazione di un rifiuto deliberato e legittimo (in un mondo libero), e soprattutto ragionato.
E allora cosa succederebbe a quell’ipotetico mezzo milione di proprietà, di pezzi di terra, di case che furono ingiustamente sottratte, mai restituite – e spesso abbattute – ai legittimi poprietarî?

Quale altra possibilità che queste ter vendute a un prezzo di mercato in modo da incassare una somma sufficiente a comprarne di altre in Palestina. E cioè ognuno di questi profughi – soprattutto coloro che vivono in Giordania, Libano, Siria, Arabia Saudita, Egitto, etc – otterrebbe il sacrosanto diritto (che ora gli è negato) di tornare in Palestina e i mezzi economici per esercitarlo.

Che è dove si era arrivati a Camp David, precisi precisi.

* Si può dire, con una buona dose di approssimazione, che il primo manchi ai palestinesi e la seconda agli israeliani.
** In Israele si obietta su questo, sottolineando che i 600.000 profughi espulsi dagli stati arabi nel ’48, e fuggiti in Israele, sono a tutti gli effetti cittadini israeliani: l’obiezione è solo parzialmente valida, perché non è delle colpe algerine o irachene che deve rispondere l’auspicabilmente venturo Stato palestinese.
*** Il tasso di natalità sfiora il 40% a Gaza e il 35% in Cisgiordania (in Italia è l’8%).
**** Questo scritto ha avuto una lunga, lunga gestazione –

Mercoledì 12 novembre

Vi racconto di Jaber – Diario dalla Palestina 98

Di Jaber avevo già parlato, è il più grande dei tre fratelli (ci sono anche due femmine, poi) che vivono nel campo profughi di Aida, è anche il ragazzino più grande del centro dopo Mohab, ed è quello che voleva fare il martire da grande. Poi, come raccontavo di là, una visita all’università insieme ad Ahlam e Costantino gli ha fatto dire “ma sapete? Voglio fare lo studente universitario”.

Certo, tutto il giro di amicizie che ha al campo profughi – sono gli ambienti più fondamentalisti – continuano a trascinarlo in quella spirale, a fargli dire che Hamas è fica e Fatah… Fatah non è corrotta, Fatah “è sfigata”. Come un ragazzino dei nostri direbbe di un cellulare, o del casco integrale. Ha una sorta di altare per Saddam Hussein in casa, e la violenza lo seduce. Però lui è fresco, vivo, è autoironico e teatrale, ed è capace di voler bene forte, per lui certamente la mezzanotte non è ancora passata. La madre ci ha raccontato che quando il padre vuole picchiarla, ora, è Jaber – portandosi dietro Yazan e Hamza – a frapporsi e impedirlo: un caso unico, per la mia esperienza di Palestina.

Con Jaber ho subito stretto un rapporto particolare, e il calcio sia attivo che passivo (lui è «del Real Madrid» io, ovviamente, devo essere del Barcellona!) è stato un gran bel catalizzatore.
Poi, un giorno, lui e il fratellino sono arrivati al centro un’ora prima. Io ero già là, e Jaber ha raccolto da non so dove un bastone, non pesante ma grosso, e ha iniziato a picchiarci il fratellino. «Atinni!», dammelo. Ma lui non me lo dava. Allora gliel’ho strappato di mano e, come uno stupido, l’ho lanciato via, iniziando a domandargli cosa gli fosse preso. Soltanto che Hamza ha raccolto il bastone e ha iniziato a picchiarci Jaber. All’umiliazione per essersi fatto togliere il bastone s’è aggiunta quella di essere picchiato dal fratello più piccolo. Così appena ho fermato Hamza, Jaber ha riconquistato il bastone iniziando ad agitarlo in modo violento.

