Ho visto il mio primo beep beep!

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Qui ci sono 45 gradi e tanti centri commerciali (dove, invece, ci sono -45 gradi).

Qui c’è lo sceriffo più cattivo d’America che convoca meeting:

Qui ci sono animali strani, come questo:

Ma soprattutto: qui ci sono i beep beep! Che mi ero sempre domandato se esistessero davvero. E siccome il mio primo beep beep l’ho visto su Coyote Road (davvero!)…

…era ovvio che non riuscissi in tempo a fare una foto: ovviamente è corso via!

Invece di coyote non ne ho visti, ma è probabile – visto l’ambiente – che siano anche loro sulla via della conversione.

Un saluto al Ballero

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Come ogni inizio d’estate è venuto il giorno della Firenze-Vangile, la classica del ciclismo calmo che facciamo – con mio zio, mio cugino e aggregati – da casa di mio zio a casa dei miei nonni. Non si vince nulla, ma per premio si ha il pranzone preparato da mia nonna che tutti considerano un riscatto degno per il mal di culo accumulato – e per fortuna che ci sono delle forchette migliori della mia!!

Questa volta eravamo in otto, Pietrino, Nicco, Gogo, Claudia e Marco, oltre a noi tre, e l’anno di nascita dei partecipanti andava dal 1959 al 1995, con una predominanza dei più giovani. Il percorso, ‘stavolta sui 65 chilometri, tende ogni anno a variare e ad allungarsi di qualche decina di chilometri, più perché si sbaglia strada, che per una scelta ben precisa.

Uno dei diversivi di quest’anno è stato ispirato dalla fantasia di una vecchina che ci ha indicato una strada che lei «eccome, qualche anno fa la facevo anche io in bici», ma che probabilmente quel “qualche anno fa” risaliva ai tempi della guerra, e ora era tanto sterrata e in mezzo ai campi da far invidia alla peggiore Parigi-Roubaix.

L’altro diversivo è stato invece capitanato da Marco – che è fondatore e presidente del Viola Club Kathmandu, e che di mestiere porta la propria Ballero-bike nel Sahara o sull’Himalaya – e che, appunto, conosceva Franco Ballerini. Così siamo passati dal cimitero di Casalguidi, dov’è sepolto il Ballero, e l’abbiamo fatto nel modo più consono: in bici, dopo aver fatto una mini-rubé.

Ecco, il cimitero dov’è sepolto Ballerini è l’unico che abbia mai visto dove – prima ancora del parcheggio per le macchine – c’è la rastrelliera per le bici. Come dire: amen.

Giovanni Paolo secondo (me)

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E alla fine ci siamo incontrati, io e Paolo, quello che era venuto in Inghilterra camminando. M’è toccato andarlo a trovare a Cambridge, in aereo però, io. Ci siamo abbracciati (più di una volta), abbiamo giocato a ping pong e a croquet, ci siamo tagliati i capelli dal barbiere di hollywood (dice lui), abbiamo fatto una specie di regata artigianale sul Cam, e abbiamo visto dei fuochi d’artificio con i Sigur Ros in sottofondo. Non mi ha fatto mangiare al McDonald’s, ma in compenso delle salsicce che non sapevano di nulla in un barbecue.  Gli ho portato, oltre al mio abbraccio promesso da lungo tempo, il saluto di una signora che mi aveva fermato su un treno nei pressi di La Spezia «ehi, tu sei Giovanni? Giovanni di Distanti Saluti? Beh, salutami Paolo!».

Poi abbiamo visto tante partite dei Mondiali, un po’ distrattamente – perché abbiamo questa tendenza a impigrirci tutti e due, e quindi finirà che non faremo una radio che volevamo fare, per raccontare il suo viaggio. Per l’ultimo incontro dell’Italia (nei gironi?) ci rincontriamo anche noi: la vedremo all’aeroporto di Stansted, ché subito dopo mi parte il volo. Chissà che non porti fortuna, e io debba andare di aeroporto in aeroporto per guardare gli ottavi, i quarti, eccetera.

Alla fine ho lasciato Cambridge per andare a Londra a fare un po’ mente locale per il prossimo anno – ah sì, mi trasferisco qui per 12 mesi – e ci siamo salutati. Prima di prendere il pullman per la capitale – me tapino! – gli ho chiesto delle indicazioni per raggiungere casa di Michele, quella che mi ospita a Londra, e Paolo mi ha detto: «non ti preoccupare, te la puoi fare tranquillamente a piedi…»

A.

