L’equivoco di fondo su Emergency

A me le accuse ai tre medici italiani sono sembrate fin da subito assurde, e ora che ci ho ragionato sopra un po’, ancora di più. Che abbiano preso parte all’organizzazione di attentati del tutto assurdo, che abbiano ucciso l’interprete di Mastrogianomo impossibile  – e difatti è subito stato smentito. Mi sembrano ridicole anche tutte le altre ipotesi di complotto che si fondano sull’obiettivo di “dare fastidio a Emergency”, quando il governo afgano – volesse – potrebbe chiudere l’ospedale di Emergency in quattro e quattr’otto, come del resto avevano fatto i talebani.

Per questo, alla notizia parsami incredibile, della confessione di colpevolezza da parte dei medici apparsa sul Times di Londra, ho aperto un thread su Frienfeed il cui titolo era: «mi spiegate cosa devo pensarne?», proprio perché non ne avevo idea. Ne è venuta fuori una discussione a cui hanno partecipato in molti e che è servita a scartare alcune ipotesi, e a rendersi conto che – a quanto se ne sa ora – non si può arrivare a una ricostruzione attendibile.

C’è tuttavia un equivoco di fondo, su Emergency, che è venuto fuori più volte nella discussione e che mi pare utile fare presente. Provo a raccontarlo qui senza pretendere che sia necessariamente l’atteggiamento di tutti coloro che in queste ore «stanno con Emergency» ma mi pare il “modus discutendi” di moltissimi di coloro con cui ho avuto modo di affrontare la questione.

Il primo riflesso è sempre quello di rivendicare la potenza etica delle posizioni di Emergency, ieri ho addirittura letto “la totale chiarezza delle opinioni di Gino Strada”, l’idea che in qualunque conflitto Emergency sia neutrale. Vale lo stesso discorso per i finanziamenti governativi: “Emergency non prende soldi dai governi”, come se fosse una cosa positiva. Quei soldi dei governi potrebbero salvare molte più vite e tu ti curi di non prendere denaro da chi non ti sta simpatico?

L’argomento filosofico su cui si fondano questi encomî è turpe, e tutti se ne rendono conto dopo un paio di obiezioni: come si può essere contenti di essere neutrali nei confronti di assassini sanguinarî? Difatti quando poi si fa presente quest’ultimo aspetto – la connivenza insita in qualunque tipo di neutralità – l’interlocutore recede e rivendica la necessità di una tale posizione per operare in contesti di guerra. L’appeasement.

Ora, io lo trovo un discorso del tutto logico. Emergency deve intrattenere rapporti con personaggi immondi per operare in Afganistan e in altre parti del mondo, e  – in linea di massima – fa bene, perché il loro obiettivo è più importante. Soltanto un egocentrico o uno stupido può pensare che la pulizia della propria coscienza sia più rilevante rispetto a salvare la vita a delle persone. Per quanto la cosa mi causi qualche perplessità in più sono anche d’accordo che l’ospedale di Emergency curi degli assassini spietati senza poi consegnarli alle autorità afgane, per ragioni simili a quelle per cui ho considerato questa come la legge più indegna proposta dal Governo Berlusconi. Trovo per questo comprensibile che Emergency abbia rapporti con i talebani, e non mi stupirei troppo neppure se – sottostando a qualche ricatto – avesse fatto un ragionamento di maggiore realpolitik. “Sporcarsi le mani”, talvolta, è una cosa necessaria. È un compromesso irrinunciabile, a cui tutti vorremmo rinunciare, ma purtroppo non è possibile.

Quindi, però, non bisogna confondere l’ideologia con la strategia. Ciò che si può dire per difendere Emergency è: sono costretti ad adottare la neutralità come metro, anche se questa è una posizione disgustosa. Per un bene più grande, ovvero curare le persone, si trovano a fare una cosa indegna: ovvero essere neutrali rispetto a idee, come quelle del fondamentalismo dei taliban, per cui qualunque persona con un abbozzato concetto di etica proverebbe repulsione. Il problema è che Strada non dice nulla di tutto ciò, e anzi rivendica la sua equidistanza, il suo non prendere parte, come un concetto onorevole. Ed è un problema grave perché fonda l’equivoco principale su cui, secondo me, proliferano molte delle critiche che arrivano a Emergency anche da persone in malafede.

