Il Post è un giornale che racconta storie e spiega le cose

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Il Post, lo sapete, è un giornale che racconta storie e spiega le cose. È online, sì, come le notizie oggi. E somiglia al narratore esterno (eterodiegetico, mi sembra si dicesse) che c’è in certi film che ti mettono di buon umore: descrive le vicende che accadono, quelle che considera importanti, e assieme narra i fatti e le persone; qualche volta dà la propria opinione, e più spesso dà le (diverse) opinioni dei protagonisti del film. Ogni tanto ammicca con lo spettatore, altre volte assume un tono più serio, ma in genere ti fa capire, anzi “entrare”, nelle cose che succedono nel modo migliore: senza dare per scontato nulla, ma anche evitando di assecondare le scorciatoie della comprensione, come i cliché linguistici o certe espressioni codificate della narrazione (“Roma, esplosione in scantinato causa x morti”), che decidono al tuo posto quali sono le parole più appropriate da usare in una determinata circostanza. Insomma, a me Il Post piace.

A queste cose ci pensavo ieri, leggendo l’ennesima storia curiosa o interessante, e oggi leggendo quella del motto del NYT che è un po’ la parafrasi delle cose che ho scritto più su. E ci pensavo perché, invece, ho letto più di una volta di persone a cui Il Post non piace. E certe volte sono persone per cui ho stima senza termine. Perciò mi sono domandato se non sia io ad avere torto. Naturalmente ci sta di avere opinioni diverse, specie quando si parla di gusti, ma il fatto è che io quelle critiche – non è che non le condivida – proprio non le capisco. Mi sembrano mosse più da emozionali antipatie che non da argomenti logici. C’è chi critica il fatto che Il Post selezioni e raccolga le cose migliori che altri scrivono in inglese, come se appunto fosse una critica anziché un merito. E poi ci sono quelli che usano – ma questo è forse un problema più grande del Post – come accuse delle parole a caso, fra l’altro in diametrale contraddizione l’una con l’altra: come “radical-chic” (l’alto-borghese che considera eccitante la dittatura del proletariato) e “snob” (il proletario che considera eccitante atteggiarsi ad alto-borghese).

Ora questo è il posto dove normalmente dovrei mettere i caveat: e cioè che per un breve periodo al Post ci ho lavorato, e che alcune delle persone che lo fanno sono persone a cui sono affezionato. Però sarebbe un caveat inutile, perché il motivo per cui mi piace Il Post non è che ci ho lavorato, ma l’opposto: ci ho voluto lavorare perché è un posto che mi piaceva un sacco, e ho avuto la fortuna di avere questa possibilità prima di partire per Londra, quando decisi d’intraprendere tutt’altra strada da quella del giornalismo. Queste erano le cose che pensavo prima, e queste sono le cose che penso ora che mi sembra addirittura migliorato, solidificando quella personalità “da Post” che ora si riconosce così bene. Per questo, quando leggo quelle critiche, mi verrebbe voglia di rispondere come si fa quando criticano il tuo calciatore preferito, ma siccome – come ho detto – quelle critiche proprio non le capisco, mi limiterò a spiegare le ragioni per cui piace a me, Il Post.

Parla come magna
Da quando esiste Il Post non riesco più a leggere un articolo di repubblica.it senza pensare «ma come è scritto male!». Eppure prima non lo pensavo. Mi ero semplicemente abituato all’idea che il giornalismo si potesse fare solo in un certo modo (“liberalizzazioni, pressing dei partiti”), quello che facevano tutti. Poi ho visto che titolare un pezzo “L’emergenza gas è una cosa seria?”, che è quello che voglio sapere da quell’articolo, si può.

Ma magna bene
Il fatto che un giornale parli come “noi”, e non con standard codificati, non è necessariamente un bene. Perché bisogna vedere come parlano, questi “noi”. Il Post parla bene. Evita quelle sciatterie ma vuole essere chiaro: sa che non hai veramente capito qualcosa finché non sei in grado di spiegarla a tua nonna. E siccome tutti noi siamo la nonna di qualcun altro (io vi spiego la linguistica medievale, e voi mi spiegate la fisica quantistica), questa è una cosa preziosa.

Non urla

Frequento un po’ i giornali stranieri, e questo non succede. Però in Italia sì. Vedi un titolo (delle volte perfino tra virgolette), pensi «ma com’è possibile?», poi guardi l’articolo e leggi che, infatti, non era possibile. Ecco, il Post è come i migliori giornali stranieri: non urla e non dice mezze verità. Ovviamente chi fa il giornale vuole che tu legga quello che scrive (sopravvive così), ma vuole che tu lo faccia per le cose che ci sono scritte, non perché ha attirato la tua attenzione strillando.

Ha quello che serve
Il Post è un kit di sopravvivenza. Ci sono tutte le notizie che devi sapere. Certo, se vuoi approfondire, approfondisci; e capita anche di leggere una storia sul NYT o su Slate che poi viene raccontata sul Post. Ma è proprio questo il punto. Molte volte non si ha tempo, altre si è semplicemente pigri, e allora quel kit diventa l’equipaggiamento minimo d’informazioni per sapere cosa fa il mondo. Tanto più che a me interessa il Medio Oriente e il ciclismo, a qualcun altro interessa il Sud America e il basket: del Sud America e del basket (e di mille altre cose) ne leggerò sul Post, e così lui farà per Medio Oriente e ciclismo. E ricordiamoci: non tutti sanno l’inglese come noi.

Non ha quello che non serve
Sarebbe facile dire “tette e culi”, ma sarebbe facile perché è vero. Il Post è l’unico giornale – davvero l’unico, controllate (anche Linkiesta, mi suggeriscono) – che ha il coraggio di non mettere quello che non serve: le non-notizie a sfondo sessuale, le gallery morbosette, ma neanche gli articoli spezzati ogni cinque parole per fare pagine viste, i sondaggi senza alcun valore statistico. Mi raccontarono che, all’inizio, quando fecero gli accordi per la pubblicità, le concessionarie dicevano una cifra, poi «ah, ma senza donne nude?», e offrivano la metà.

