I veri scafisti siamo noi

Partiamo da un concetto semplice: se una persona è disposta a rischiare seriamente la vita facendo una traversata in mare vuol dire che l’alternativa che ha, quella di rimanere dov’è, è peggio che rischiare la vita. Se è disposta a pagare per farlo, vuol dire che l’alternativa è molto peggio. Detto in altre parole, non attraversare il Mediterraneo significa per queste persone una delle due seguenti cose:
– rimanendo nel proprio Paese quelle persone correrebbero un rischio maggiore di essere uccise
– rimanendo nel proprio Paese quelle persone vivrebbero una vita che loro considerano chiaramente peggiore che rischiare la morte

NaufragioNei fatti, ciò che questa preferenza dice è che – contrariamente a quanto suggerirebbe l’intuito – pagare uno scafista per fare la traversata del Mediterraneo permette a chi lo fa di diminuire il rischio di morire o di vivere una vita peggiore della morte. Lo scafista non lucra sulla vita delle persone, lucra sulla possibilità di offrire un futuro migliore a quelle persone. Naturalmente non mi spingo a dire che siano personaggi positivi, perché per la maggior parte sono delinquenti con pochi scrupoli affiliati a piccole o grandi mafie locali.

Ma non è il loro operare a portare più morti, come dimostra il ragionamento. A portare più morti sono le leggi assurde dei Paesi europei che costringono questi esseri umani disperati a rischiare la vita per muoversi da un luogo all’altro del mondo. A portare più morti sono le frontiere chiuse dai nostri Paesi, che sono anche l’unica ragione per la quale gli scafisti esistono: via frontiere chiuse, via scafisti. A portare più morti siamo noi.

E c’è di peggio. La ragione più diffusa per rifiutare di accogliere queste persone è che il migrante venga a sottrarci la nostra ricchezza, sia essa posti di lavoro, sussidî o welfare. Non li accogliamo per la banale ragione che vogliamo tenere per noi quei soldi, e questo vuol dire – matematicamente – uccidere più persone. Più chiaro di così. Quelli che lucrano sulla morte delle persone non sono gli scafisti. Quelli che lucrano sulla morte delle persone siamo noi.

Buon San Valentino, ma non a voi

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L’unica tradizione di questo blog, come ogni anno, il post di San Valentino.

Tanti auguri.

Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita, e in tanti altri posti del mondo, festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è una parodia, si chiama veramente così. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.

Parliamo di utero in affitto

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Pensavo di essere favorevole all’utero in affitto: gli unici argomenti contro alla pratica che avevo ascoltato erano quelli che riguardavano lo “sfruttamento”. Sostantivo equivoco e che intende due cose: l’idea che una persona povera possa decidere di avere un “reddito da maternità”, e questa decisione sia influenzata da una costrizione economica. E quella che si preoccupa che, in alcuni Paesi con sistemi giuridici più labili, una donna sia fisicamente costretta a fare la madre seriale in affitto. Sono due preoccupazioni diversissime: la prima si risolve logicamente, la seconda è un’obiezione non sostanziale.

Chi parla di “costrizione economica”, ho l’impressione, non ha idea di cosa sia la povertà, o se l’è dimenticato. La povertà costringe a fare qualunque cosa, spesso cose peggiori di fare la madre in affitto, ed è sensato che a decidere quali siano le cose migliori o peggiori sia la donna stessa (e non lo Stato, per lei). Riconoscerete, è un discorso simile al medesimo argomento sulla prostituzione. Se pensate che il ricorso al reddito da maternità sia sgradevole e un effetto della povertà, fate bene a combattere contro la povertà, ma finché quella c’è, togliere un’opzione a una donna che domanda di poterne usufruire (denunciandone, in contumacia, lo sfruttamento) è non soltanto illogico, ma anche sessista.

Chi, invece, si preoccupa che in alcuni Paesi lo sfruttamento sarebbe reale, basato su costrizioni fisiche, ha buone ragioni per preoccuparsi, ma la soluzione sarebbe semplice: limitare la legalità della pratica ai Paesi nei quali si hanno sufficienti garanzie che ciò non succeda. Sia a livello giudiziario che esecutivo: potrebbe voler dire escludere Paesi anche importanti, come l’India, ma questa non è un’obiezione di principio. È una preoccupazione pratica che ha una soluzione.

SurrogaInvece, approfondendo la questione con il mio amico Pietrino Cadoni, mi sono reso conto di essere impreparato a rispondere ai suoi dubbî sulla questione, spostando la mia valutazione dal «qual è il problema?» al «forse il problema c’è». I suoi dubbî sono riconducibili a tre filoni.

1) Certo che ci deve essere la libertà di affittare il proprio utero. Ma non è un uso subottimale di risorse? È enormemente laborioso farlo: espianto, fecondazione in vitro, reimpianto, etc. Costa tempo, dolore e denaro: tantissimo. Non è uno spreco, forse?

Quanto deve contare la volontà di una coppia di avere (metà) dei proprî geni? Nei fatti, con tutti i bambini senza genitori che ci sono, non dovrebbe essere fortissimamente incentivata l’adozione piuttosto che un processo simile? E se la risposta è che il processo di adozione è troppo difficile, magari la risposta è renderlo più facile (ovviamente parto dal presupposto che anche gli omosessuali debbano avere questo diritto). Trovo completamente sensato essere prudenti nel dare dei figli a delle famiglie, ma non dimentichiamoci che la cosa che succede alla larghissima parte dei bambini è di nascere e crescere in una famiglia scelta a caso. Forse dovrebbero, semplicemente, essere (molto) alleggerite le procedure per l’adozione?

2) Certamente i bravi genitori lo sono a prescindere dall’orientamento sessuale e tutta la letteratura scientifica lo indica. Ma nei primi mesi di vita il bambino non sta meglio con la madre che l’ha avuto in grembo? Stiamo creando una situazione obiettivamente peggiore. Ripeto, libertà assoluta, ma stiamo facendo danno al bambino; e non per rispettare la volontà della madre, ma per tornaconto economico e per il desiderio di prole di una coppia. Questa magari è una fesseria, ma proprio non so rispondere.