Insomma, il giorno che Gino Strada salirà su un palco e dirà:

«a noi non piace l’indifferenza, sappiamo bene che la neutralità è una forma di connivenza, come sappiamo che non prendere parte è una posizione acclaratamente immorale. Siamo perfettamente consapevoli che la neutralità di fronte a un’ingiustizia non esiste, non fare nulla per evitarla è prendere una posizione. Sappiamo tutto questo e vorremmo essere in grado di professarlo nella maniera più limpida. Purtroppo per operare in queste aree siamo costretti a fare finta che l’idea che i taliban hanno delle donne e degli omosessuali non conti nulla, ci tocca ignorare le loro posizioni sull’uccisione di tutti gli infedeli e la soppressione di ogni libertà personale, ma lo facciamo per un bene più grande, ovvero l’incolumità di tutte queste persone. Il giorno in cui ci sarà permesso di operare senza essere neutrali, parteggiando per chi ha a cuore le donne, gli omosessuali, e tutte le persone più sofferenti, saremo felicissimi di farlo. Fino a quel giorno ci tocca sporcarci le mani»

Ecco, quando Gino Strada farà un discorso così avrà, fra i tanti applausi, anche il mio: non solo per quello che fa – che già c’è – ma anche per quello che dice.

Pansessualismo un cazzo

Negli angoli dei dibattitoi che frequento io si è molto discusso di questa intervista a Monsignor Girotti: la cosa che ha destato scandalo è che il monsignore in questione abbia ribadito il concetto che sia più facile assolvere un pedofilo (quindi anche un prete pedofilo), rispetto a una donna che abbia abortito.

Mi sono venute in mente varie cose, e sono spunti che ricollego a discussioni fatte in passato con persone con cui avevo fruttuosamente dibattuto temi vicini:

  1. La cosa che mi ha colpito subito è come sia, invece, passato in sordina un concetto orribile, al quale però siamo abituati e che quindi non desta scandalo. Girotti dice che un confessore a cui vengano raccontati i peggiori atti di pedofilia non solo non possa, ma non debba (pena la scomunica ispo facto) né denunciare all’autorità giudiziaria né, neanche!, imporre in coscienza l’autodenuncia. In questo c’è tutto un retroterra di cose spregevoli che, un giorno, dovremo anche voltare: la superiorità del potere spirituale su quello temporale, ma soprattutto l’idea che la delazione sia offesa all’individuo e tradimento, anziché dovere civico nei confronti della società. Per quanto mi riguarda l’omessa denuncia dovrebbe valere, quasi e quanto, la connivenza con il reato.
  2. Sul tema pedofilia/aborto, Marco ha detto due cose, la prima – trovo – un po’ sciocca, ovvero che i non credenti non dovrebbero preoccuparsi delle questioni interne alla Chiesa. Criterio davvero inusuale: valutiamo tutte le cose, sia quelle a cui apparteniamo che quelle a cui non apparteniamo. Se leggo che un’istituzione considera più grave il furto dell’omicidio, peggioro la mia opinione di quell’istituzione, anche se non vi appartengo. Così valuto, nel bene o nel male, la Chiesa esattamente in base a chi e come sceglie di scomunicare, o punire, per quanto la scomunica stessa – a me non credente – non faccia alcun effetto.
  3. La seconda cosa che ha fatto notare Marco, e qui sono più vicino al suo pensiero, è “dove sta la notizia?”. La prassi della Chiesa è in gran parte una questione politica e diacronica. Il fatto che l’aborto sia considerato fra i peccati da cui non ci si può lavare, e non lo sia la pedofilia, è dato da una serie di concause più storiconaturali che dottrinarie – per quanto le due cose siano necessariamente intrecciate – e che quindi saranno probabilmente emendate, se la questione della pedofilia assumerà, nel mondo, l’importanza che sta assumendo. In altre parole, queste mie e non di Marco, la Chiesa correrà ai ripari per difendere la propria sopravvivenza, come ha fatto tante altre volte nel corso dei secoli.
  4. Questa considerazione mi ha fatto ripensare a uno scambio di battute che avevamo avuto con Rosa, per altri versi, in cui lei aveva sostenuto che la pedofilia fosse il nuovo simulacro del Male della nostra società. Che ovviamente è una cosa grave, da contrastare e da punire, ma che il tic mentale per cui – attualmente – quando si pensa all’esempio di “cattivone, cattivone, cattivone” viene subito in mente un pedofilo – diceva Rosa – dimostra un accanimento quasi morboso e monotematico. Non ha torto, ho pensato. È un discorso lunghissimo che non mi sento in grado di affrontare ora, ma credo che affondi nella stessa concezione del sesso che costituisce il mio quinto spunto di riflessione: si è portati a pensare in qualche modo che siccome il sesso è male, farlo su di un bambino è ancora più grave. Credo, invece, che bisognerebbe spostare l’inaudita gravità dell’atto di pedofilia sul bambino, e non sul sesso. Invertendone l’ordine e la causa: la gravità non può essere situata nell’atto, nella libido, ma nell’impossibilità che un bambino sia consenziente.

