La preda

Il problema è che Berlusconi proprio non la capisce la costernazione sul viso di Zapatero (minuto 7.59), e di tutti noi. Berlusconi non riesce a misurare gli altri fuori dal suo metro di machismo dell’altro secolo, e davvero ci crede.

Io non gli chiederei conto delle sue bugie – se gli fossi amico – ma di quella concezione dozzinale e meschina del rapporto uomo-donna, dell’ironia da caserma fascista. Del suo essere portatore insano e orgoglioso di quell’insieme di sessuofobia e sessuomania che è quella malintesa virilità, il latin lover nella peggiore delle accezioni di questo concetto: quello che ha paura del sesso e se ne vergogna, la considera una cosa insana, ma al tempo stesso ha un’ossessione; la mente sempre puntata lì all’infrazione della norma – ovviamente soltanto nelle orecchie degli amici al bar, che ascoltano le tronfie spacconerie di un millantatore in punta di cazzo.

No Berlusconi. Non è invidioso quel giornalista (min 1.27), non sono invidiosi i giornalisti in sala. Non sono invidioso io, non sono invidiose tante persone – neanche di buon senso – soltanto normali. Non c’è nessuna, nessuna, nessuna, nessuna, nessuna, ragione al mondo per essere invidiosi del fatto che alle tue feste ci siano le veline, mentre alle nostre ci siano i nostri amici.

Togliti quindi quel sorriso ebete dalla bocca, hai fatto una figuraccia. Per fortuna l’hai fatta, perché fuori dall’Italia, anzi, fuori dalla trista cerchia dei tuoi accoliti, quell’uscita non fa ridere. Nessuno ti fa una domanda del genere, se è invidioso.

Non dico mica che non si possa essere invidiosi di Berlusconi, eh, anzi, considero l’invidia il motore del mondo, ciò che spinge un uomo a migliorarsi, vedendo un altro migliore. Ma è proprio questo il punto. L’idea che traspare della tua vita e della tua corte è terribile, orrida: degna di compassione.

Il cameratismo miserabile con il quale ti appelli ai maschi in sala (4.30) per far loro confermare – in coscienza – che guardare anzi, perdona, “posare gli occhi” su una bella donna rende una cena gradevole è della stessa schiatta delle tue battute da mani nei capelli: “le femmine per fare una domanda, devono lasciare il numero di telefono”, hai detto, l’altra volta. Non fa ridere. Non c’è nulla da ridere. Non si può ridere per una cosa del genere, se non si ha una concezione virulenta e proibitistica del sesso.

Lasciamo stare il fatto che, tu, quelle donne l’hai pagate, ma quale folle ragionamento ti fa pensare che difendersi da quell’accusa spiegando che non l’hai mai fatto perché ti piace la conquista (min 7.46) ti renda meno poveraccio e inadeguato?
Sono settantanni che, almeno in Occidente, non si considera più la donna come una preda, anzi, che la donna stessa – grazie al Cielo – non si considera essa stessa una preda. Se tu vai a letto con una donna, non la stai “fregando”, non sei riuscito a eludere le sue difese. Magari va anche a lei, magari più che a te, o magari le vanno i tuoi soldi. E non c’è niente di male, ti dirò: fa bene, lei.
Ma la preda sei tu.

L’omosessualità conviene

In questo periodo di bombe carta, accoltellamenti, noti omosessuali attenzionati, vivo sempre con una irta traccia di malessere che non riesco a definire bene. Sono fatti e frangenti che proprio non capisco, in fondo – mi rendo conto – io non so proprio come discutere con qualcuno che abbia qualcosa contro l’omosessualità, mi sembra una cosa fuori dal mondo, non politicamente sbagliata.