Non pensa male
Tutte queste cose si chiamano, con un nome solenne, “etica professionale”. Poi c’è l’etica personale, che si vede nell’impronta data a ciò che si legge, e che apprezzo perché non insinua. Il Post non è un giornale incattivito, è immune a quell’atteggiamento da a-me-non-la-si-fa che è un rischio così presente nel fare giornalismo. Non analizza le notizie attraverso il filtro più turpe e diffidente, quello che è sempre il modo più facile per crearle, le notizie che – poi – non lo erano.

T’insegna le cose
Leggendo Il Post s’imparano un sacco di cose. E per chi è curioso di tutto, senza avere il tempo per tutto (un po’ siamo tutti così), è il miglior pregio. Ho il dubbio che ad alcuni, invece, non piaccia per questa paradossale ragione. Come se spiegare qualcosa fosse un atto d’arroganza anziché d’utilità. Certo, per farlo c’è sempre bisogno di una parte d’autoironia, ma quella c’è: certamente più che in qualunque altra testata.

Ecco, queste sono le ragioni – o almeno quelle che mi sono venute in mente scrivendo – per cui Il Post è il sito che leggo per primo ogni mattina, quello che consiglio, quello a cui mi affido, quello che sono felice se vedo linkato in giro, quello con cui mi arrabbio se scrive cose che non condivido.

Intendiamoci, mica lo so se si può fare un giornale così: se può sopravvivere senza quegli espedienti, specie in Italia. Spero di sì, e ogni tanto clicco su un paio di banner.

4-3-3 ragioni per seguire il Pescara di Zeman

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«Non mi sono mai divertito così tanto in carriera»
Emmanuel Cascione, centrocampista del Pescara

Oggi il Pescara è primo in classifica, ed è arrivato il momento di scrivere questo post che aspetta da tempo.

L’anno scorso c’era il Foggia, in Serie C, e lo seguimmo. Quest’anno c’è il Pescara, in Serie B, e va seguito. Forse ancora di più. Io ho visto più partite del Pescara (ne ho saltata una sola) che della Fiorentina, e vorrei convincervi che ho fatto bene.

Se non sapete chi è Zeman, fate male. Questa è la mia descrizione minima:

Chi si interessa anche un poco di calcio sa chi è ZdenÄ›k Zeman, qualcuno lo ama, altri lo odiano. Io lo amo. Per gli altri, basti sapere che è il simbolo dell’onestà e del gioco pulito – fu lui il primo a denunciare seriamente il sistema-doping nel calcio, ricevendone un ostracismo che dura tuttora. È un personaggio irrinunciabile. E soprattutto è un offensivista.

Le squadre di Zeman giocano bene, incredibilmente bene, e attaccano sempre. Se stanno perdendo attaccano, se stanno pareggiando attaccano, se stanno vincendo – indovinate un po’ – attaccano. Perciò fanno una caterva di gol e ne subiscono un’altra caterva. Per questa ragione non gli va sempre bene: chi tifa una squadra di Zeman sa di mettere alla prova le proprie coronarie. Puoi perdere 3-0 e riuscire a rimontare o vincere 3-0 e farti recuperare. E così, fra i detrattori, si è guadagnato la nomea di perdente. Ma come dice lui: «Il risultato è occasionale, la prestazione no».

Quindi, ecco, seguite il Pescara. Provo a convincervi, in 10 motivi. Anzi, in 4-3-3.

Zeman è l’unica persona al mondo che – se la cerchi su Google – non ha la propria foto come primo risultato, ha un modulo. E quel modulo è Zeman. È lo Zeman allenatore e tattico, quanto è lo Zeman personaggio e maestro (come lo chiamano i suoi ammiratori). Questo perché lo Zeman personaggio è diverso, ma vale quanto, lo Zeman allenatore: ci si appassiona a un personaggio così; e ci si appassiona a uno che gioca così. Il fatto che siano la stessa persona, il personaggio e l’allenatore, è una cosa pazzesca.

Taciturno, sardonico, genuino. Celebre per i suoi silenzî, va da Fabio Fazio che cerca di farlo parlare «lo sa che in un’intervista uno domanda e l’altro dà la risposta?», e Zeman controbatte: «se lui la sa». Poco dopo dice una cosa completamente fuori da qualunque logica televisiva: che il documentario che era lì per promuovere, quello del bravo Giuseppe Sansonna, non l’aveva visto (io invece sì, e ve lo consiglio).

Ecco, dunque, il 4-3-3:

IL GIOCO
2) Zeman
La prima ragione non può essere che lui, il Maestro. Ogni partita è uno spettacolo, l’abbiamo detto, ma al tempo stesso è una macchina perfettamente congegnata. Perché il paradosso di Zeman è che tutto può succedere, si può perdere una partita vinta, si può vincere una partita persa, ma Zeman è uno di quegli allenatori metodici, quasi matematici (più di lui forse soltanto Van Gaal), che anziché preparare un dettaglio, lo decide. Anzi, è stata spesso questa sua rigidezza ad attirargli qualche critica. per l’incapacità di adattare forma mentis in corso: se una partita è pianificata così, deve andare così. La questione è che spesso ci va, in quel modo; e perciò, piano piano, si può cominciare ad imparare,  a riconoscere gli schemi di Zeman durante la partita e a prevederli. Palla ad Anania, il portiere (che lui ha ripescato dalla quarta divisione), e tu pensi: «vedrai che ora Insigne si allarga sulla sinistra, e lui gliela scaraventa lì al più presto». Zac, e gol. Vedi Cascione largo, puoi chiudere gli occhi, sai per certo che arriverà la sovrapposizione di Balzano: infatti arriva, puntuale. E tu ti senti parte di un segreto, a conoscenza di una formula quasi magica.