«Halas», basta. Le poche parole che so in arabo. Allora ho capito che l’unica cosa che potevo fare era prendere questo bastone e tenerli fisicamente fermi. E per togliergli il bastone, il solletico. A quel punto ho visto un digrignamento che non avevo mai visto, sul viso di Jaber. Ha ordinato al fratello, che fino a quel momento era stato suo “nemico”, di seguirlo. Hamza l’ha seguito senza battere ciglio e lui è andato via furibondo, minacciandomi di morte con quel gesto – che ho scoperto in quel momento essere internazionale – di portarsi l’indice alla gola, e maledicendo la mia progenie.
Io ero piuttosto scosso, ho respirato un momento, e sono andato a cercarlo. Senza esito.
In quel periodo eravamo in molti volontari italiani, c’erano Umberto, le due Angela, Davide, Gabriele e Plastic. Loro mi hanno tranquillizzato. Con loro Ahlam.

Mezz’ora dopo abbiamo visto ricomparire Jaber, che aveva sempre una faccia arrabbiata, ma era finalmente la sua faccia. E in mano aveva un bastone decisamente più grosso, credo più alto di lui, con il quale mostrava di volermi battere. Io ero nell’ufficio, così quando mi hanno detto «è tornato Jaber», mi sono affacciato e l’ho visto con quel coso in mano. La mia reazione, quando l’ho visto così, è stata un bella risata a mani giunte. Non una presa in giro, ma una risata complice, come dire “Jaber, maddai”. Forse, conoscendo Jaber, l’avrei anche premeditato come gesto, ma in quel momento è stata soltanto una cosa spontanea. La cosa migliore comunque, perché Jaber vedendo la mia reazione tanto diversa dal sono-più-forte-io, quel piano che vive quotidianamente, si è accorto in un attimo di quanto fosse ridicolo quell’essersi portato un bastone per picchiarmi.

Ma Jaber è anche un attore, e in un momento – pensate la prontezza di spirito – ha appoggiato il bastone a terra, fingendo di appoggiarcisi, e di esserselo portato come sostegno. Gli avevo fatto male alla gamba, diceva, cosicché non poteva camminare. Era chiaro che, a quel punto, quello che gli importava era la sua “onorabilità”. L’avevo picchiato diceva, così io – attraverso Ahlam – gli ho detto: «guarda Jaber, sai bene quello che è successo, sai che ti ho fatto il solletico, ma a me non interessa cosa pensano gli altri, e tu lo sai». Allora Jaber ha scartato nuovamente, e mi ha detto che «sì, ma non dovevo fargli il solletico, perché lui così ‘non respira'” e questo lo fa inferocire. Io ho replicato che era l’unico modo per togliergli il bastone senza fargli male; e lui ha detto che io non dovevo togliergli il bastone, perché lui è abituato a picchiare il fratello, e nessuno gli dice nulla (una volta uno dei tre si ruppe un braccio, così). A quel punto – con molta fermezza – gli ho spiegato che in mia presenza era fuori discussione, nessuno picchia nessuno.

Ma era già chiaro che l’incidente era stato riportato alla sua corretta dimensione, quella di una stupidaggine. Diceva che ero stato fortunato che lui non avesse chiamato zii, cugini, etc. per amazzarmi, ma era chiaro che quello era tornato a essere il solito Jaber che le racconta. L’ho preso da solo, e l’ho portato fuori. Ho imbracciato il famoso bastone e gli ho detto “io Jaber, tu Giovanni: dimmi come togliere”, lui – forse per il mio arabo ridicolo – si è messo a ridere, e mi ha stretto la mano. Però prima ha fatto una cosa ancora più divertente, prima di lasciarmi il bastone, mi ha detto «stenna», aspetta. Ha preso la caviglia in mano, quella della gamba che simulava essere stata da me ferita, e l’ha stirata dietro al sedere come si fa nel riscaltamento prima di una partita di calcio, dicendo poi “ok, è guarita”. Ricominciando poi a camminare normalemente, senza zoppicare. E l’ha fatto con una credibilità tale che mi è dispiaciuto esserne l’unico testimone.