Allora sono andato a ripescare un ragionamento scritto da Max tempo fa – ero ancora in Palestina – che avevo molto apprezzato, perché rendeva – anche – politico, quello che è di umanità.
E lo traduco in italiano, l’originale è qui. L’argomento mi aveva particolarmente attirato, perché io sono sempre molto restio a spiegare che l’omosessualità non è una scelta perché – l’avevo scritto, dategli un’occhiata – questo sembra implicare che se, invece, fosse una scelta ci sarebbe qualcosa di male. Invece no:

(precedono numerosi argomenti scientifici che spiegano come l’omosessualità sia un tratto sia genetico – con un’incidenza fra il 5 e il 10 percento – che condizionato dalla società) Tutto questo per dire che l’omosessualità è parte di un “normale” spettro di comportamenti umani, e l’ambiente inciderà molto poco senza un background genetico con tale propensione: non tutti i figli minori di padri che li maltrattano e madri superprotettive diventeranno omosessuali, né l’opposto di questo preverrà il comportamento! L’inclusione dell’omosessualità nel “normale” range dei comportamenti umani è importante perché un comportamento “anormale” richiama immediatamente il concetto di cura o aggiustamento:  trattamento psicologico (com’era un tempo) o il carcere, come per i crimini.

Una volta che accettiamo che è un comportamento normale, la domanda successiva è “è male per la società?”

Lo stupro, la necrofilia, la zoofilia, l’omicidio non sono solamente comportamenti anormali presenti nella popolazione umana a livelli molto bassi e senza una sottostante base genetica, ma infrangono i diritti di altre entità. Sono comportamenti antisociali crudeli e distruttivi che ovviamente minano le basi della cooperazione sociale e della coesistenza. Violano la Golden Rule “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” (che, per inciso, non è stata inventata da Gesù ma si può datare almeno 5000 anni fa, nel subcontinente indiano con il Giainismo e lo Zoroastrismo), un fondamentale comportamento umano che scaturisce dal nostro innato senso di empatia e dal nostro spirito di cooperazione (il contraltare del nostro innato istinto competitivo), la base per i moderni diritti umani.

L’omosessualità non ha nessuna di tali caratteristiche. Non viola la Golden Rule.  Molteplici e vasti studi sostengono la tesi di “nessuna differenza” per i figli di coppie omosessuali. In più l’esposizione a un ambiente più diversificato porta a una maggiore tolleranza e apertura mentale da adulti, così che  la coesistenza e la cooperazione sociale ne beneficiano. Dove l’omosessualità e i matrimoni omosessuali sono legali la società non è crollata né si è dissolta, il cielo non è caduto: anzi, una forza lavoro più educata, più motivata, e più impegnata è stata promossa e attratta; i diritti civili hanno stabilizzato coppie e famiglie, togliendo tensione ed eliminando le incertezze. Ci sono molti elementi che suggeriscono che un’ampia accettazione sociale dell’omosessualità rende le persone più felici, e delle persone più felici sono migliori lavoratori e consumatori. Alla fine, l’omosessualità è ottima per l’economia!

Poi, un giorno, anche in Italia i gay potranno sposarsi e adottare, e l’indomani nessuno ci troverà nulla di strano. Tutti percepiranno il vietarlo come un’inammissibile discriminazione, la Chiesa dirà che ciò che ne dicono i testi sacri va “interpretato”, e tutti vivranno felici e contenti, con i teisti che rivendicheranno come parte della loro fede (Dio è amore!) le conquiste fatte a scapito loro soltanto dieci o venti anni prima.

Termino con un video di dove queste cose sono già successe, e dove chi ha due papà lo va a cantare – non in un programma di approfondimento – ma allo Zecchino D’Oro.

‘Na coscienza tutta mia

Un tempo si diceva che Il Foglio fosse, più che un giornale, un grande blog collettivo con delle idee un po’ strambe, e un’insolita apertura ai pareri altrui. Peggio! Hanno chiesto il mio, di parere, su cosa sia la coscienza, e ‘stavolta le idee strambe ce le ho messe io. Dice: ma sei riuscito a scrivere un post mangiapretesco anche per il Foglio? Beh, loro hanno fatto di più: l’hanno pubblicato.

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La ricopio qui:

Io ce l’ho col peccato originale. Questa faccenda che l’uomo sia cattivo e possa essere salvato dalle sovrastrutture etiche non m’ha mai convinto. Anzi, per me è tutto il contrario, che l’uomo è buono e son le sovrastrutture a fregarlo.
Noi saremmo naturalmente portati a voler bene – soprattutto a non voler far male – al prossimo, a tutti gli altri individui che condividono la nostra sorte; sono le varie circoscrizioni al ribasso della nostra specie a permettere l’elusione della Regola d’Oro: “non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. La disumanizzazione del prossimo, perché ha la pelle di un colore diverso, perché crede in un altro Dio, perché ha un’altra patria, rendono il prossimo – appunto – meno umano, disinnescando questo benigno riflesso condizionato.