Questo (la prima parte) è un tema sul quale, semplicemente, non sono qualificato a rispondere. Ci sono sicuramente psicologi o sociologi dell’infanzia che hanno delle risposte più precise, e che invito a intervenire. Attenzione, però: non si tratta dell’obiezione, sciocca, secondo cui a un bambino servono madre e padre, ma del fatto che nei primi mesi di vita avere la madre (o una madre) possa essere un vantaggio. Come ho detto, non so quanto ciò sia vero (tenderei a dire di sì), ma se ciò è vero, bisognerebbe incentivare moltissimo l’adozione (anche coi metodi scritti qui sopra). La seconda parte, invece, mi preoccupa meno. Una cosa che però voglio rilevare è che questa sarebbe un’obiezione anche alla fecondazione eterologa e, al contrario, non lo sarebbe alla donazione di un seme maschile a una coppia di lesbiche.

Se si può pagare l’uovo, si può pagare il seme, l’espianto, l’impianto, l’uso dell’utero, allora dobbiamo logicamente rendere oggetto di compravendita il prodotto finale. Cioè il bambino. Magari è un modo per farne nascere di più, tipo pacchetto all inclusive. Ma a quel punto dei bambini che abbiamo già, pronti, che ne facciamo? Li vendiamo?

Penso sia un buon argomento, con il solo caveat che alla domanda “ma se io sono d’accordo con questo, devo necessariamente essere d’accordo con quest’altro” si risponde logicamente con “allora sono d’accordo con entrambi”, altrimenti è una slippery slope. In quale momento l’acquisto di un essere umano diventa schiavitù? Finisce per essere una questione bioetica: quando ha coscienza? Quando ha cognizione del dolore? Quando è partorito? Ciascuna di queste riposte complica enormemente la possibilità di fare una legislazione coerente.

Insomma, non credo che queste siano opinioni conclusive, ma credo siano ottimi elementi di riflessione su un tema sul quale – sarà probabilmente evidente – avevo ragionato meno che su altri, spero che non siano utili solo a me.

Buon San Valentino, ma non a voi

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L’unica tradizione di questo blog, come ogni anno, il post di San Valentino.

Tanti auguri.

Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita, e in tanti altri posti del mondo, festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è una parodia, si chiama veramente così. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.

Omofobia e calcio, la storia di Graeme Le Saux

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per Il Post

Omofobia è una brutta parola, perché decide che l’unica fonte d’odio per gli omosessuali è la paura deliberata (-fobia). In realtà il disprezzo per gli omosessuali ha molte forme: la repulsione, l’odio diretto, l’ignoranza schietta, il conformismo che ride del diverso, e in generale un approccio acritico, che non si domanda davvero che bene o male possa fare un omosessuale, ma si affida a quello che ne pensa l’ambiente che si ha attorno. E l’ambiente è spesso maschilista, banale, ferocemente canonico.

Per questo è difficile ragionare su come sia giusto rapportarsi a Sarri, che è semplicemente il prodotto di una mentalità: Sarri, ovviamente e al contrario di come ho letto, non voleva offendere la comunità omosessuale, né voleva suggerire che Mancini fosse davvero omosessuale. Sarri appartiene a un ambiente, e più in generale una cultura, dove l’impiego della parola “frocio” è uno dei possibili insulti, e lo è perché è il contrario di essere “un vero uomo”, dove essere-un-vero-uomo è qualcosa di auspicabile.

E come si cambia un ambiente? Come si cambia una cultura? Molti fanno riferimento, anche in questo caso, al “modello inglese” – lo stesso Mancini ha detto che, in Inghilterra, Sarri verrebbe squalificato per due anni – ed è vero che nel calcio inglese c’è stata una rivoluzione di mentalità. A questa hanno contribuito più di tutto due storie: quella tragica di Justin Fashanu, e quella di Graeme Le Saux. Mentre la storia di Fashanu è stata spesso raccontata, quella di Le Saux è quasi del tutto sconosciuta, in Italia.

Le Saux
Graeme Le Saux

Graeme Le Saux è stato un terzino sinistro del Chelsea e di altre squadre inglesi: era considerato un grandissimo talento, che non ha pienamente corrisposto alle aspettative che si avevano su di lui, storia abbastanza comune. In Inghilterra, però, è conosciuto per un altro fatto: per tutti gli anni 90 è stato dileggiato, irriso, preso in giro e accusato di essere omosessuale, una vicenda che tutti gli spogliatoi, tutti i talk show, e tutte le tifoserie conoscevano e – a modo loro – sfruttavano. Incidentalmente, Graeme Le Saux non è omosessuale: il che dovrebbe essere un dettaglio irrilevante. Le Saux ha raccontato la propria vicenda nella sua autobiografia: “non sono gay, e non lo sono mai stato, ma sono diventato vittima dell’ultimo tabù del calcio inglese”.

In un passaggio titolato giornalisticamente dal Times “Come l’accusa di essere omosessuale ha rovinato la mia carriera”, racconta la classica pressione all’omologazione che c’era nello spogliatoio e il sillogismo strano=omosessuale: “Siccome avevo interessi diversi, siccome non mi sentivo a mio agio nella cameratesca e machista cultura dell’alcol che era dominante nel calcio inglese di fine anni 80, fu dato per scontato dai miei compagni di squadra che in me c’era qualcosa di sbagliato. Ne seguì, naturalmente, che dovevo essere gay”.

Tutto cominciò nell’estate del 1991, quando Le Saux era un ragazzo appena uscito dalle giovanili. Durante quella stagione aveva fatto amicizia con un compagno di squadra (per di più nero, del Suriname) chiamato Ken Monkou e avevano fatto un viaggio assieme. Al ritorno dalle vacanze, i compagni gli avevano chiesto delle proprie vacanze e Le Saux aveva raccontato del viaggio. Da questo banale episodio cominciò a diffondersi nello spogliatoio la battuta su “Le Saux che va in campeggio con Monkou”. Risate.

La battuta da spogliatoio fu replicata. Le Saux stesso dice che, al tempo, era un ragazzo sensibile alle offese e piuttosto ingenuo e prendeva le cose più seriamente di quanto avrebbe dovuto, e anziché ridere delle prese in giro – come la cultura da spogliatoio gli richiedeva – reagiva e protestava. Non so quanto non reagire l’avrebbe aiutato, perché è una situazione senza via d’uscita: se non reagisci all’accusa vuol dire che quell’accusa è veritiera; se reagisci, è perché hai qualcosa da nascondere. In entrambi i casi è “vedi, ti ho fatto tana”. Nei fatti, sei spacciato.