6) Pescara
C’era un allenatore, alla fine degli anni 80 e all’inizio degli anni 90, che aveva portato il bel calcio nella terra dei catenacciari, l’Italia, si chiamava Giovanni Galeone ed allenava il Pescara Calcio. Quella squadra scese in B nel ’93, assieme alla Fiorentina, e non salì più. Però Pescara è rimasta sempre la piazza del bel calcio, ed è rimasta tale anche per i pescaresi, tanto che quando Zeman arrivò in estate – preceduto dalla propria fama di grande offensivista, e grande incognita – loro badarono alla prima delle due cose e gli riservarono questa accoglienza. Ah, a proposito di Pescara, sabato prossimo o quello dopo vado all’Adriatico a vedere la partita, siamo già un gruppetto (partenza da Roma), se qualcuno si vuole aggregare è benvenuto.

5) La velocità
Avrete già capito che se “palla-ad-Anania-Insigne-si-allarga-sulla-sinistra-e-lui-gliela-scaraventa-lì-al-più-presto”, se capita che l’assistman sia il portiere, la velocità è necessariamente il cardine del gioco di Zeman. Pressing alto, difesa altissima, ma soprattutto gioco super veloce. E per questa ragione non c’è mai un attimo di respiro: nella partita di oggi, l’inviato di bordo campo ha provato a intervenire per 5 minuti buoni per commentare qualcosa. Ma continuava a non riuscirci, perché ogni volta era costretto a restituire la linea al commentatore perché il Pescara faceva azioni pericolose su azioni pericolose. Quando ha trovato lo spazio, un sacco di tempo dopo, quello che doveva dire era già scaduto, e lui l’ha ammesso candidamente. È per questo che ci si diverte tantissimo, ed è per questo che non c’è mai un attimo di stanca. Anche se il pallone ce l’hanno gli avversarî, qualunque palla può trasformarsi in un istante in un contropiede strepitoso. Volete la prova? Ecco, facciamo così: se dovete redigere un manuale illustrato sul calcio, alla voce “contropiede micidiale”, metteteci questo.

3) I gol
È ovvio, perciò, che il Pescara faccia tanti gol. Anzi, è l’unica squadra del campionato che ha sempre fatto gol, in ogni partita. Ne ha fatti 53, nessun’altra squadra è riuscita ad arrivare a 40. I bookmaker dànno lo 0-0 di una partita del Pescara a 15 o a 20: come a dire che se giochi 5 euro sullo 0-0, e quello è il risultato della partita, ne vinci 100 (ma tanto non li vinci!). Quand’è così come ci si può non divertire? E forse l’immagine che meglio descrive questo atteggiamento è il calcio d’inizio. Ecco, seguite questo consiglio: cominciate anche solo a guardare distrattamente una partita del Pescara, vedrete otto giocatori sulla linea di centrocampo pronti a buttarsi nella metà campo opposta, e – a quel punto – chi ve lo farà fare di smettere di vederla?

I RISULTATI
7) Primi!
Il Pescara è la squadra che fa più gol, ed è quella che pareggia meno (altro motivo di divertimento). Questo vuol dire che è quella che vince di più, e stanotte è prima in classifica da sola. L’ultima volta che il Pescara era stato primo in classifica in B era il ’97, e l’allenava un altro tecnico noto per il calcio offensivo, Delio Rossi (che ora, guarda caso, allena la Fiorentina). Domani potrebbe essere scavalcata da Torino o Sassuolo, ma importa poco. Siamo lì. Anche perché siamo ancora in inverno, ci avete fatto caso?

4) L’Inverno Zemaniano
Oh, sembra non esistere più. Un tempo c’era questo periodo terribile, a dicembre e soprattutto a gennaio, in cui le squadre di Zeman perdevano colpi, i campi pesanti facevano una parte e i carichi di lavoro accumulati un’altra; e così allo sbocciare della primavera sbocciavano anche le squadre di Zeman che cominciavano la loro rincorsa. Ed era una cosa talmente ricorrente che aveva acquisito una vera definizione: l’inverno zemaniano. Quest’anno a gennaio si sono giocate 4 partite, e il Pescara le ha vinte tutte. Ora aspettiamo le rondini.

8) La promozione
Eh sì, la dico questa parola. Il Pescara è partito come una squadra da classifica bassa o medio-bassa. L’anno scorso era arrivata tredicesima, quello ced era stato considerato un ottimo risultato tanto che il vecchio allenatore, Di Francesco, era stato chiamato in Serie A dal Lecce. Così, quando Zeman all’inizio di quest’anno aveva concordato con il presidente dei premî solo in caso di promozione diretta (come a dire: arrivare ai playoff, dal 3° al 6° posto, sarebbe regolare amministrazione) tutti gli avevano dato del matto. Quest’anno, in metà campionato, il Pescara ha già vinto più partite e segnato più gol che nell’intera scorsa stagione. In questo momento il sesto posto è lontano 14 punti. Quanto sarebbe bello rivedere Zeman in Serie A.

LA SQUADRA
10) Gli altri
Di giocatori rivelatisi molto bravi ce ne sono tanti. E sono quasi tutti molto giovani, che infatti nel corso di quest’inverno hanno ricevuto diverse convocazioni nelle varie nazionali under 20 e under 21. Quello di cui parlano tutti è Verratti: fa il regista, ha piedi molto buoni ma manca di continuità. È pescarese, come Capuano, difensore centrale che è titolare fisso nell’under 21. Poi c’è Kone, che era a Foggia con Zeman l’anno scorso (come Romagnoli, l’altro centrale, e come Insigne). Entro martedì, poi, dovrebbe arrivare un altro ragazzino molto forte dalla Roma, Gianluca Caprari. Il “mio” nome, però, non è quello di un giovane: ma quello di Emmanuel Cascione. Il Gerrard de noantri. Esagero? È chiaro, ma guardatelo giocare. È ovunque. È il centrocampista con più gol, con più assist, e aiuta la difesa. Io sono d’accordo col gruppo Zeman. Ed è lui che ha detto la cosa scritta quassù.