Dunque sì, c’è davvero quella solita ignota chiamata coscienza, ma quando Madre Natura ce l’ha messa in dotazione non l’ha piazzata nel cuore o nell’anima, l’ha sistemata nel cervello, origine di tutti i beni. In realtà non la si dovrebbe chiamare coscienza, ma neuroni specchio, perché senza di quelli saremmo fregati: quando vediamo una persona stare male, stiamo male. Funzionano, funzioniamo così. E per una ragione semplice: ci conviene. Vivere a contatto con qualcuno che soffre se noi soffriamo, lo rende meno cagionevole all’egoismo. Dite che è una prospettiva gretta e una lirica illusione dell’età della Scienza? Macché, sapere che un seme di bontà è dentro chi ci sta accanto, è molto meglio che immaginarlo alle prese con una morale forzosa costruita per interposta divinità. Siamo buoni, ora dobbiamo dimostrarlo.

E quanto al lirismo dell’illusione, beh, sto con Trilussa:
Io, ne convengo, faccio una pazzia / a commette er peccato origginale: / ma er giorno che conosco er bene e er male / me formo una coscienza tutta mia. / Sarò padrone e schiavo de me stesso, / bono e cattivo, giudice e accusato / e, all’occasione, intelliggente e fesso.

«They will in a minute»

Da un bel po’ di tempo tormento tutti i miei conoscenti con la più bella conferenza mai tenuta: stupenda, ispirante, gioiosa, divertente. Quelli che riuscivano a scamparla lo facevano con la solita scusa del non sapere l’inglese, ora l’ho trovata sottotitolata in italiano!

Sì chiama “Come la scuola uccide la creatività”, davvero, prendetevi questi 17 minuti. Garantisco che neanche uno se ne pentirà:

Per forza è pulita, non l’ho mai usata!

Qualche giorno fa mi aveva appassionato la discussione seguita a questo post, nei successivi commenti. Ci sono due motivi per cui seguo con propensione un blog: o perché mi insegna davvero qualcosa, o perché il tenutario è un amico. Con buona approssimazione posso dire che i blog dei due discutenti siano gli unici che rientrano in entrambe le categorie, che leggerei anche se non fossero amici, e la cui (diversa) amicizia mi pregia. Quindi capirete perché del surplus di interesse.

Di mestiere Francesco pensa e scrive, mentre Marco insegna a pensare, e questa differenza si vede. Se seguite la discussione avrete l’impressione che abbia ragione Francesco, ma poi leggerete la risposta di Marco e cambierete idea, convincendovi degli argomenti di quest’ultimo; e così sarà per la successiva risposta di Francesco, e quella poi di Marco. O almeno così è stato per me, nonostante fossero temi su cui ognuno di noi – e io – ha pensato mille volte, anche creandosi in testa le varie fattispecie. Ed è una cosa abbastanza rara, devo dire, perché solitamente quando si segue una discussione si tende ad accogliere l’opinione che è più vicina alla nostra di partenza («dài, che gliele stai dando!») e screditare quella di chi ci è più lontano («ma guarda ora cosa si è inventato questo: ci deve essere un modo per uscirne»). L’idea che mi sono fatto alla fine è che l’argomento di Francesco sia al tempo stesso più facile e più stabile, quello di Marco meno approssimato. Penso anche che Francesco abbia più ragioni di quante non ne abbia scritte. Questo per la cronaca.

Quello che però avevo a cuore, e mi preme davvero perché è uno dei fondamenti di tutto quello che penso, è non lasciare impunito un concetto che un retropensiero di Marco ha insinuato: ovvero che ci sia una differenza sostanziale fra fare del male, e lasciare che questo sia fatto. Che uccidere una persona con le proprie mani è peggio che lasciare che due persone siano uccise, quando si abbiano gli strumenti per impedirlo.