Le Saux ha detto che nei momenti peggiori, periodi simili alla depressione, ha pensato seriamente di smettere di giocare. Non avremmo visto questo pallonetto a niente meno che Peter Schmeichel

Un altro fattore che confermava i pregiudizî dei compagni sulla sua stranezza, e quindi sulla sua omosessualità, era che Le Saux leggesse il Guardian, un quotidiano generalista, e per di più di sinistra e con un’aura intellettuale. Una volta Andy Townsend, un compagno di squadra, lo vide leggere il giornale, glielo prese dicendo di voler leggerlo, e dopo un paio di secondi glielo rilanciò a terra dicendogli «ma non c’è un cazzo di sport qui dentro!». Il resto della squadra scoppiò a ridere.

“Tutto quello che facevo veniva usato come prova che fossi omosessuale: come mi vestivo, la musica che ascoltavo, il fatto che andassi alle mostre, I giornali che leggevo, erano tutti indizî che andavano a confermare il loro pregiudizio sulla mia sessualità”.

Le Saux diventò oggetto di prese in giro giornaliere, e con la fama le cose peggiorarono. “In quei giorni, se qualcuno pensava che tu fossi anche solo un poco effemminato, eri nei casini”.  Il pettegolezzo si diffuse agli allenatori, alla società, e a settembre “quello che più temevo si concretizzò”. Durante una partita col West Ham, il tifosi avversarî cominciarono a cantare sul motivo di Go West “Le Saux, takes it up the arse” (Le Saux lo prende nel culo). “Pensai: o mio Dio, è finita. Sapevo che da quel momento in poi i tifosi di qualunque squadra mi avrebbero rovinato la vita”.

Il coro divenne una costante. Se c’era un momento di vuoto nella partita, se non c’era un gol, un’azione o un altro canto da fare, quel coro era l’opzione di riserva. Quella sempre a disposizione. Da questo, dice Le Saux, capisci molto della mentalità delle masse: se la partita comincia male, dirigono la loro rabbia e frustrazione verso di te. “La varietà degli insulti che la gente indirizza agli omosessuali diventò la materia nella quale sono specializzato”.

“Provai a prevenirlo facendo il macho – pensate che vita miserabile deve essere, cercare di manifestarsi come macho in ogni cosa che si fa in campo – la cosa peggiore era quando andavo a battere un calcio d’angolo, e vedevo le persone a pochi metri da me, gente livida di rabbia che mi urlava insulti”. Un episodio che lo colpì molto accadde ad Anfield Road: andò a battere un fallo laterale e vide a pochi metri di distanza un bambino di non più di dieci anni che gli gridava «frocio, lo prendi nel culo!», con il padre del bambino che anziché sgridarlo si associò a lui negli insulti.


Le Saux che fa il macho, qui una rissa in campo con il suo compagno di squadra David Batty

E ovviamente cominciarono i giocatori avversarî: un caso eclatante fu quello di Paul Ince, con cui Le Saux aveva sempre avuto un bel rapporto. Durante una partita, Ince aveva provocato varie volte Le Saux con il solito insulto – “frocio, frocio!” – e dopo avergli fatto un fallo, con Le Saux a terra, gli disse: «alzati, signorina, non ti sei fatta nulla». A quel punto Le Saux rispose con un insulto alla moglie di Ince. Questi impazzì, per tutto il resto della partita provo a spezzargli una gamba, e sulla via degli spogliatoi gli tirò un cazzotto. “Voleva ammazzarmi”, dice Le Saux aggiungendo di non essere orgoglioso dell’insulto alla moglie di Ince, ma “volevo fargli provare un po’ della stessa moneta”.

In tutto questo c’era un dilemma piuttosto ovvio, e cioè che smentire le accuse, rispondere gli insulti, lo mettevano in una situazione davvero complicata: era difficile continuare a negare, con sempre più forza, di essere omosessuale, senza essere irrispettosi nei confronti degli omosessuali stessi. “Mi sono domandato se fosse diffamatorio essere chiamato omosessuale dato che non lo ero”, dice Le Saux, in una domanda che riecheggia la sciocca attenuante data a Sarri sulla non omosessualità di Mancini. “Ma nel calcio penso che lo sia, perché uno si deve difendere: ammettere di essere gay può voler dire la fine della tua carriera”, nessuna squadra ti cerca più, nessun allenatore ti vuole più in squadra perché pensa che potresti creare problemi allo spogliatoio. “È un atto d’accusa per il calcio, ma è così”.

Il più bel gol di Le Saux con la maglia della Nazionale

Il culmine della vicenda capitò in una partita contro il Liverpool. Robbie Fowler, attaccante noto per le sue trovate, fece un fallo su Le Saux, seguito dal solito “alzati ricchione”. Poi si piegò con il sedere verso Le Saux come a dirgli “vieni, vieni, è per te”. Il guardalinee aveva visto tutto, e Le Saux andò da lui a chiedergli cosa pensasse di fare. “Vidi su di lui uno sguardo di una persona nel panico”. Quando Le Saux disse che non avrebbe ripreso a giocare se la terna arbitrale non avesse preso provvedimenti, l’arbitro ammonì Le Saux stesso per perdita di tempo. Le Saux dice che quella fu un’occasione in cui il calcio avrebbe potuto prendere una posizione: se l’arbitro avesse espulso Fowler, tutto il sistema calcio si sarebbe dovuto confrontare con il problema che aveva. “Forse avrei dovuto rifiutarmi comunque di battere se non lo avesse espulso, e così venire espulso io, ma non mi andava di diventare un martire della causa”.

Fowler continuò con lo stesso gesto nel corso di tutta la partita, quindi Le Saux andò da lui e gli disse: «Robbie, c’è la mia famiglia sugli spalti». Fowler rispose: «anche Elton John era sposato!» o «sticazzi della tua famiglia», a seconda di quale delle due versioni si ascolta. A quel punto Le Saux non ci vide più, e, a palla lontana, tirò una gomitata sul viso a Fowler. Qualche settimana dopo Fowler ne fece un’altra delle sue, e dopo un gol andò a sniffare una riga del campo, come fosse cocaina: la cosa curiosa è che lo fece per smentire e prendere in giro le voci e calunnie che lo accusavano di essere cocainomane, proprio come voci e calunnie erano quelle che avevano armato il suo comportamento nei confronti di Le Saux. Ma né lui, né Ince (insultato più volte per il colore della pelle) si resero conto della similitudine. Il paradosso, dice Le Saux, fu che la federazione diede a Fowler una punizione molto peggiore per quello che era solo uno scherzo, che non insultava nessuno, che non per il suo atteggiamento nei confronti di Le Saux.