Infine, e questo è il pensiero che più mi sta cuore, una cosa squilibrata che ha detto il mio amico Fra’ Alberto nel tentativo di contestualizzare le pulsioni pedofile dei membri del clero: “potremmo provare a ripensare l’educazione, la società e il pansessualismo che c’è nei media, sarebbe un inizio“. Sono certo che Alberto non abbia alcuna simpatia – né desiderio di concedere attenuanti – ai suoi colleghi sporcaccioni, non penso quindi che abbia espresso quel pensiero per difesa della categoria: sono persuaso, e potrei scommetterci una grigliata, che – parlandone in privato – ad Alberto verrebbe meno anche la carità cristiana “io, quelli lì, li appenderei per le palle”, mi direbbe.
È però, e invece, per una concezione deviata del sesso – quella che imputa al “pansessualismo” le perversioni, che vede nella liberazione sessuale un disordine e una tentazione – che Alberto ragiona così. È per l’idea che l’uomo sia un tumulto d’istinti orribili, e che l’unica possibile risposta sia la costipazione. È per la frase con cui lo stesso Alberto mi spiegò la sua risposta – che già citai qui, con il suo permesso – a una mia domanda sul celibato e alle pulsioni: «bisogna contenersi, bisogna trattenersi», mi disse, quasi orgogliosamente.
Ecco, è esattamente – con la precisione di un bersaglio centrato – per questa idea ingloriosa, questo concentrato di odio verso il terreno e il gioioso, per questo morboso fascino per il divieto e la costrizione, che il tasso di incidenza della pedofilia all’interno del clero è spropositato.
È l’esatto opposto di quello che dice il Vaticano, non è la possibilità di vedere e praticare il sesso che favorisce la pedofilia. È, al contrario, quell’atmosfera di costrizione patologica, di pelosa vergogna, a cui viene sempre accostato il piacere sessuale, a coltivare il terreno dei turbamenti e delle perversioni, dei divieti e della depravazione.
Se la Chiesa smettesse di dire, ogni volta che si distribuiscono dei profilattici nelle scuole, la frase più stupida del mondo “così si banalizza la sessualità”, farebbe sì un pubblico servigio alla società, e a sé stessa. Se iniziasse a capire che dire che il sesso fra due adulti consenzienti è banale, è come dire che lo è una mangiata in compagnia di amici, e mille altre cose che nessuno si figurerebbe di censurare.
Se, insomma, si mettessero in testa la cosa più elementare (banale?) del mondo, ovvero che non possono esistere dei crimini senza vittime, che il Male (con la “M” maiuscola) può esserci solo dove si fa del male (con la “m” minuscola) a qualcuno, e che quindi una cosa che fa piacere alle uniche due persone implicate non può costituire nessun Male – beh, se ci arrivassero veramente – riuscirebbero davvero a fare ciò che professano: aiutare a lottare contro i veri crimini, quelli con le vittime, quelle non consenzienti.

Fenomenologia del fumatore prepotente

Chi mi conosce sa che ho un brutto rapporto con i fumatori, o meglio: ho un brutto rapporto con i fumatori prepotenti. La mia idea è che la tua libertà di fumare (o mangiare la carbonara, o saltare sui fili dell’alta tensione) termina nel punto esatto in cui costringi me a farlo. Ed è proprio nella sacralità di questo limite – che non ammette tolleranza – che risolvo l’apparente contraddizione di essere, al tempo stesso, un acceso sostenitore della liberalizzazione dei varî fumi, hashish, erbe, etc e contrario all’imposizione ai non-fumatori delle promanazioni del proprio vizio.