Così Marco, se non confondo, tiene a salvaguardare l’altrui e la propria coscienza dal commettere ciò ch’egli considera un omicidio (mi perdoni Marco, l’approssimazione), come se questo fosse il problema. Come se per chi la pensa come lui il dolore non siano le migliaia di aborti che si commetono quotidianamente, ma l’importanza del non causarlo – o esserne partecipi – in prima persona. L’obiezione secondo la quale se-tutti-facessero-come-faccio-io mi sembra non reggere alla prova pratica di un mondo spesso così inclemente da offrire alternative peggiori, e non migliori. Perché, circostanza della quale si rammarica la testata di Francesco, purtroppo tutto il mondo non fa quello che faremmo noi. Possiamo fare l’esempio dell’aborto clandestino perché siamo in argomento, ma potrebbe valere molto bene l’esempio posto qui da un mio commentatore, in tutt’altro ambito.

Sono abbastanza convinto che Marco non la pensi apertamente così, che posto di fronte alla concretezza del decidere se causare un aborto o assistere a due, opterebbe per la prima soluzione, e in parte corregge anche il tiro quando parla della pillola abortiva e di come per lui sarebbe più importante sollevare un dibattito (anche se questo portasse all’apertura totale alla pillola in questone?) piuttosto che le conseguenze nelle quali incapperebbe come farmacista fuorilegge; ma secondo me è una cosa su cui dovremmo riflettere bene, questa stramba idea per cui non sporcarsi le mani sia una cosa lodevole.

Qualche anno fa pensavo che non avrei fatto entrare una donna velata in casa mia perché – dicevo – a casa mia donne e uomini hanno lo stesso valore. Ferma restando la legittimità di tale principio fra le 4 mura che io posseggo, mi son ritrovato a pensare che quello fosse soltanto un vezzo narcisistico per autocompiacermi di quanto fossi giusto e quanto avessi a cuore la parità dei sessi: qualche anno dopo, senza avere in nulla cambiato idea rispetto a quell’orrendo simbolo di sottomissione – e senza scontare a lei nessuno dei miei rimbrotti – ho lavorato per mesi in Palestina a fianco di una donna velata.

Insomma, secondo me sopravvalutiamo l’importanza della nostra coscienza, della pulizia di essa, e di quanto questa incida veramente sulle sorti del mondo. Considerare la propria coscienza come il campo della Vera Battaglia fra le idee giuste e quelle sbagliate è bambinesco e arrogante: l’importanza di quelle battaglie si fa là fuori, nel mondo. Dove in una delle tante risse terrose fra limacciosi principî a cui la vita ci costringe, e che la vita ci regala, alla nostra coscienza può capitare anche di macchiarsi.

Il parere è mio, e me lo gestisco io

Io non sono d’accordo con Luca S quando, secondo me, sottostima il bene che può ispirare il credere in Dio: per dire, io sarei tanto più contento di credere, che tutto non finisse nel nulla, e che insomma il senso non si ricavasse (spremendo) dal solo intervallo di tempo fra il nascere – casualmente – e il morire – talvolta altrettanto casualmente.

Però quando censura il luogo comune più venefico che c’è – quello secondo cui cercare di convincere l’altro delle proprie ragioni non sia una cosa altruista (perché in fondo, che ti frega?) ma una cosa negativa – mi viene da fargli tanti applausi.

Così ricopio qui una parte di quello che scrissi a 18 anni (sì, ho detto a diciott’anni, quindi siate clementi con lo stile un po’ arioso):

LA FIERA DELLE BANALITÀ / parte terza (grazie a Enrico)
Ovvero: – il carro dei millantatori poco convinti.
“Non ti voglio mica convincere delle mie ragioni”

Poniamo il frequente caso in cui dopo ore di discussioni (e magari fossero ore)
i due dialoganti giungono alla bieca e triste convinzione,
sempre troppo presto per quanto mi riguarda,
che ognuno la pensa come la pensa e chi vivrà vedrà

quando capita mi domando sempre perché mi ostini a tentarla una discussione
ma è più forte di me:
vorrei, vorrei parlare
sarei addirittura disposto a fare la parte del reazionario di destra
o dello stalinista del socialismo reale,
o del cattolico osservante per poter parlare un poco.

ma il peggio giunge
quando nell’ultima dissertazione,
e ti accorgi che è l’ultima poprio da questo arguto incipit,
uno dei due dialoganti sostiene:
“io non ti voglio mica convincere della mia idea”
come se cercare di provare concretamente
la propria opinione fosse un’offesa
un attacco
che parlo a fare se non vuoi che dimostri le mie ragioni?
è ovvio che voglia dimostrartele, voglio farti vedere che ho delle prove concrete riguardo a ciò che dico
e spero tu non sia da meno.

non mi offenderò se tu alla fine del dialogo rimarrai stretto avvinghiato alla tua ottica,
ma il mio intento è proprio dimostrarti le mie ragioni,
sperando che possano esserti utili per modificare e accrescere il tuo pensiero
tanto quanto il tuo medesimo comportamento servirà a me.