Uno dei gesti di Fowler, e la gomitata di Le Saux

Da quel momento, comunque, i cori cominciarono a diventare meno arrabbiati e a rarefarsi. Era scaturito un dibattito, sulla puerile crudeltà di quel trattamento. Anche Le Saux cominciò viverla più serenamente: “quello che Robbie aveva fatto era sempre stata la mia più terribile paura, ora che era successo, non c’era nulla di peggio che poteva capitarmi”. Quasi a fine carriera, le cose per Le Saux migliorarono, “Comunque, sentii una sensazione di grande sollievo quando mi ritirai”.

Indipendentemente dal fatto che la federazione inglese non prese dei provvedimenti serî, questa vicenda segnò un’evoluzione della consapevolezza del problema del rifiuto dell’omosessualità nel calcio. Si aprì un dibattito, e la sola manifestazione del problema, ignorato per la gran parte da tutti, servì a confrontarcisi e trovarne soluzioni. Naturalmente l’Inghilterra non è il paradiso: il disprezzo per gli omosessuali non è sparito, come non è risolto il problema del razzismo; ma è nota qual è la linea collettiva, quale il pensiero comune e ufficiale, quale l’aspettativa dei media, ed è di ferma condanna per un comportamento simile.

Oggi Graeme Le Saux lavora per la FA, la federazione inglese, ed è parte dell'”Inclusion Advisory Board”, cioè è membro del direttivo che suggerisce quali siano i metodi migliori per favorire l’inclusione delle diversità nel calcio. L’Inclusion Advisory Board è una di quelle istituzioni le cui iniziative sono criticate da molti come inutili, o di mera immagine, ma che per lo meno testimoniano l’impegno e la direzione che la federazione vuole dare. È la dimostrazione che c’è stato un cambio di mentalità, e che questo cambio di mentalità è arrivato fino alle sedi federali.

Per questo il problema non è Sarri o Fowler. Loro sono solamente la manifestazione del problema. Nei fatti non si può chiedere a tutti i calciatori di essere come Le Saux, un giocatore con uno spirito critico fuori del normale. La cultura di dileggio degli omosessuali che ha respirato negli spogliatoi fin da bambino, ha plasmato il comportamento di Fowler, che è sempre stato un calciatore un po’ più sguaiato degli altri, e nel comportarsi in quel modo, ha semplicemente spinto un po’ più in là il comportamento che tutti consideravano accettabile nei confronti di Le Saux. Per ironia della sorte, il suo farlo in maniera così eclatante ha permesso a tutti di discutere e di modificare quella cultura cosicché i giocatori che vengono formati oggi imparino a non fare gli stessi errori che ha fatto Fowler.

Per conto proprio, un paio di anni fa, Fowler ha scritto su Twitter: “Continuano a dirmene per una cosa che è successa quand’ero un ragazzino, ingenuo e immaturo. Ho chiesto scusa a Graeme Le Saux e lui ha accettato. Ovviamente sono imbarazzato se mi guardo indietro, ma purtroppo non posso cambiare quello che è successo. Si impara dagli errori crescendo, e io ho imparato”.

 

È la religione, non la politica

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Tutti quelli che, in queste ore, stanno dicendo la sciocchezza che ciò che motiva gli attentati di Parigi è la politica e non la religione provino a rispondere a una semplice domanda: perché, in questa fase d’incertezza, siamo certi che tutti gli attentatori siano mussulmani? Attenzione: non sto dicendo che non esiste un terrorismo non mussulmano, non sono scemo, la storia ne è piena. Sto domandando: se la causa di questi attentati è politica e non religiosa perché sappiamo che tutti gli attentatori di questi attentati sono mussulmani? Saranno francesi, siriani, potrebbero essere marocchini, sauditi, belgi, tunisini, britannici, iracheni, italiani, giordani, kuwaitiani, spagnoli, libici, turchi (queste sono alcune delle nazionalità che hanno commesso attentati suicidi in Iraq e Siria) eppure siamo certi che siano tutti mussulmani.

CartoonistE, all’inverso, quante persone conosciamo che sono contrarie – anche molto contrarie – alla politica estera dei governi americani o a quelle dei governi europei eppure siamo certi che non siano parte degli attentatori? Perché, nonostante sappiate la mia contrarietà all’occupazione israeliana in Palestina, sareste sconvolti a sapere che io sia andato in Francia a farmi esplodere al Bataclan? Eppure se il problema fosse “la politica”, dovremmo vedere migliaia e migliaia di nostri conoscenti – atei, cattocomunisti, testimoni di Geova, interisti – che anziché scrivere status contro i bombardamenti in Siria prendono una cintura esplosiva e vanno a farsi esplodere in un teatro parigino. La risposta è molto semplice: l’unico tratto comune che hanno tutti gli attentatori, che vengono da parti lontanissime e diversissime del mondo, da posti distantissimi dagli attuali teatri di guerra, da condizioni economiche e di istruzione di tutti i tipi, è l’essere mussulmani.

E domandatevi un’altra cosa: perché in qualunque altro crimine nessuno fa quest’odiosa e arrogante operazione di doppiaggio del pensiero che avviene in questi giorni? Ci sono migliaia e migliaia di persone che commettono queste atrocità e spiegano che è la religione a muoverli, fanno rivendicazioni che citano sure del Corano (questa volta erano 59:2 e 63:8, altre volte sono state molte altre), che tirano in ballo gli infedeli, la guerra a difesa dell’Islam, la blasfemia e l’apostasia; eppure alcuni di noi pensano di essere dei veggenti e di conoscere le reali intenzioni delle persone che organizzano e commettono queste violenze meglio delle persone stesse che le commettono. Loro dicono che a spingerli sia la loro fede, lo dicono in ogni occasione ed elaborano articolate – per quanto aberranti – spiegazioni teologiche, ma IO so certamente meglio di loro perché lo fanno.

Questa è un’operazione che non facciano mai, per altri crimini violenti: un gruppo di fascisti che prende a bastonate un immigrato e dice di farlo perché “i negri fanno schifo”, che ammazza un ebreo e dice di farlo perché è “uno sporco giudeo”, che picchia una coppia omosessuale e dice di farlo perché “è un frocio di merda”. Non esiste che qualcuno si metta a dire: in realtà dice di farlo per il Duce, ma io so meglio di lui che la ragione è la cattiva amministrazione locale o com’è finita la gara di appalti. E questo non vale solo per il fascismo, vale per qualunque ideologia: l’unico caso nel quale pensiamo di conoscere le motivazioni di determinate azioni meglio di chi le compie è quando è coinvolta la religione, in questi ultimi anni l’Islam.