Ovviamente non parlo di tutti i fumatori – anzi, la gran parte dei miei conoscenti che fumano non si comportano così. Non ho neanche una gran concezione salutista della vita: ognuno si può far male come preferisce, basta che non lo faccia agli altri. Però, questo sì, quando discuto con un fumatore prepotente mi imbestialisco proprio: e la mia irritazione accresce all’aumentare della povertà argomentativa degli espedienti che il fumatore-prepotente usa per difendere l’inversione dell’onere della privazione ch’egli mette sempre in atto.

Per “inversione dell’onere della privazione” intendo quel meccanismo mentale con cui, per il tipico esemplare di fumatore prepotente, non è lui a dover tenere il proprio fumo lontano dalla tua faccia, ma è la tua faccia a dover stare lontana dal suo fumo: come fossi tu, e non lui, a fare una cosa che A) fa male B) puzza.
I tre espedienti retorici più comuni, a corollario e motivazione di tale inversione, sono spesso i seguenti:

  • Il teorema dello zio Beppe: «mio zio Beppe ha fumato fino a novant’anni» -> il fumo non fa male. Che è come dire che sporgersi da un balcone al quinto piano di un palazzo non fa male, perché… eh «mio zio Beppe si è sporto dal balcone per decine d’anni». Gli è andata bene, al vostro zio Beppe. (Tanti) altri non sono stati così fortunati.
  • Il teorema del benaltrismo: «ma scusa, anche i tubi di scappamento delle macchine fanno male». E allora? Messo da parte il fatto che, di tutto quello che ho letto io, il fumo passivo fa molto più male, il punto è un altro: questa, semmai, è un’obiezione per lottare in favore delle marmitte catalitiche, non certo in difesa della liceità di fumare in faccia a qualcun altro. Inizia a darti da fare con me contro il fumo passivo, poi – se mi convinci – ci diamo da fare anche contro le marmitte.
  • Il teorema del danno minimo: «ma una sigaretta che vuoi che sia?». E un cazzotto? Anche quello, che vuoi che sia? Il problema è che quale che sia il danno, sigaretta, pugno, sputo in faccia, calcio nei coglioni, quello è un danno che tu stai arrecando a me senza il mio consenso. Certo che, per cose più importanti, uno può sopportare un danno minimo, ma il tuo bisogno di fumare non è più importante della mia salute, fosse anche una porzione piccola della mia salute.

So che, molto spesso, questi sono tic mentali di persone che sono nate e vissute in una società in cui tutti i danni che il fumo causava non erano conosciuti, quindi non c’era nessuna censura sociale e si poteva fumare persino al cinema. Difatti, di solito, sono più indulgente con chi ha una certa età, ma questa è comunque una dimostrazione di ottusità, perché l’intelligenza è – anche – la capacità di cambiare idee e abitudini al giungere di nuovi dati.

Tutto questo per dire – oh, volevo scrivere una piccola introduzione alla foto qui sotto e ho finito per scrivere una fenomenologia del fumatore prepotente – che ho trovato questa foto quasi commovente. Al contrario delle minacce di morte che ci sono ora sui pacchetti di sigarette – che più che necessità d’informare sembrano rispondere alla necessità di terrorizzare – questo cartello è la testimonianza di una persona che vuole bene al prossimo. Lui si chiama, si chiamava, Albert Whittamore e soffriva da tempo di disastri ai polmoni causati dalle sigarette. Aveva chiesto che, dopo la sua morte, accanto alla sua tomba fosse appeso questo cartello: “Il fumo mi ha ucciso”. Come a dire «io oramai l’ho fatto, ma a voi ci tengo: non imitatemi».

AP

Comitato per l’abolizione del “più”

C’è un tic linguistico che io non sopporto proprio, perché è riflesso di una concezione degenerata del mondo che mi preoccupa prima di scocciarmi. È quello di aggiungere un “più” a frasi sensate – delle volte anche senza rendersene conto – in modo, però, da stravolgerne il senso. Chessò. Proviamo con questo esempio:

Frase 1: In Italia non si rispettano le donne.