9) Il tridente
Se c’è Zeman, c’è tridente. E questo qui è spettacolare. Immobile, Sansovini, Insigne. In tre hanno segnato 37 gol, 9 in più dell’intera squadra che era stata in testa al campionato fino a qui, il Torino. Se ci si aggiungono anche quelli degli attaccanti di riserva, Maniero e Soddimo, si arriva a 41. E vi dirò: di gol ne sbagliano anche tanti, rispetto alle occasioni che creano. Immobile è un goleador, capocannoniere del campionato, purtroppo è gobbo (è in prestito dalla Juve). Sansovini, 32 anni e capitano, sembrava un giocatore finito, anzi, forse mai davvero cominciato. L’anno scorso giocava da centravanti, unica punta, e aveva fatto 11 gol. Quest’anno gioca più largo, e si spartisce i gol con altri due attaccanti. Ma ne ha già fatti 12, in metà stagione, tutti a Pescara.

11) Insigne
E poi c’è Lorenzo Insigne, che è il fenomeno di questa squadra. L’anno scorso aveva fatto una grande stagione in C, al Foggia con Zeman; così si era meritato la promozione in Serie B, e il Napoli l’aveva prestato al Crotone. Lui aveva già preparato i bagagli per Crotone quando gli arriva la telefonata, è Zeman, che gli dice di aver firmato col Pescara. La telefonata successiva la fa Insigne, e due giorni dopo arriva a Pescara anche lui. Se guardate qualche partita dell’anno scorso vi renderete conto di come Insigne faceva, completamente, quello che gli pareva. Quest’anno gli avversarî sono un po’ più duri, ma lui continua a fare quello che gli pare. Questo è il gol che ha fatto oggi, e fare gol non è neanche la cosa che gli riesce meglio. Ecco, ve la dico: Insigne sarà il nuovo Cassano. E ve lo dice uno che pensa che Cassano sia il giocatore che ha meno espresso il proprio talento degli ultimi 15 anni. Vi ricordate il famoso gol di Cassano contro l’Inter, quello dello strepitoso controllo d’esterno? Ditemi se questa cosa non ve la ricorda. Ah, e sì: avrete notato. Palla ad Anania, Insigne si allarga sulla sinistra, e lui gli scaraventa il pallone al più presto. La formula magica.

Tanja

5 su 5

per Il Post
(dove non l’ha letto nessuno,
e secondo me hanno fatto male)

Quella che segue è solo una storia, ed è una storia che ha due morali. Come tutte le storie, racconta solamente una fotografia e quella sua parte di verità. In più è successa quattro anni fa, e non l’ho mai raccontata per intero, quindi alcuni particolari potrebbero non essere precisi, anche se confido che lo siano. Mi sembra però utile a descrivere un fenomeno che si è mostrato in tutta la chiarezza con quello che è successo a Torino: ovvero il fatto che gli zingari siano l’unico gruppo etnico per il quale il razzismo è, tutto sommato, accettato in società. Un fenomeno di disumanizzazione che non avviene per nessun’altra etnia, o meglio: che quando avviene per altri gruppi incontra – giustamente – una fortissima censura.

Perché ancora più grave della fiaccolata anti zingari, ancora più grave del ginecologo delatore che riferisce ai genitori della verginità della figlia, ancora più grave di questi genitori indecenti ossessionati dalla “purezza” di una ragazza, forse anche più grave dell’idea di giustizia fai-da-te e di responsabilità collettiva, c’è il fatto che una sedicenne, di fronte a una situazione di difficoltà, ha pensato che il miglior bersaglio come capro espiatorio di un’accusa di stupro fossero gli zingari. E, si badi, se anche si desse il caso che fra i rom ci sia un tasso di violenze sessuali maggiore rispetto al resto della popolazione, questo non dovrebbe cambiare nulla, come vorrei che questa storia spiegasse. È una storia che risale al periodo in cui decisi di lavorare al tendone che la Protezione Civile allestisce a Roma ogni inverno per i senza tetto, i barboni. Le persone che ci venivano erano delle più diverse, molti immigrati, tanti con problemi d’alcol, qualcuno non aveva più una casa perché cercava qualcosa e qualcuno non ce l’aveva perché scappava da qualcosa. Fra coloro che scappavano da qualcosa c’era Tanja (ho cambiato il nome).

Tanja era una ragazza di circa sedici anni, “molto bella” come si dice in questi casi, ma in una maniera un po’ particolare, sembrava sia più giovane che più vecchia della sua età. Era nata in Bosnia, ma aveva vissuto in diverse parti d’Italia con la larghissima famiglia, per diverso tempo vicino Milano, parlava un italiano quasi perfetto anche se aveva frequentato la scuola per poco e a singhiozzo. Non si fidava di nessuno. A tredici anni era stata venduta al marito che l’aveva pagata 48mila euro per la sua bellezza e perché era vergine. Se non fosse stata vergine, il suo valore sarebbe stato dimezzato. La questione della verginità, e del sesso, varia molto a seconda delle diverse sottoetnie rom (e sinti): in alcune le donne hanno molta più libertà (sessuale), in altre non ce l’hanno neanche gli uomini.

Tanja, naturalmente, non aveva scelto il marito, né lo amava. Lui la picchiava e la costringeva a rubare (sempre assieme a una compagna più grande che la controllasse) e a drogarsi. Quando lui si faceva d’eroina, lei si chiudeva in bagno per ore, per scamparla. Spesso quando era arrabbiato, oltre a picchiarla, era lui a chiuderla a chiave nella roulotte per giornate intere. Ovviamente era una relazione in cui il confine fra stupro e rapporto consensuale non esiste. Quelle volte che la polizia era arrivata a sgomberare il campo – spesso sgomberava solo parti del campo, su base etnica – aveva battuto con i pugni sulla finestra della roulotte in cui era chiusa, per farsi notare. Qualche volta non l’avevano vista, altre volte l’avevano ignorata. Tutto questo succedeva in Italia.