È sempre utile rileggere quello che scriveva, ormai quasi dieci anni fa, Hassan Butt:

Quando ero ancora un membro della Rete Jihadista Britannica, una serie di gruppi terroristici semi-autonomi collegati da una sola ideologia, mi ricordo come celebravamo con delle grasse risate tutte le volte che in televisione le persone proclamavano che la sola causa degli atti di terrorismo islamici come l’Undici Settembre o le bombe a Madrid e Londra fosse la politica estera dell’Occidente. Biasimando il governo per le nostre azioni, coloro che parlavano delle “bombe di Blair” facevano propaganda per noi. E, ancora più importante, ci aiutavano a portare via l’attenzione da un esame critico di quello che era il vero motore della nostra violenza: la teologia islamica.

Questo non vuol dire, ovviamente, che è sufficiente essere mussulmani per commettere questi attentati – l’umanità, e così i mussulmani, è spesso meglio di quello che crediamo – ma che è necessario esserlo. Vuol dire che c’è qualcosa, nelle scritture o nella tradizione, nella sua rivelazione o nelle sue correnti interpretazioni, che causa (o che è parte necessaria in causa di) questi attentati. Quale sia questa parte, e quale sia il modo per fare sì che non ci sia più, è oggetto di un altro post, ben più lungo, e che per gran parte non sarei in grado di fare: ma il primo passo nel risolvere un problema è sempre riconoscere quel problema, mettere sul tavolo i dati e i fattori che lo compongono, chiamare le cose col proprio nome. Scrivere, in queste ore, “la religione non c’entra nulla” non è aiutare a risolvere il problema, è esserne parte.

La condivisione, l’amicizia vera

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Lunghissima e tediosissima premessa
Questo è probabilmente il post di questo blog fruibile da meno lettori. Se cominciate a leggerlo ci sono molte possibilità che finiate a dire: ma che cosa sto leggendo? Si parla di etica, di amicizia, di famiglia. Se ne parla, però, in un modo in cui probabilmente non avete mai parlato dell’amicizia, delle persone alle quali si vogliono bene. Oppure in un modo che pensate eccessivo: eccessivamente emotivo, eccessivamente razionale, eccessivamente fiducioso. È una cosa che ho scritto per me, per metterla assieme per iscritto e rileggerla, e avrei preferito farla leggere a poche persone; poi mi sono sentito un egoista e un vigliacco ad avere questo pensiero (ho molta paura di rimanere deluso) e perciò mi sono imposto di pubblicarla qui.

Inoltre questo post parte da alcune premesse, ovviamente opinabili, senza le quali il post perde completamente di senso ed è quindi inutile leggerlo. Le premesse sono di due ordini, di metodo e di contenuto. Quelle di metodo (che possiamo definire utilitariste e illuministe) sono:

  • I) Il nostro obiettivo (quello dell’etica) è garantire il maggior benessere delle persone, o diminuirne le sofferenze.
  • II) L’unico strumento efficace di conoscenza del mondo che abbiamo è la ragione: dove per ragione intendo il metodo scientifico, lo scetticismo, il rigore. Non che la razionalità sia un metodo al 100% efficace, tutt’altro, è che è l’unico che ha una qualche efficacia.
  • III) Per questo qualunque proposizione, argomento o obiezione deve essere vagliato secondo le regole elementari della logica: fallacie logiche come “se sostieni la cosa x, che porta a y, allora finirai a sostenere z” (piano inclinato), “dato che non possiamo sapere x, allora y è vero” (argumentum ad ignorantiam), “x è sbagliato perché è x”(petitio principii), o qualunque tipo di non sequitur, non sono ammesse. Per contestare un argomento bisogna contestarne le premesse o il ragionamento.
  • IV) Condividere una decisione con più persone ha statisticamente più possibilità di produrre una soluzione migliore rispetto a produrla da soli. Ciò non vuol dire che tutte le volte sia vero, ma che sono più le volte in cui avere altri pareri migliora l’accuratezza di una decisione, rispetto alle volte in cui la danneggia.

Quelle di contenuto:

  • A) Essere veramente amici di una persona vuol dire tenere alla sua felicità o infelicità quanto alla propria. In pratica, alla domanda: «meglio che io venga torturato per un giorno, o l’amico venga torturato per due giorni», la risposta è necessariamente la prima (a parità di tipo di tortura, capacità di sopportare il dolore, etc.).
  • B) È possibile fidarsi delle persone. È possibile fidarsi al punto da fidarsene quanto ci si fida di sé stessi. Una fiducia che investe anche il futuro: mi fido che quella persona non diventerà cattiva.
  • C) Non aspiriamo a un sistema perfetto. Aspiriamo a un sistema migliore di quello che usiamo ora. Non aspiriamo a un sistema senza errori, ma a un sistema che porta a meno errori di quello che usiamo ora.

Ultima cosa: questo post continuerà a essere editato, per cercare di renderlo più accurato, più preciso, più esauriente. Se qualcuno fa delle obiezioni che fanno cadere un mio punto, quel punto sarà rimosso, e così via.

LA CONDIVISIONE
Alcuni ricorderanno il post che avevo scritto a proposito della famiglia: dicevo che trovavo vacillante il concetto dell’affetto scontato, basato sull’accidente e non sul merito. Dicevo che è insensato dare completa fiducia e affetto indipendentemente dalla stima e dai comportamenti. Non contestavo l’esistenza di una istituzione, la famiglia, in cui si cerca di fare il bene di tutti, e non si privilegia il proprio a scapito di quello degli altri. Ora mi trovo a domandarmi: ma perché questo concetto non dovrebbe applicarsi anche agli amici? È naturale che si voglia che la persona della propria vita (marito/moglie/coniuge/compagno) sia la persona con la quale più si vuole condividere, ma perché non bisognerebbe condividere anche con le persone alle quali più si vuole bene?

Per amici, intendo veri amici, una stretta minoranza di persone, ognuno ne ha un diverso numero (qualcuno non ne ha alcuna). Sto quindi parlando di persone elette, che abbiamo scelto al nostro fianco per le loro qualità. Questo porta all’esclusione immediata di qualunque persona che si ritiene una (o più) di queste tre cose:

  • 1) Disonesta. Cioè una persona di cui non ci si fida al 100%, che ci potrebbe mentire o ingannare per trarne vantaggio.
  • 2) Stupida. Cioè incapace di sviluppare un ragionamento E (importante) incapace di rendersi conto di questi limiti.
  • 3) Cattiva. Cioè desiderosa di privilegiare il proprio bene su quello degli altri coinvolti, quindi non disposta a sacrificarsi.