Frase 2: In Italia non si rispettano più le donne.

Per quanto – se non si ha una concezione grottesca e misogina dei rapporti uomo-donna – sia ordinariamente ovvio che la condizione delle donne nell’Italia attuale sia di gran lunga migliore rispetto a quella di trent’anni fa, troveremo molte più volte scritta o detta la seconda. Non ha senso, ma retoricamente fa più effetto. Ovviamente funziona con altre parole simili, proviamo con “oramai”.

Frase 1: I giovani pensano solo al sesso

Frase 2: Ormai i giovani pensano solo al sesso

Anche in questo caso: i giovani di un tempo pensavano meno al sesso? Direi proprio di no. Basta visitare qualche area rurale dell’Italia, o anche Paesi che – per vicissitudini storiche – sono in condizioni simili a quello che dell’Italia di qualche decennio fa, per rendersi conto che sia – semmai – il contrario. Che è tutto l’accento sulla proibizione, che crea un’ossessione. Che è chiaro che molti giovani, e non giovani, pensino abbastanza al sesso (e non c’è nulla di male), ma non in tassi superiori a prima. Però, vedrete, che una frase del genere sarà sempre accompagnata da un malintesto “oramai”.

Il più fulgido esempio della diffusione di questo luogo comune è Massimo Gramellini, uno dei giornalisti più preparati in Italia. Uno che riesce a scrivere cose belle, sintetiche, commoventi e partecipi come questa, alla quale sono affezionatissimo, ma che poi – in moltissime delle sue cose – si lascia sfuggire quell’innesto qualunquista: prendo l’ultimo dei suoi “Buongiorno” nel momento in cui scrivo, non è selezionato all’uopo: “C’è ancora in Italia un disadattato che non ruba, pur occupando un ruolo che gli consentirebbe di farlo?”. Ancora. Come se, invece, nell’Italia della DC e poi in quella di Craxi non si potesse usare lo stesso indulgente catastrofismo.

Gramellini, che io apprezzo davvero, è solo un esempio: succede a tanti e in continuazione. Ma non perché le persone credano, ogni volta, che davvero si stia peggio nel 2010 rispetto al 1950. Non sono tutti dei laudatores temporis acti: è semplicemente un tic linguistico. È soltanto uno di quei concetti automatici che si insinuano nella nostra testa, e che – proprio perciò – ci si deve impegnare a evitare, e che dice che «prima si stava meglio». Il modo di dire, però, finisce per far passare un messaggio all’interlocutore, e sono sempre di più (vedete, ci sono cascato anche io?) le persone che passano dal tic incosciente al dire che – davvero – il mondo di oggi sia così peggiore.

Ovviamente non è vero. Il mondo di ora è migliore da mille punti di vista: la mortalità infantile, la fame nel mondo, sono crollate negli ultimi vent’anni. Un buon numero di Paesi che trent’anni fa erano dittature sono ora delle democrazie, magari non perfettissime, ma sempre luoghi dove la libertà è garantita. Di tutte le libertà, quella di cui ci si lamenta sempre: la liberta di stampa nel mondo, anche quella è migliorata – venticinque anni fa ce n’era di meno. Gli omosessuali hanno fatto conquiste (cioè, tutti noi le abbiamo fatte) la cui sola espressione vent’anni fa sarebbe stata inconcepibile. In nessun momento della storia del mondo i lavoratori hanno avuto tanti diritti come oggi. E così via.

Ovviamente questo non è un invito a non combattere per le mille cose per cui si deve combattere, anzi, è la dimostrazione che le cose possono cambiare se ci crede nel darsi da fare. Perché sì, ovviamente c’è ancora un sacco da fare: ma è proprio questa qui l’obiezione più grande all’immobilismo, al nulla può cambiare perché nulla è mai cambiato – le cose sono già cambiate, e in meglio.

Insomma, smettiamola: quelle parole – più, ormai, di questi tempi, – non usiamole… più.

p.s. E vi do uno scoop? Non è mica vero che non ci sono più le mezze stagioni. Uno che ne capiva mi ha spiegato che negli ultimi novant’anni ci sono state più mezze stagioni che nei novant’anni precedenti.