La prima volta che lei riuscì a scappare la ritrovarono, la sua famiglia allargata aveva occhi ovunque, e le diedero talmente tante botte da quasi romperle la mascella, assieme alla promessa che se l’avesse rifatto l’avrebbero uccisa. Non aveva vie d’uscita: la madre di lei era complice, anzi era stata la stessa madre a venderla al marito. E per qualunque tentativo di fuga c’era la certezza che qualche parente, da qualche parte d’Italia – ma anche d’Europa – la riconoscesse. Lo sperimentammo in prima persona quando si presentò – del tutto casualmente: per avere un posto letto e un piatto caldo – una persona che lei riconobbe come cugino di un suo lontano cugino, uno che avrebbe riferito a suo marito o a suo fratello dove lei fosse. Ce lo venne a dire per tempo, tremando come non ho mai visto una persona tremare, e lo assegnammo a un’altra struttura prima che la vedesse.

Potete immaginare quanto fosse inaccettabile, per me che ero per la prima volta esposto a tali ingiustizie, il perpetuo marchiamento di quella ragazza, l’impossibilità di un qualunque riscatto. L’assistente sociale che lavorava con me, invece, conosceva suo malgrado situazioni simili. Mi spiegò che l’unica speranza era che la ragazza fosse accolta in una struttura permanente e ben custodita per qualche anno, e che nel frattempo si calmassero le acque, ovvero che il marito s’innamorasse di qualche altra povera vittima e dimenticasse il “torto subito” della sua fuga. Il primo passaggio di questo percorso d’espiazione, dell’unica colpa di essere nata in un luogo e in un tempo determinato, lo percorremmo: la trasferimmo in una struttura permanente. Dopodiché non ne ho avuto più notizie, ho cominciato a fare altro, all’estero, e come sia andata a finire non lo so.

Questa storia racconta probabilmente la vicenda più terribile che potreste ascoltare sui rom. È quella che colpisce di più – e infatti è quella che più ricordo, delle tante storie di nomadi che ho sentito in quel frangente o in altri contesti lavorativi –; altre parlano di un ambiente in cui è sempre presente il maschilismo – “rom” in romanì vuol dire uomo, ma anche marito – e una scarsa considerazione dell’infanzia, ma con un’incidenza quasi nulla della violenza e una mentalità non vendicativa. La storia di Tanja è, insomma, quella che sembra più confermare il pregiudizio della sua coetanea torinese.

Ci sono però due cose su cui bisogna riflettere. La prima è che l’unica speranza di Tanja è lo Stato, e la cosa è talmente chiara che perfino lei – cresciuta ed educata nel background più lontano – se ne rende conto. È una speranza parziale, però, perché quello stesso Stato non ha la forza o la volontà di aiutare le tante ragazze come Tanja che non hanno la fortuna di ritrovarsi fuori. È uno Stato che, troppo spesso, ha la faccia di quei poliziotti che si voltano dall’altra parte. Uno Stato che, troppo spesso, adotta quel diverso metro – e quella responsabilità collettiva – che è il primo nemico da combattere: se un torinese fa qualcosa d’illegale prende una multa o va in carcere, se lo fa un rom si provvede a espulsioni o viene sgomberato il campo dove vive (assieme a tanti altri).

La seconda, e più importante, è che Tanja è, lei stessa, una rom. È la prima vittima, molto più di chi subisce un furto d’autoradio, di tutte le cose peggiori che sono associate “ai rom”. “I rom” è Tanja. È anche la prima vittima delle fiaccolate anti-rom, dei linciaggi per responsabilità di gruppo che rischiano di dare alle fiamme la roulotte dove vive proprio lei; è vittima di qualunque sgombero, di qualunque espulsione, perché quella vicenda – che è l’unica vera questione – la seguirà ovunque venga cacciata. Lei è la persona che meno ha fatto per meritare il nostro disprezzo, eppure è la prima a cui è indirizzato.

Questi due fatti, io penso, portano alla conclusione che bisogna sempre, sempre, trattare le persone come individui. Che né la responsabilità, né la considerazione di, deve essere associata a un gruppo anziché alla persona. È un fenomeno che non si vede soltanto nella Lega Nord e nei “fiaccolanti”, ma c’è in chiunque voglia preservare una qualunque cultura – sia quella padana o quella rom, quella cristiana o quella mussulmana – a scapito della felicità e dei diritti degli individui. Non bisogna mai pensare che qualcosa sia la “nostra” o la “loro” cultura, perché il mondo a cui aspiriamo è il mondo in cui non ci sono “noi” e “loro”, e per ottenerlo non si può che cominciare iniziando a trattare gli individui solamente rispetto a sé stessi.

È l’unico modo per scardinare il meccanismo che vuole tutti i rom colpevoli di una presunta violenza e che ha purtroppo la stessa matrice dell’atteggiamento di chi – spesso animato da buone intenzioni – difende una diversa cultura, una “diversa” concezione dell’infanzia, una “diversa” concezione dell’igiene, una “diversa” concezione della legalità, e dentro la testa ha l’idea che quelle cose lì, quella diversità, siano i rom: come se fossero, geneticamente, più portati alla sporcizia, all’illegalità, ai maltrattamenti. È il caso di pensarci, di pensare a Tanja, la prossima volta che diciamo “i rom”.

Core de ‘sta città: Fiorentina-Roma 3-0

3 (che altro?) su 5

Chi non capisce il tifo contro, non capisce il tifo. E chi non capisce il tifo, non capisce il calcio.

La spiegazione breve è che, per ciascuno di noi, le squadre avversarie non sono i calciatori o la città; no, sono gli amici che tifano quella squadra lì. Se non c’è nessuna persona a cui vuoi bene da prendere in giro, o da cui essere preso in giro, è come giocare a Risiko da soli: ma che gusto c’è? La spiegazione lunga è qui, e ve l’andate a leggere, se ne avete voglia.

FIORENTINA Capirete bene, quindi, che per un tifoso della Fiorentina che ha passato infanzia e adolescenza a Roma, Fiorentina-Roma è la partita dell’anno (infatti mi ero presentato in tenuta da combattimento). Più che Fiorentina-Lazio per due ragioni, così da far arrabbiare entrambi: perché i tifosi romanisti sono i più lamentosi d’Italia, qualunque partita, anche persa cinque a zero, è sempre colpa dell’arbitro, del palazzo, della sfortuna. E quindi è molto più bello batterli. La seconda è che la squadra al governo a Roma è la Roma: la Lazio è tutt’al più opposizione. E difatti, nonostante sia cresciuto a Roma Nord, conosco molti più romanisti.