*Aggiunta del 06/10: Il punto 2) (la stupidità), messa assieme alla premessa di metodo IV (condividere decisioni, fa prendere decisioni migliori) necessitano di maggiore chiarezza. Prendere decisioni assieme è meglio perché, assumendo l’intelligenza di tutti, ciascuno saprà riconoscere la propria ignoranza (in principio, o mostratagli durante la discussione). Se io non capisco nulla di meccanica, delego la decisione a chi ne sa. Allo stesso modo, non è necessario essere tutti intelligenti allo stesso modo, l’importante è che una persona sappia riconoscere i proprî limiti quando le vengono mostrati.*

*modificato il 06/10: Per condivisione intendo una cosa molto radicale: che il processo decisionale di qualunque scelta individuale sia potenzialmente (potenzialmente, è importante) condiviso con tutte queste persone; e che i costi e i benefici di queste scelte siano condivisi da tutte. In altre parole: le decisioni si prendono collettivamente e le risorse coinvolte in queste decisioni (tempo, denaro, fatica, vantaggi, svantaggi) sono quelle di tutti a prescindere da chi sia il più diretto interessato da queste decisione. Il punto è proprio questo: ciascuno è ugualmente interessato dalle cose che capitano a tutti gli altri. In pratica quello che si fa, normalmente, in una famiglia. Ciò vuol dire che se una (o più) persone deve prendere una decisione importante, tutte le persone vengono coinvolte e hanno voce in capitolo, e tutte le persone condividono i costi e i benefici della decisione adottata.

Importante: la condivisione è un metodo di decisione e distribuzione delle risorse. Non è una ricetta con un contenuto su cosa è meglio fare in determinate situazioni: è una valutazione su quale è il miglior processo decisionale di quelle situazioni, e sul fatto che le risorse di tutti sono messe in comune. In questo metodo si cerca la migliore spartizione di tempo, delle risorse, e delle competenze delle persone coinvolte. Ciò vuol dire che su alcuni temi la migliore spartizione potrebbe essere benissimo “ciascuno per sé”, come facciamo oggi: non è che ogni volta che compro uno yogurt devo telefonare alla mia famiglia per accertarmi dell’acquisto, se è la marca più buona, se la spesa vale la pena, se è meglio che lo faccia qualcun altro, etc. In quei casi, semplicemente, si considera che il tempo impiegato a discutere/condividere una cosa simile non vale il risparmio di qualità/tempo/denaro.*

Nei fatti, il sistema che adottiamo ora è un sottoinsieme della condivisione: è una specifica forma di ripartizione in cui abbiamo deciso, in maniera del tutto casuale (e solo per convenzione, perché siamo stati educati così), che il modo migliore per garantire la felicità a tutti e su tutti i temi è “ciascuno per sé” per i single, e “condivisione solo con moglie/marito/(figli)” per chi ha una famiglia. Ma che questa ripartizione, scelta in maniera completamente casuale, sia la migliore in assoluto sarebbe un caso enorme: del resto, anche il solo fatto di disporre quando si ha più necessità, e mettere a disposizione quando se ne ha meno, tempo o denaro da/per altre persone dà un inevitabile vantaggio (in una settimana molto piena è utile che un’altra persona mi sgravi di una faccenda, anche molto personale, perché quel tempo, in quel periodo, “vale” di più per me). Il metodo “ciascuno per sé” è un metodo prudente, ma se ci si fida delle tre premesse di cui sopra, è sicuramente più inefficace.

Questo metodo ha a che fare con le scelte interne (come organizziamo la nostra vita? A chi, fra noi, spetta questo compito? Facciamo un viaggio?), ma anche e soprattutto con le scelte etiche da fare verso l’esterno: fare la raccolta differenziata? Accettare un lavoro in una società di scommesse? Trasferirsi in un altro continente per lavoro? Se si ha a che fare con persone oneste, intelligenti e buone non c’è ragione per la quale ciascuna decisione della nostra vita non dovrebbe essere condivisa.

ESEMPÎ
Si rompono le tubature in casa di Carla: questo non è un problema suo, ma è un problema di tutti. Non sarà lei a dover chiamare l’idraulico e occuparsene: o magari sì, perché è più facile organizzativamente. Ma è altrettanto possibile che se ne occupi Barbara, perché ha più tempo in quel periodo, o Daniele, perché la mattina in cui verrà l’idraulico passa vicino a casa di Carla. Magari il guadagno in termini di tempo è poco, ma non c’è ragione per la quale dovrebbe “spettare” al proprietario delle tubature.

Antonio deve decidere se accettare un’offerta di lavoro all’estero. Anziché parlarne con la moglie e scambiare un parere con qualche amico, ma sempre con il dato assunto che quella è una decisione da prendere esclusivamente per il proprio bene, perché la decisione di Antonio non viene condivisa? Se Antonio partirà per l’Australia questo avrà conseguenze sul benessere di tutti, non solo la moglie, ma anche tutti coloro che popolano la sua vita. Magari la madre di Andrea è ammalata e c’è bisogno che qualcuno la accudisca, perché questo è responsabilità esclusiva di Andrea? Perché non dovrebbe farsene carico anche Antonio?

Silvia non ha un buon titolo di studio, e il massimo a cui può aspirare è fare un lavoro che non le piace; Matteo guadagna ben più di ciò che gli serve a sostentarsi. Se fossero una coppia, la cosa si risolverebbe con una spartizione dei compiti. Ma che senso ha che questo avvenga solo se c’è quel rapporto di coppia? Perché non dovrebbe avvenire esattamente lo stesso, magari Silvia può aiutare Matteo quando gli si rompe la macchina, gli innaffia i fiori, magari dove può lo aiuta nel fare il suo lavoro, o a gestire le mille incombenze che ognuno di noi ha nella propria vita.

Maria e Carlo devono decidere a quale scuola elementare mandare il proprio figlio Giuseppe. Perché non dovrebbero partecipare, proprio alla decisione, tutte le persone veramente loro amiche? Visto che tutti hanno interesse a fare il bene di Giuseppe, la decisione dovrebbe essere presa assieme. Anzi: anche la decisione di fare un figlio dovrebbe essere condivisa, proprio perché il benessere di questa persona, e quella di tutte le persone che tengono alla coppia, sarà stravolto (in senso positivo o negativo) dalla nascita di un bambino.