Da quel giorno il rapporto fra me e Jaber è migliorato in maniera incredibile, primo fra tutti mi salutava, e si congedava con me per ultimo. Varie volte quando sapeva che qualche gruppo di italiani era sul punto di andare via, lui veniva da me e mi diceva – nell’inglese che gli insegnano a scuola: «you no Italia?», e quando lo rassicuravo che no, io non stavo andando via, mi abbracciava con una contentezza vera. Poi è venuto il giorno in cui sono andato davvero via, e oltre a promettergli che sarei sicuramente tornato (come farò a breve), oltre a punzecchiarci su cosa avrebbero fatto Real Madrid e Barcelona mentre saremmo stati lontani, abbiamo “raccontato” la nostra storia – in un mini fotoromanzo. Perché, come vi ho detto, oltre a essere un attore, Jaber è anche molto autoironico. A essere più precisi, la nostra non-storia.

Qui è Jaber che mi picchia con un bastone, appena arrangiato dalla gamba di un tavolo di plastica:

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Sempre a proposito di gambe, invece, questo è quando l’ho picchiato io, e lui soffre dell’infortunio alla gamba:

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E qui una noiosa foto normale e sorridente:

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Domenica 9 novembre

Concorrere – Diario dalla Palestina 97

Loro hanno pensato che fossi magico, dico i bambini. In realtà solo tanta fortuna, di quella che non ti aspetti. La volta è quella della Coca Cola + Mentos, come già raccontato avevo comprato due bottiglie di Diet Coke, la quale per il decennale della presenza in Palestina – così poco? Sì, perché fino a non molto tempo fa la Pepsi aveva deciso di andare nel mondo arabo e non in Israele, così la Coca Cola aveva l’opposto – proponeva uno dei soliti concorsi “gira il tappo e vedi se hai vinto”.

Di quelli che non vinci mai, insomma.

E invece allo stappamento del secondo tappo, i bambini mi dicono (io non leggo l’arabo) – urlando di gioia – che ho vinto delle posate! Ora, io per le posate non vado così matto, ma la loro gioia e il fatto che mi dicessero di averci provato tantissime volte e poi “arrivo io e vinco”, mi aveva fatto sentire baciato dalla buona sorte. Dimentico della circostanza fortunata – e poi, pensavo: magari mi stanno facendo uno scherzo perché sanno che non leggo l’arabo – iniziamo il gioco, che entusiasma quanto immaginate. Entusiasma talmente tanto che alla fine le due bottiglie non bastano: bisogna ripeterlo!

Quindi di corsa mi tuffo nel negozio assieme a Yazan, Ahmed e Nasri per comprare un’altra bottiglia. Torniamo altrettanto di corsa e… di nuovo: hai vinto un bicchiere!

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I bimbi erano esterrefatti, pensavano fosse uno dei miei soliti giochi: ci doveva essere un trucco sotto!

p.s. in Italia non ho mai vinto nulla.

Venerdì 7 novembre

Di necessità virtù – Diario dalla Palestina 96

Da casa mia di Betlemme al Check Point per andare a Gerusalemme c’è un km e mezzo. Distanza che percorrevo a piedi o in bici, costeggiando – per gran parte del percorso – il muro. Complice l’incidente, e quindi l’impossibilità d’utilizzo della bici o di percorrere lunghi tratti a piedi, ho cominciato a prendere i service (letto alla francese, taxi collettivi) che fanno un’altra strada.

Nel frattempo succedeva questo: c’è questo ristorante che sorge di fronte al muro. O meglio, c’è il muro che sorge di fronte a questo ristorante. Inizialmente questo causa un crollo degli affari del ristoratore – Betlemme è vicina a Gerusalemme, e molti clienti erano israeliani – che porta anche alla chiusura per un certo periodo. Complice il notevole afflusso di turisti che vengono a vedere il muro, gli affari riprendono ad andare nella direzione giusta, cosicché quando io arrivo a Betlemme – a luglio – il ristorante è aperto sempre, quando ci passo alle 5 del pomeriggio o quando ci passo a mezzanotte.

Poi l’idea geniale: visto che il muro “toglie” vista ai propri clienti, perché non dargli un senso? Leopardi ne avrebbe tratto considerazioni filosofiche, il ristoratore ne fa di molto più pragmatiche: così costruisce una piccola veranda proprio dal lato del muro e dipinge il menù del proprio ristorante proprio sulla barriera di cemento, riuscendo nell’inopinata impresa di rubare spazio al niente.