Oggi la Fiorentina ha battuto tre a zero la Roma, e lo ha fatto nel migliore dei modi. Dimostrando la netta inferiorità della Roma. È importante: la partita non ha dimostrato la superiorità di una squadra vigliacca e senza gioco come la Fiorentina – di quello chissene frega –, no ha dimostrato la netta inferiorità di una Roma che ha giocato in maniera nulla, noiosa e irritante, nervosa e svogliata, irascibile e lagnosa, insomma ha giocato e perso da romanista, e questo sì che è ragione di gioia.

Ciò vale per la squadra, che ha finito la partita in otto uomini (e doveva finire in sette) e ha regalato due rigori alla Fiorentina (e dovevano essere tre). Ma c’è qualcosa di ancora più bello, e cioè che una sconfitta simile ha talmente traumatizzato i tifosi romanisti da averli completamente snaturati: li ho sentiti – naturalmente ho finito il credito a forza di telefonate e messaggi agli amici di una vita – mesti, rassegnati, arrendevoli. Quel rosicamento sommesso che regala una soddifazione speciale all’amico-avversario: non una lamentela, una critica all’arbitro, nessun piove-governo-ladro (eppure pioveva a dirotto e il governo passava la manovra!).

Per me la stagione è finita. Il campionato non può dare molto altro: se anche vincesse la Roma al ritorno, noi avremmo vinto all’andata, e per tre a zero. Basta così. E l’indirizzo della partita è stato talmente chiaro che, per tutti, la soddisfazione non è celebrativa di sé, è nello sfottò agli altri. Mentre si viaggia, sui treni in Toscana, si canta – la base è Cristina D’Avena –un-due-tre un-due-tre un-due-tre-tre questo è il valzer del romanista (notizie di prima mano).

E, come detto, vale all’inverso: a Roma della partita non ne parlano, cosa inaudita, neanche per lamentarsi. Sanno che se la possono prendere solo con loro stessi. Sanno che non hanno niente su cui possano recriminare, al di fuori della propria squadra. Sanno che se fosse stato un match di Pro Evolution Soccer si sarebbe detto che il giocatore che teneva la Roma aveva il tasto “quadrato” rotto. Sanno di aver deliberatamente buttato una partita contro una squadra cadavere. Sanno che l’hanno persa loro, e hanno fatto di tutto, per perderla. Sanno che se fosse scesa in campo solo la Fiorentina sarebbe finita 0-0. Non c’è soddisfazione più bella. Grazie, Roma.

Hope!

3 su 5

per qdR magazine

A profezie non ci becco. La fine di Berlusconi non me l’aspettavo così, e in realtà non me l’aspettavo proprio. E, anzi, me l’ero già aspettata diverse volte: nel 2006 l’avevo dato già per finito. Quello che più ancora non mi aspettavo è che un ventennio così diviso e fratricida, in cui il primo – e talvolta l’unico – indizio della collocazione politica di ciascuno era “cosa ne pensi di Berlusconi?”, finisse con una compattezza d’intenti e di disposizione al sacrificio che dà speranze sulla salute di questo Paese – un’altra profezia che avevo sbagliato. Sembra quasi che ci sia una chance che le scorie di questo ventennio non rimangano in circolo quanto invece ci eravamo immaginati.

Naturalmente ci sono le eccezioni, la Lega che pare tornata alla versione populista d’inizio anni ’90 che parla di “quei signori” intendendo quelli che vogliono mettere a posto un Paese che loro hanno governato negli ultimi x anni. Ma anche questo potrebbe essere un segno positivo: nessuno, se ci fate caso, chiede ai leghisti di assumere una posizione più ragionevole, sembra diano quasi per scontata la parabola discendente che li riporti a essere il partito spazzatura, assimilati a Le Pen in Francia o Haider in Austria, come succedeva vent’anni fa: con un suffragio neanche troppo basso, gli egoisti ci sono in tutti i Paesi, ma escluso dal processo decisionale dalla buona volontà degli altri.

Vendola, pur agitando alcune parole d’ordine prepolitiche, sembra non voler cavalcare una situazione che pure potrebbe sfruttare populisticamente: non avendo nessuno in Parlamento, e quindi nessuna responsabilità fattuale di fronte all’emergenza, avrebbe la possibilità di attaccare tutte le misure più necessarie ma impopolari. Che è quello che voleva fare Di Pietro, ma che la sua stessa base – altro segnale positivo – ha forse convinto a ripensarci, almeno parzialmente, per senso di responsabilità.

Non solo abbiamo scoperto di avere un Presidente della Repubblica eccezionale, che non ne ha sbagliata una: e non era per nulla facile fare né troppo né troppo poco, dovendosi rapportare a questo Berlusconi; non solo in giro si sentono tanti che hanno un nuovo atteggiamento positivo verso l’Europa, come l’unica àncora di salvezza che in effetti è, e non come una aliena burocrazia che ingerisce per far togliere il crocifisso; ma c’è qualcosa di catartico nell’unione d’intenti Bossi-La Russa-Di Pietro-Diliberto, come se in qualche modo le cose tornassero al loro posto.

Il timore era sempre stato che Berlusconi lasciasse un’Italia segnata dal proprio passaggio, sia a destra che a sinistra, dove in barba alla propria storia si era cominciato semplicemente a dire l’opposto di Berlusconi, specie sulla giustizia (ma anche sull’economia), un po’ come era stato con Bush sulla politica estera. Se, come diceva Gaber, riusciremo a emanciparci non da Berlusconi in sé, ma da Berlusconi in me, in noi, nella nostra società, avremo davvero un bacino di speranza – e di buona volontà – a cui attingere, nonostante i tempi duri che inevitabilmente ci aspettano. L’auspicio è che Monti riesca a distribuire con equità, anche sui bersagli più difficili, la cura di austerità di cui è costretto a farsi medico. A giudicare in anticipo, però, non sembra esserci momento migliore per fare cose giuste ma impopolari, come toccare le varie rendite di posizione.