Il sottotitolo del mio blog ha una storia particolare, molti lo interpretano male, come una considerazione filosofica sulle sorti dei meno fortunati, è invece – molto semplicemente – ciò che mi scrisse un vecchio amico che capitò sul mio blog quasi per caso. Ci eravamo persi di vista – in realtà non eravamo mai stati così vicini – e lui iniziò a leggere di me, e delle mie partite a pallone con i bambini, quando facevo il volontario in Palestina. Mi scrisse:

A volte, se ci penso, non riesco a immaginare persona più diversa e più distante da me, di te. Non c’è nulla di più lontano da me del tuo impegno politico, del tuo stare a discutere per ore di argomenti di cui, per carità riconosco l’importanza, ma da cui sono così distante da non riuscire, anche ragionandoci, a essere più vicino alla tua opinione rispetto a quella del tuo interlocutore o viceversa.

Mi manca il tuo fervore, il tuo volerla spuntare nel gioco quotidiano della retorica (ma in generale in qualsiasi gioco ti si sottoponga… poveri i bambini che finiscono nella squadra avversaria!), la tua speranza del fatto che qualcosa, seppur di infinitesimale, possa cambiare alla fine della discussione, in questa povera piccola Italia, in questo povero piccolo mondo.

L’icona con cui espresse il suo concetto mi piacque molto, quasi mi commosse. Nell’immagine di questo cialtrone ventiseienne, di quasi due metri in mezzo a ragazzini alti la metà, che ci gioca a pallone e non gl’importa che quelli abbiano un quarto dei suoi anni, e non ne sconta una, e cerca con tutto di vincere – no, Ahmed, è fallo di mano! – beh, lì c’è tutto me.
E credo sia uno dei ritratti più affettuosi che mi abbiano mai fatto.

Così decisi che doveva essere il sottotitolo del mio blog.

Ve lo racconto ora perché, al mio amico, non va benissimo: è un periodo in cui, più di altri, ha bisogno – non vi preoccupate, nulla di grave, nulla di irrimediabile – di quel fervore, del volerla spuntare nel gioco quotidiano, e soprattutto ha bisogno di quella fiducia che qualcosa possa cambiare. Così gli dedico questo post.

Una specie e due ruote

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E che ve lo dico a fare? Però ve lo dico lo stesso. Andare in bicicletta a Stoccolma è la dimostrazione che, in fondo, la specie umana ha discrete potenzialità di civiltà.

A parte che piste ciclabili dappertutto, anche su ponti che sembrano autostrade. Automobilisti che nn si permetterebbero mai di suonarti perché non gli lasci il passo nel primo istante. Ancora più importante, pedoni che non hanno paura: sanno che è responsabilità tua evitarli, e sanno che lo farai. Tutti, in pratica, si aspettano che tu sia in bici.

Casacche

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La parola “casacca” è una parola orfana, si usa solo in un contesto, e solo seguita da un’altra parola. Ce ne sono altre, come “convolare” (a nozze), o “strenne” (natalizie): l’avete mai sentite usare in un altro contesto? Secondo me bisognerebbe fare una campagna per dare loro degli altri genitori.

Questa era la premessa per interessare anche i non calciofili. Ora comincia l’inciso:

A noi della redazione di Distanti Saluti ci dispiace per i non calciofili, ma quello che sta per venire è il primo Mondiale che questo blog vede giocare. Capiterà che si parli di dieci panzoni in mutande che urlano frasi senza senso (ah, no, quella era l’opera), più spesso che non. A noi ci dispiace che la gente non capiscono – , faccio come Dante che parlo come parlano quelli di cui parlo.

Per tutta l’altra gente, quella che capiscono, andate a vedervi tutte le maglie di tutte le squadre dei Mondiali. Nessuna è strepitosamente più meravigliosa delle altre, ma diverse sono belle: la prima della Costa d’Avorio, quella dell’Australia, le due portoghesi, la seconda della Spagna. Orribile la seconda del Ghana: sembra il Castel di Sangro dei poveri.

Intimissimi

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Ok, la colpa la dovete dare ad Agnese, Izzo, Ben, Filippo, e soprattutto a Saverio. Mi hanno detto che la ragione per la quale ho dato 1 di interesse per la storia di Laura – e cioè che riguardasse troppo me – non era una buona ragione. Io ho detto loro che quello che non voglio, mai, è fare un blog intimista, che al limite quelle cose lì le metto su Friendfeed. Però lui – Saverio – mi ha detto che, così, lui e gli altri che non leggono friendfeed si sarebbero persi la storia di Laura.