Per ragioni etiche, Francesca prende la risoluzione di non comprare più prodotti di una determinata marca (o di non frequentare più una persona che si comporta male con il prossimo). Se Francesca non è colta da un raptus ma prende la sua decisione per motivi razionali, perché questi motivi non dovrebbero essere condivisi anche dalle altre persone che le sono amiche? Quindi, dopo una discussione, non è sua la decisione di smettere di comprare quella marca o di vedere quella persona. Dovrebbe essere di tutti. Al tempo stesso, le altre persone, se hanno trovato persuasivi gli argomenti di Francesca, dovrebbero comportarsi di conseguenza.

In tutti e cinque questi esempî l’unica ragione per la quale tutte queste scelte non dovrebbero essere condivise è che non si reputa davvero amico la persona con la quale ci si proporrebbe di condividere quella cosa. Se nessuna delle tre le condizioni prima enunciate (disonestà, stupidità, cattiveria) si verifica, non esiste ragione per non condividere anche queste scelte. Se esiste una di queste condizioni, come si può chiamare davvero amica quella persona?

OBIEZIONI E RISPOSTE
– Ciascuno conosce meglio le proprie esigenze rispetto a chiunque altro!

Questo è vero, e infatti è sensato che il parere della persona che in prima persona dovrà trasferirsi in Australia (ad esempio) sarà il primo da tenere in considerazione, ma il fatto che anche altre persone partecipino alla valutazione di questi dati può essere solamente un vantaggio.

– Ma per fare questa operazione ci vuole moltissimo tempo!
Dipende. Sicuramente andare in profondità su cose banalissime è una perdita di tempo, e non vale il vantaggio di fare la scelta migliore (ho preso il treno alle 15.23 anziché alle 16.23, e quello delle 16,23 ci metteva 10 minuti meno), ma su decisioni estremamente importanti non c’è – virtualmente – alcun limite di tempo che valga la perdita di precisione della risposta. Se bisogna prendere decisioni che incidono significativamente sul benessere di un figlio, anche il suo stesso concepimento, non c’è – sempre virtualmente – un tempo che non vale la pena perdere per garantirgli (e garantire a noi) più benessere. Fra questi due estremi ci sono moltissime vie di mezzo, e il fatto che su alcune decisioni non valga la pena perdere tempo, non vuol dire che su alcune altre non sia importantissimo.

– E se alla fine non si è d’accordo?
Innanzitutto, se si parte da premesse simili (quelle sopra, evitare la sofferenza di tutti, etc.), e si è intelligenti – nel senso che si riconosce l’intelligenza altrui quando, e sui temi in cui, sia superiore alla propria – con tempo infinito si raggiunge inevitabilmente la stessa conclusione. Naturalmente non abbiamo tempo infinito e ci saranno temi sui quali, come detto sopra, si pensa che il beneficio di chiarire una questione non valga il tempo speso a chiarirla. Ma questo non esclude che si condividano gli altri temi, e si condividano (nel modo più ragionevole e condiviso) anche le conseguenze di queste divergenze condivise.

– E allora perché non lo facciamo tutti?
Non lo facciamo tutti perché sono poche le persone di cui siamo certi che non siano disonesti, stupidi o cattivi (come definite sopra). Venuto meno uno di questi requisiti, la condivisione è inapplicabile. *aggiunta del 6/10: Molti di noi, che hanno un buon rapporto con il/la proprio/propria compagna già usano questo metodo con lei/lui: la ragione per la quale questo trattamento non si estende alle altre persone di cui ci si fida, gli amici, non c’è. In realtà il motivo per cui adottiamo il criterio “ognuno per sé” è che non ci fidiamo al 100% degli altri, perché se avessimo la garanzia che gli altri tengono al nostro benessere quanto ci teniamo noi, affidare loro le decisioni non avrebbe alcun costo, e bisogna sempre ricordarsi che qui stiamo cercando un sistema più efficace di “ognuno per sé” non un sistema infallibile.*

– E se una persona è meno capace?
La società in cui viviamo premia – o dichiara di premiare – la meritocrazia perché avere ponti che non cadono (architetti migliori) e pizze più buone (pizzaioli migliori) conviene a tutti, anche ai meno bravi. Ma non c’è ragione per punire chi non è capace, sempre che questo premio/punizione non dia incentivi o disincentivi. È possibile che alcune persone abbiano più incarichi di altri? Certo. Se a una persona scoccia meno degli altri fare la spesa, farà più volte la spesa. Se una persona sa aggiustare le macchine aggiusterà le macchine di tutti, in accordo con gli altri impegni e le altre incombenze. Sono tutte cose che si possono decidere con una discussione, per cercare di gestire meglio gli sforzi di tutti. Può essere anche che alcune persone puntino ad avere una vita più agiata di altri (vuoi una casa più grande? Vuoi fare vacanze più lunghe?), e conseguentemente facciano più sforzi su altri campi. Il concetto chiaro è che non c’è alcuna ragione che non sia disonestà, stupidità o cattiveria (come definite sopra) per prendere queste decisioni da soli e non assieme agli altri che si considerano amici.

– Ma quindi non è soltanto una cosa intragruppo, c’è anche una responsabilità verso gli altri, quelli che non fanno la condivisione?
Certo. Le scelte etiche che ciascuno fa sono basate su valutazioni e opinioni argomentate: quel negoziante non fa lo scontrino, io non ci vado; quella signora è in difficoltà, è giusto aiutarla. Quella persona si comporta male, non è giusto frequentarla. I casi della vita sono molto più complessi, ma alla base di ciascuna di queste decisioni c’è un ragionamento che non ha motivi di non essere condiviso. Perché dovrei escludere da una decisione una persona che considero onesta, intelligente e buona? Non potrebbe che aiutarmi a prendere la decisione migliore.

– E se una persona è più pigra o ha altri difetti?
Può essere che ci siano persone che non sono disposte ad avere lo stesso grado di impegno etico: andare a servire alla mensa dei poveri mi fa fatica, ad esempio. Rispetto a questo, ci si rapporta come tutte le altre cose: qualunque difetto che ha una persona deve essere valutato. Quella persona potrebbe migliorare? Sopperire a questo difetto, provvedendo per quella persona, disincentiverebbe la persona dall’impegnarsi? Ciascuna di queste domande deve essere analizzata, caso per caso, per prendere la decisione su come comportarsi, su quanta parte di pigrizia accettare. Ma questa è solo la mia opinione. Magari ne discutiamo e scopriamo che sbaglio e che bisogna avere un approccio diverso alla pigrizia. È una questione di metodo, non di contenuto. Qualunque di queste questioni è, necessariamente, inclusa nella premessa di metodo. Cioè che non c’è ragione per la quale questa decisione, come tutte le altre, non dovrebbe essere discussa e condivisa con le altre persone che consideriamo amiche.