Naturalmente non bisogna peccare di ottimismo. Ci sono tantissime ragioni per essere pessimisti, e sono forse di più che quelle per sperare in bene. Però le ragioni per essere pessimisti c’erano già prima, l’ottimismo invece è una sensazione nuova.

Bambini, vi abbiamo mangiato tutti i dolci di Halloween

3 su 5

Io ho fatto un asilo americano (raccontai le mie rivoluzioni asilesche), e lì Halloween era L’Evento-Dell’Anno, e nessun altro – fuori da quell’isola di americanità – sapeva cosa fosse e perché dei bambini si vestissero da streghe e mostri, e se t’incontravano per strada facevano tutti facce strane. Poi, per una quindicina d’anni, Halloween non è più entrato nella mia vita. Ora che si è iniziato a festeggiare, anche qui in Italia, mi fa lo strano effetto che mi fa sentire parlare della modaiola Milano Marittima (dove io andavo da bambino, e che generava le prese in giro dei miei compagni delle elementari: «e che, a Milano c’è il mare?») o il recente clamore dei Sigur Ros che già 10 anni fa provavo a diffondere al mondo fra i maccherrobaè?

Quindi sì, su Halloween ho sentimenti contrastanti. La testa mi dice che ha ragione il mio amico Jai, che commenta “ad halloween la gente diventa Camillo Langone. Ah, la tradizione, le nostre feste, magari anche una bella messa in Latino”, che insomma a ragionare così neanche la pizza sarebbe una “nostra tradizione” perché il pomodoro è americano, e che le feste vanno festeggiate. Il cuore, però, mi dice «c’ero prima io!».

Bene, è con quello spirito che metto questo video, che sarebbe “tenero” se non piangessero tutti! Jimmy Kimmel, un comico americano, ha lanciato questa sfida: dite ai vostri bambini che papà e mamma hanno mangiato tutti i loro dolci di Halloween e registrate la loro reazione. Questo è il risultato (gli ultimi due bambini sono eccezionali):

Essere una rockstar (e una che ti piace)

2 su 5

Londra, qualche notte fa.
Fermata di diversi autobus. Fra le 2 e le 3 di notte.

Personaggi:
Io, io.
Fan, gruppo di quattro ragazzi fra i venticinque e i trent’anni.

*Fan confabulano qualcosa tra di loro guardandomi, io approfitto dell’incrocio dello sguardo per domandare.*
Io: ciao ragazzi, sapete mica dirmi quale notturno devo prendere per Southwark?
Fan: ma.. ma.. tu sei il batterista dei Fleet Foxes?
Io: no, *rido*, mi dispiace non sono io… mi sapete dire la ferma…
Fan: maccome no! Sì che sei tu.
Io: guardate, no, ve lo direi se lo fossi *sempre ridendo*, ma mi servire…
Fan: ecco ti pareva, invece sei tu, ce lo puoi dire.
Io: vabbene, se vi canto una canzone mi dite dov’è l’autobus che devo prendere?
Fan: ok, allora, devi fare così così e così, poi – dov’è che dovevi  andare precisamente? – ah, sì. *Controllano la mappa*, devi andare qui *mi dànno indicazioni che poi si riveleranno sbagliate*, ecco e poi sei arrivato.
Io: grazie ragazzi, siete stati molto utili, ci si vede!
Fan: eeeehi, e la canzone?
Io: *alzo gli occhi al cielo*. Ah, già. *mi metto a canticchiare* «I was following the, I was following the, I was following the…»
Fan: uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuh *fra di loro* hai visto? È luiiii! *Si dànno il cinque* È proprio lui! Ve lo dicevo!

Nella foto, Giovanni “J Tillman” Fontana, batterista dei Fleet Foxes.

In un libro che non ricordo, Terzani racconta di una volta che, evadendo dalla morsa degli agenti cinesi, riuscì a montare su un treno per andare a visitare una delle poche comunità cattoliche resistita alla furia maoista. Villaggi rurali popolati di persone che non avevano altra scelta che conservare la propria fede in maniera intima, senza un prete, un officiante. Molti – quasi tutti tranne qualche vecchio – non ne avevano neanche mai incontrato uno, di preti. Fu così che quando Terzani iniziò a girare per il villaggio, tutti gli sguardi, da dietro le finestre, furono per lui, chiaramente occidentale. Fra questi sguardi c’erano anche quelli di alcuni agenti governativi, che lo fermarono e lo misero a forza sul primo treno per ripartire. Proprio mentre il treno iniziava il proprio moto, un ragazzo arrivò di corsa e – cercare di seguire il passo del treno – sussurrò «pater, pater, benedictus». Terzani capì che, vedendo per la prima volta un occidentale da quelle parti, quel ragazzo lo aveva scambiato per un prete venuto per benedire. Nell’imbarazzo del dover decidere cosa fare in un attimo, Terzani pronunciò le parole di rito: «In nomine Patris et filii et Spiritus Sancti», facendo ampie movenze. Il ragazzo si fermò e poté andare via contento. Qualche tempo dopo Terzani confessò questo piccolo inganno a un suo amico prete, in qualche modo per scusarsi, ma il suo amico lo assolse: «lhai reso felice, hai fatto bene».

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Mi sono iscritto a Twitter, Giovannifontana era già occupato così ho scelto Distantisaluti. Se siete già iscritti al mio account su Friendfeed non c’è bisogno di iscriversi su Twitter perché quello che non metto qui sul blog, lo metto su entrambi i social network. Se, invece, non siete iscritti a Friendfeed: beh, non sia mai che vi perdiate qualche mio importante contributo al dibattito mondiale! Ecco il link:

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La stupida attesa

3 su 5

Mi è capitato di ascoltare questa storia. È molto bella, e l’inglese non è difficilissimo – ascoltatela:

Gene Cheek

Racconta della storia di un matrimonio fra una donna e un nigger nel Sud americano delle Jim Crow laws, quelle che vietavano a bianchi e neri di sposarsi, o imponevano a Rosa Parks di lasciare il posto a un bianco.