Ecco, perciò ho deciso di fare un post intimista. E la cosa più intimista che mi venga in mente ora è questa: che io, un annetto fa, ho scritto un post eccezionale. Ti pare? Lo dici di una cosa che hai scritto tu? Eh, oh, sì. Che poi quello lì, Scialocco, sennò mi fa il verso «il solito modestone». Perciò sì, lo penso, è proprio un post eccezionale. E penso che non abbia causato gli sconquassamenti che avrebbe dovuto: ok 130 commenti, ma quelle son le solite baruffe fra amici che si fan su questo blog. Per dire, io non mi capacito di come la gente – dopo averlo letto – posso essere ancora cattolica (o protestante, o testimone di Geova, o tutti quelli che credono a quella marachella del libero arbitrio).

No, lo so, ora voi pensate: «è simpatico, senti che cose strampalate dice per scherzo». Nono, vi allarmo: le penso davvero. Vabbè, il post si chiamava “Arbitro venduto” ed è eccezionale (l’ho detto?). Ecco, andatelo a leggere (e smettete di essere cattolici).

Avete capito? Cliccate QUI.

Laura

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Ieri sera è stata una bella serata. Ero andato in pizzeria con un amico, e mi avevano detto che c’era da aspettare dieci minuti, così ci siamo messi su di una panchina lì accanto. È arrivata Laura, e m’ha riconosciuto. Non solo, mi ha anche salutato calorosamente, e così ha salutato il mio amico.

Laura era una delle donne che erano ospitate al tendone dei barboni (senzatetto, per me, è un po’ come “operatore ecologico”) organizzato – durante i mesi freddi – dalla Protezione Civile, nel quale ho lavorato, fra le mie varie peregrinazioni, appena prima della partenza per la Palestina. Sono stati 5 mesi intensissimi e che mi hanno segnato, nel modo più sentito. Una volta mi deciderò a mettere quei pensieri in ordine, e raccontarli. Di certo ho imparato il valore sacrale della riduzione del danno: lì pochissime persone riuscivano a uscire dalla condizione di barboni, si contavano sulle dita di una mano quelli ai quali si riusciva a costruire un “progetto” (si chiamava così l’inserimento in un contesto lavorativo), perciò per moltissimi l’obiettivo più ambizioso era – detto brutalmente – farli sopravvivere all’inverno.

Perciò quando capito per Termini butto un occhio per vedere se riconosco qualche faccia conosciuta, se non altro per sapere che sono ancora vivi. E capita di incrociare qualche sguardo, anche senza dirsi nulla. Potete immaginare la gioia quando Laura – senza neanche un cartone di vino in mano! – è venuta a raccontarmi che ora lavora come babysitter di alcune bambine, che dorme lì nella casa dove lavora e quando ha il giorno libero va a dormire da un’amica (si vede che non ha detto ai suoi nuovi datori di lavoro che una casa non ce l’ha), che è felice e che vuole un sacco bene a quei due bambini, e soprattutto che gliene vogliono a lei.

Davvero una nota lieta.

La pizzeria da Zio

"riposo settimanale lunedì", ma è cancellato a pennarello.

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Un esempio di integrazione in salsa capitolina.

Questa cosa i romani la sanno, ma gli altri no: nelle borgate romane c’è questo modo di chiamarsi “zio”. Non è colpa mia, mi rendo conto che sia ridicolo, però succede davero. In particolare – e può essere un paradosso, vista la supposta vetusta età del canonico zio – fra ragazzi. Difficile incontrare un anziano che dica a un amico “oh, zio, andiamo a giocare a bocce”, ma fra i giovani è comunissimo, ed è considerato un modo amichevole – e per nulla raffinato – di darsi un appellativo. Tipico esempio di conversazione del boro (o zoro, grado ulteriore del coatto) «zio, ‘namo ar mare?», «guarda, zì, a me er mare numme piasce, però potemo ‘nnà a ballà, io ma’a comanno ar Sesto Senso» «vabbè, zio, bella petté».

Ecco, qui vicino c’è un siriano – genio – che ha aperto una pizzeria, si sa che i migliori pizzaioli sono tutti egiziani, e l’ha chiamata “da Zio”. Proprio così. Non solo: da tutti i clienti è chiamato “zio”, e – ancora più divertente – li chiama tutti “zio”. L’altro giorno – c’era la partita e quindi la fila – scandiva i turni indicando il cliente successivo e dicendo: «tu zio, cosa prendi?». Non perché li conoscesse, si rivolgeva a tutti così. Il bello è che tutti gli rispondevano con la stessa rima, anche i più anziani. Un vecchino, per dire, gli ha risposto «guarda zì, damme du’ crocchette che ce sta ‘a partita».

Siccome lo Zio un sito internet non ce l’ha, metto qua il suo numero di telefono e qualche altra informazione ricavata dal volantino di cui sopra, ché – l’ho messo nel titolo del post – magari qualcuno ci capita cercando su Google:

Pizzeria da Zio
Via Costantiniana 96 (zona Labaro)
Tel: 06-33624661 Cel: 347-2979524