Quindi basta finiamola.
Sì che vuoi convincermi della tua idea
non con un coltello puntato alla gola
ma con la semplice idea
il gentile e innocuo scambio di opinioni
dove la mia opinione esce fuori, fa capolino,
ma non ti tocca e la tua fa lo stesso
non è fertile

produce chiacchiere certo,
ma non è fertile

Il problema è che:
a questo uomo qui non va proprio giù
l’idea stessa del “movimento”
la Storia.

e pensare che incontrare qualcuno che infonda in te uno stimolo a modificare la tua propria idea
è così amabile.

Gli zingari e i furti di bambini

In Italia non c’è un solo caso di zingaro condannato per “furto dei bambini”. Voi lo saprete già, io l’ho scoperto qualche mese fa. E me ne vergognai abbastanza. Come facevo a essere così disinformato su di un fatto tanto evidente? Ogni volta che mi tornano in mente i due casi di quest’anno, quello di Ponticelli e di Catania, tanto pompati al tempo delle traballanti accuse, quanto trascurati ora che si sono rivelati due falsi, beh, mi assolvo un pochino per la mia precedente (e comune, deduco)  ignoranza. Possibile che una notizia come questa non “sfondi”, mai, sui media?

In Occidente i Rom, e gli zingari in generale, sono uno degli ultimi serbatoî al quale si possano attingere rigurgiti razzisti e teoremi spregevoli senza il rischio della censura sociale. Anzi, proprio in virtù di questa unicità, è più facile associare loro un qualsiasi epigono del più bieco dei luoghi comuni: «io non sono razzista, ma… gli zingari».

Però la cosa più aberrante del comune modo di rapportarsi ai Rom – e forse la questione ha tratti comuni al rapporto con l’Islam – è che qualunque approccio è totalizzante: o si accusano in toto (spesso), o si difendono in toto. E se l’intollerante di turno che agita la condizione delle donne all’interno dei campi nomadi non lo fa interessandosi veramente a quelle donne, ma solo per dare una legittimità camuffata ai propri accenti di disprezzo; è terribile (quasi altrettanto) l’atteggiamento contrario: quello che – per il benigno intento di difendere il prossimo dal razzismo – trascura gli orrori, ammantandosi di quel rispetto-per-le-altre-culture che non considera che il rispetto per una cultura, così, è il rispetto per chi ha la forza, in quella cultura.

Nelle mie girovagazioni lavorative e volontarie di questo periodo, ho avuto fugaci rapporti anche con i Rom, e con le loro storie raccapriccianti: Danja, una ragazza bosniaca, che a 13 anni era stata venduta al marito per svariate migliaia di euro; il suo valore era dato dal fatto che fosse bella giovane e – soprattutto – vergine, assente questa condizione il suo prezzo sarebbe stato esattamente la metà. Costretta ad avere rapporti sessuali, assumere droga (per non farlo, poverina, si chiudeva in bagno per ore), andare a rubare, era poi fuggita. Sapendo che l’unica possibilità di sopravvivenza, era quella di vivere per sempre in una struttura: diversamente uno dei duecentocinquanta parenti del marito l’avrebbe riconosciuta e uccisa. Tutto questo succeva, e succede quotidianamente, in Italia. Raccontava di come, quando arrivava la polizia per i ciclici sgomberi, lei – che viveva rinchiusa a chiave dentro una roulotte – cercasse di attirare l’attenzione dei poliziotti, e nessuno la degnava d’uno sguardo amichevole.

Ecco, se vi viene da pensare “vedi? Alla fine si torna lì, che sono questi Rom a essere dei prepotenti, delinquenti e incivili”, pensate che anche Danja è una Rom – non l’ha deciso, ci è nata – e non ha fatto nulla per meritare il vostro disprezzo. Anzi.

Assertivo

Mi riservo di argomentarla meglio in un secondo tempo, ma così all’impronta: “X critica  Y perché è invisioso/a” è una delle sciocchezze arci-italiane meno censurate. A torto.