È una storia incredibile (c’è anche un libro), raccontata dal figlio di lei – Gene – avuto dal primo matrimonio con un bianco, simpatizzante del Ku Klux Klan, come molti in quelle zone, al tempo. La storia inizia con Gene che entra un giorno in cucina e trova la madre in lacrime: quando lui le chiede perché, la risposta è «perché l’uomo che frequento – Tuck – dice che non ci dobbiamo più vedere, per il tuo bene». E perché? Perché è un negro. Il Ku Klux Klan si riunirà di fronte alla loro casa, la madre verrà processata per quella relazione, e non vi dico il resto per non rovinarvi la storia.

La cosa che colpisce di più, in questa storia che oggi chiunque considererebbe spaventosa, è la somiglianza – l’identicità – fra le ragioni che sostenevano coloro che si opponevano al matrimonio fra bianchi e neri, e quelle che usano oggi coloro che si oppongono al matrimonio fra uomo e uomo o donna e donna. Non è un’iperbole per screditare le opinioni degli ultimi con un paragone offensivo, no: è che sono proprio le stesse.

È contro natura. È contro la volontà di Dio. È scritto così nella Bibbia. Hai mai visto un uccello rosso e uno blu accoppiarsi? Che la risposta sarebbe anche sì, esistono animali omosessuali: ma poi chissene di cosa è naturale. E poi tutta l’enfasi sui figli: su quanto non sia sano esporli a un ambiente simile, sia per vero senso di contaminazione che perché “la società non è pronta”. Sono davvero le stesse idiozie.

Ho fatto due considerazioni. Naturalmente ci sono tutte quelle che avevo fatto in questo post, di cui riporto la didascalia a questa dolce foto scattata a una manifestazione per i matrimonî omosessuali:

È una coppia, un bianco e una nera, che tengono un cartello con scritto «un tempo anche il nostro matrimonio era illegale». Io la trovo commovente, perché vuole dire “noi abbiamo avuto questo diritto, ma non saremo contenti finché non ce l’avranno anche tutti gli altri. Tutti gli altri noi”.

Ovvero che tutte le settarizzazioni, anche quelle delle cause, sono sbagliate. Non devono essere gli omosessuali a difendere gli omosessuali, non è chi subisce un’ingiustizia ad avere più titolo per combatterla (né per capirla, come ogni tanto anche le stesse vittime sbagliano a pensare), perché l’ingiustizia – la stupidità ingiusta – ha una radice così simile di pregiudizio e indisposizione a cambiare idea, lo stesso carnet di dogmatismi e argomenti che non stanno in piedi.

Le persone che oggi sono contro al matrimonio fra omosessuali (naturalmente non ne faccio una questione di nome, si chiami pure briscola) stanno dicendo esattamente la stessa cosa, e cioè che un bianco e un nero non dovrebbero potersi sposare. Tutti i tentativi di razionalizzare quel pregiudizio, di distinguerlo da quell’altro che oggi sembra non tenibile, si scontrano con il ridicolo: per esempio, un matrimonio omosessuale non garantisce figli alla società – che vuol dire che in società sovraffollate, come la Cina, il matrimonio eterosessuale dovrebbe essere vietato, e quello omosessuale l’unico permesso.

Ci pensate? È una cosa su cui non c’è davvero niente da discutere. Perché discutiamo del matrimonio omosessuale? Non c’è una sola buona ragione contraria. Forse solo sull’adozione ci sono delle motivazioni ammissibili ma sbagliate, ma anche in quel caso l’unica risposta matura non è “sono d’accordo” o “non sono d’accordo”, ma “facciamo sì che tutte le persone che lo desiderano siano sottoposte a delle (dure) prove di idoneità per il benessere del figlio”. Non sei tu a dover decidere, ma degli psicologi, degli assistenti sociali – persone che sono preparate: non è che uno va dal medico e gli dice «eh, no, dottore: io non ho l’influenza, ma la varicella».

Eppure, a oggi, il matrimonio omosessuale è celebrato solamente in Europa e America (e, come noi italiani sappiamo bene, non ovunque), mentre i due continenti più popolosi al mondo – Asia e Africa, che insieme fanno i tre quarti della popolazione mondiale – hanno un solo Stato (Sud Africa e Israele, che li riconosce ma non li celebra) che accetta questo principio elementare di umanità.

E tutto questo, al di là del tragico, è così inerentemente ridicolo: perché sappiamo benissimo che quelle stesse persone che ieri erano contro al matrimonio misto e ora non ci penserebbero nemmeno, oggi sono contro al matrimonio omosessuale e fra qualche anno – se non vinceranno quelli che “bisogna rispettare le culture” – non ci penseranno nemmeno. Chissà quale sarà la nuova frontiera di quello stesso, identico e stupido, rifiuto.

Ho capito chi sono

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Il Padre di Chinaski!

Con la differenza che, non vivendo nello stesso posto per più d’un anno da diverso tempo, scuso i trecento salami con questa precarietà di sistemazione:

Non che il Padre non sia autosufficiente: il Padre non vuole essere autosufficiente, è diverso. Lui dell’autosufficienza se ne frega, fa solo ciò che gli interessa. Tagliare l’erba in giardino gli interessa. Lavorare gli interessa. Il gran premio di F1 gli interessa. Bere un bordeaux gli interessa. Farsi da mangiare non gli interessa. Se mia madre andasse via per un anno e io fossi in Mozambico, lui risolverebbe il problema cibo in uno dei seguenti modi: modo A, va al ristorante tutti i giorni, per un anno, pranzo e cena. Modo B, va al supermercato, prende 300 salami e 300 bottiglie di vino, pranzo e cena. Modo C, non mangia (il suo corpo è in grado di non mangiare, non bere, non dormire, non andare in bagno e insomma non essere un corpo per molto, molto tempo).