– E se sbagliamo nel prendere le decisioni con questo metodo?
Sbagliamo e sbaglieremo sempre. Il metodo che adottiamo ora, cioè quello che abbiamo ereditato a caso dalla società nella quale siamo cresciuti, cioè “è meglio non condividere niente, se non i membri del proprio sangue” ha statisticamente più possibilità di essere sbagliato, proprio perché non è ragionato, ma è casuale. Ma sentire più pareri – e metterli nel processo decisionale – di persone alle quali si vuole bene, e che si considerano amiche, non può che essere positivo. Quindi, sì, certo che sbaglieremo, come sbaglieremmo con qualunque tipo di processo decisionale. Ma, condividendo le nostre decisioni con tutte le persone di cui ci fidiamo e che stimiamo, sbaglieremo di meno che prendendo tutte le decisioni di testa propria.

– Guarda che lo facciamo già!
Davvero pensi che in tutte le decisioni che prendi stai soppesando il tuo interesse e quello delle persone alle quali vuoi bene allo stesso modo? Consideri qualunque decisione che ti riguardi una decisione da gestire consensualmente con le persone alle quali vuoi bene? Se un tuo amico vuole andare in vacanza in Colombia, ti consulta prima di organizzare il viaggio? E se vuole cambiare lavoro? Domandati: se pensi a tutte le persone che sono tue amiche, ti senti coinvolto e responsabile per ogni cosa per la quale quelle persone si sentono coinvolte e responsabili? Lo fai già? Secondo me no. Se sì, ti voglio conoscere.

Le Iene e l’Addetto al Tormento

Evidentemente ci deve essere una buona parte di pubblico che pensa davvero che insistere a molestare una persona che ha già risposto «no, grazie, non voglio rilasciare interviste» serva qualche proposito giornalistico.

Mi piacerebbe dire che non guardo i servizî delle Iene, neppure sui temi che mi interessano, perché hanno un approccio sensazionalista e allarmista (oltre che antiscientifico) a ciò che trattano, vedi Stamina. In realtà non li guardo, neanche quando potrebbero lontanamente interessarmi, perché mi fa stare male vedere l’Addetto al Tormento™. Io vedo questo tizio, paladino di non si sa che verità, insistere, e insistere, e insistere (e chissà quanta altra insistenza è tagliata nel montaggio) con quello che hanno stabilito essere il cattivo di turno: provando a seguirlo in casa, in ascensore, in ufficio. Spintonandolo, mettendo il piede dentro la porta, dicendo frasi a effetto con il solo intento di farlo arrabbiare.

Venendo meno al mio proposito, ho visto questo servizio delle Iene su una bega di paese che avevo seguito passivamente perché ne parlavano i miei amici di internet e per gusto pettegolo. Qui, ora, andrebbe tutto il caveat su quanto a me Guia Soncini stia antipatica, che c’ho litigato dieci volte, eccetera. Che palle, non parlo di lei. Ora guardate quello che succede, e ditemi se non fa schifo.

C’è un momento, particolarmente indicativo, nel quale Soncini sta chiamando la polizia per cercare di farsi soccorrere e liberarsi dell’Addetto al Tormento e questi, come se avesse qualche rilevanza, aggiunge: «ma no, diglielo all’ispettore che siamo le Iene. Ispettore – grida sperando di farsi sentire – siamo le Iene!». In che modo il fatto di essere le Iene dovrebbe scagionare l’Addetto al Tormento? È chiaro che, in quella frase, l’Addetto al Tormento sta rivendicando una funzione civica.

Ma questa funzione civica è completamente assente. Nel momento in cui un intervistato dice «no, grazie, non voglio rispondere», la funzione informativa del giornalista si completa. Non vuole commentare, non c’è niente da aggiungere: un cronista riporta il fatto che non vuole commentare. Ciò che fa l’intervistatore insistendo ulteriormente è cercare una reazione, appellarsi al popolo, dipingere in maniera infame – e con nuovo stupore a ogni risposta, «ma perché non vuoi rispondere?» – una legittima scelta di chi sta subendo quella domanda. Ma se quello che vuole fare l’intervistatore è chiaro – spettacolo e non giornalismo, prendere qualche bel pugno così da poterlo mettere nel servizio – quello che si aspetta chi vede quel servizio non è chiaro. Non puoi trarre alcuna nuova informazione sul tema, perché godi nel vedere questo surplus di pena – rispetto a quella che, eventualmente, gli comminerà un giudice – con il proprio tormento?

Sei al sicuro

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Vienna

La cosa più commovente di questa volantino appeso alla stazione di Vienna non è il titolo, “benvenuto/i”, in grande; né la solidale laboriosità che traspare dall’elenco, quasi burocratico, delle necessità alle quali l’amministrazione può rispondere. Non è né quel “per favore, non esitate a fare domande”; né la traduzione, fra parentesi, in simple English di una parola (“interprete”) che potrebbe risultare difficile. Non è l’umano “stiamo facendo del nostro meglio”.

È la postilla finale, prima della firma. “You are safe”. Siete al sicuro. Sei al sicuro.

Lo è perché vuol dire «fidatevi di noi», che è il messaggio più bello che si può dire a un nuovo arrivato (perché c’è da fidarsi di noi, no?). Ma lo è ancora di più perché, rispettosamente, sottointende un’altra parola, “now” (siete al sicuro, ora), che è il riconoscimento dell’identità e della storia che queste persone si portano dietro. È il riconoscimento, prima ancora che siano tenuti a provarlo (come del resto la convenzione di Ginevra richiede), che a quell’identità e quella storia ci crediamo. Che sono effettivamente dei rifugiati, che scappano dalla morte, dalla distruzione, dalla sopraffazione, dalla tortura, e da ogni cosa non sicura del mondo. È il riconoscimento di ciò che, di questi tempi, tanti mascalzoni mettono in dubbio, questionando – con sciocchezza o ignoranza – la legittimità delle loro paure, del terrore da cui fuggono. Vuole dire: anche noi ci fidiamo di voi. Sappiamo da cosa fuggite, lo riconosciamo e vogliamo aiutarvi. Siete al sicuro, ora.

 

Due foto

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Sul Family Day non credo ci sia bisogno di altro commento, che non queste due foto, una di fianco all’altra:

Foto uno
Ieri in Piazza San Giovanni per il Family Day, a Roma
marriage
Qualche anno fa alla National Equality March a Washington

(Qui il post che avevo fatto al riguardo).