Io, badate il caso, vengo a saperlo dalla BBC! Identifico il posto, e mi dico: non è possibile, passavo esattamente di lì fino a una settimana fa, possibile che debba venirlo a sapere da un network inglese? Mi armo di macchina fotografica e decido di farci un salto:

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Assieme, una buona idea e una zona così capillarmente coperta dai mezzi d’informazione quale la Palestina, fanno anche questo.

Lunedì 3 novembre

Refugee camp – Diario dalla Palestina 95

I campi profughi in Palestina non sono quello che si aspetta l’occhio occidentale abituato agli spezzoni di TG sui paesi africani con le tende e le mosche che ronzano intorno a quei visi smagriti. I campi profughi sono agglomerati di persone, qualche volta grandi quanto una città di provincia, che hanno (o più spesso hanno ereditato) lo status di profugo.

Per fortuna la situazione è molto meno peggio di quanto saremmo abituati a pensare: non ci sono tende, ma case. Ci sono negozi, mezzi pubblici di linea, connessione a internet. C’è più poverta che nella Palestina in genere, ma non così tanta di più. Spesso si vive sugli aiuti dall’estero, e numerosissimi edifici sono intitolati a uno stato o a quell’altro, in virtù delle donazioni ricevute per la costruzione. Dà un grande aiuto l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che fornisce ai “profughi” sussidi, gas, luce, acqua, raccolta della spazzatura. Più di un palestinese mi ha anche confesato un po’ di risentimento verso chi può vantare dello status di profugo: «certo che io ti faccio pagare il falafel 4 shekel e a Aida lo paghi 2 shekel: lì le Nazioni Unite gli pagano l’affitto e tutte le bollette!», mi ha detto il venditore di falafel più buono di Betlemme.

In Europa se ne parla tanto – le considerazioni politiche al riguardo le rimando a un altro post – questo qui solo per mostrare quello che mi sembra più interessante: come è effettivamente un campo profughi.

Di campi profughi ne ho visti una decina, e devo dire che non sono troppo diversi l’uno dall’altro; quello a cui ho fatto più foto è quello di Jenin, celebre per il massacro/battaglia divenuto tristemente celebre nel 2001. Le foto che seguono sono di lì.

Non c’è una vera e propria entrata al campo profughi di Jenin, come quasi sempre accade non c’è soluzione di continuità con la città, questa è più o meno l’entrata:

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Qualche casa:

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L’unico vero modo per riconoscere quando inizia un campo profughi sono i cassonetti dell’ONU, che sono grandissimi e tutti blu con scritto “UN”. Qui la foto è venuta male, ma potete intravvederlo sulla sinistra, accanto a dei normali cassonetti.

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Una sala da biliardo ingegnosamente ricavata in un garage, purtroppo tutti fumano, quindi io non ci posso entrare:

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Ecco la sede dell’UNRWA l’agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi. Ce n’è una, oltre a scuole, e altre infrastrutture, in ogni campo. Per quanto ci siano contestazioni in entrambi i sensi (dicono di essere contro, ma non fermano le azioni degli israeliani! I palestinesi sono privilegiati rispetto a tutti gli altri profughi al mondo! Cose entrambe vere), l’UNRWA è l’unica che fa veramente qualcosa:

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Gli onnipresenti festoni con le bandierine palestinesi, anche a Jenin non possono certo mancare:

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Un negozietto della compagnia telefonica (di cellulari) palestinese, Jawwal:

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In Palestina, e ancor più nei campi profughi Saddam Hussein è molto amato. La cosa risale al tempo in cui mandava un assegno di mille dollari a ogni famiglia di uno Shaeed, un martire, uccisosi esplodendo in Israele. Di cartelloni come questo sono piene le strade, le case:

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Una foto alle strade, dall’automobile:

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Un altro Saddam. Ogni volta che li vedo penso al mezzo milione di persone, arabi, mussulmani, uccise in Iraq da Saddam Hussein, e – come ho detto a qualcuno – it makes me cringe.

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Come in ogni paese che si rispetti, anche i campi profughi hanno la loro moschea:

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