È colpa dei genitori

Famiglia ANSulla homepage del Guardian segue soltanto Obama, come importanza. Ed è una notizia che riguarda l’Italia, e che aveva dato per primo il Corriere per poi essere sepolta da altre notizie molto più irrilevanti. Si tratta della sentenza emessa dal giudice di Milano Bianca la Monica che ha condannato – al pagamento di mezzo milione di euro – i genitori di alcuni ragazzini di cosiddette famiglie-bene che avevano più volte stuprato una ragazzina di 12 anni.

Si tratta di una sentenza che sancisce un principio molto significativo, e che dovrebbe essere l’unica e la sola parte della tragedia nazionalpopolare di Morgan su cui vale la pena di discutere – spogliatici dell’irritante commedia della colpevolezza-verso-la-morale, come solo in un Paese visceralmente cattolico («io mi pento», «se intraprendi un cammino di espiazione» «ti assolviano»).
I genitori sono colpevoli dell’educazione dei proprî figli? Se Morgan dice che l’eroina non fa male e un tredicenne decide di farsi di eroina: è colpa di Morgan? È colpa dei genitori che non sono riusciti a educarlo?Il Tribunale Civile di Milano, mutatis mutandis, dice che è colpa dei genitori. E che, difatti, i genitori di quei ragazzini non hanno trasmesso:

«educazione dei sentimenti e delle emozioni che consente di entrare in relazione non solo corporea con l’altro»; e non hanno badato a che «il processo di crescita» dei loro figli «avvenisse nel segno del rispetto dei sentimenti, dei desideri e del corpo dell’altra/o».

Io penso che, a parte il tono un po’ moralista, il giudice abbia molte ragioni. Penso che essere genitori è innanzitutto una responsabilità. Tantopiù che, mai bisogna trascurarlo, i figli non sono proprietà dei genitori. E perciò educare un bambino cercando di plasmarlo senza per questo determinarlo, renderlo forte ma non chiuso: ovviamente è impossibile essere perfetti, ma bisogna cercare di stare il più lontano possibile dall’estremo opposto.
Perché ci fanno orrore cose come queste. E non ce ne fa per nulla l’indifferenza, l’ignavia, la complicità rispetto al male, di altri genitori?

Forse bisognerebbe instaurare un cortocircuito,  mettere in relazione, tutta la retorica sulla famiglia, sull’insegnare i Valori (con quella stropicciatissima “V” maiuscola), con episodî di questa stregua di cameratismo e violenza.
Pensiamoci, la cosa che viene in mente a me è che, più che insegnare “la famiglia”, bisognerebbe insegnare “alla famiglia”.

P.s. Nessuno di quei genitori era una coppia gay, ve lo immaginate quale rotolo di polemiche infiammate avrebbe attirato un caso così se soltanto uno di quei ragazzini avesse avuto due padri o due madri?

Apologia dell’invidia

Il messaggio di Berlusconi
Il messaggio di Berlusconi

Uno dei cliché più stupidi che ci siano è che la gente ti odi perché è invidiosa. È una spiegazione compiaciuta e da quarta elementare. «Mamma, Martina mi dice che sono brutta» «lo fa perché è invidiosa di come sei bella».
Invece se uno ti odia lo fa per la ragione opposta, e cioè che è tutto il contrario: che non vorrebbe mai essere come te, e che non condivide in nessun modo quello che fai.

Berlusconi l’aveva già detta, una cosa simile, ché fa molto presa sul senso comune. Ma, invece, no: Tartaglia non era invidioso di Berlusconi, tutt’altro. Fosse stato invidioso l’avrebbe idolatrato, e non gli avrebbe tirato una statuetta in bocca.

Io sono convinto che ci siano molti che, veramente, odino Berlusconi – anche in un modo che io non riesco a capire, oltre al limite dei provvedimenti con i quali Berlusconi ostacola la felicità degli altri individui: quell’atteggiamento insinuante – al di là dei casi specifici – per cui non esiste una zona grigia fra ciò che è legale e ciò che è giusto, e che qualunque tentativo riuscito di spostare in avanti ciò che è legale in direzione dell’approfittarne, è testimonianza di furbizia.
Ma a me, della sofferenza personale di Berlusconi non frega nulla. Anzi, ci mancherebbe, mi dispiace.

Quindi sì, l’odio c’è. E sicuramente – come s’è visto – c’è chi è capace di trasformare quest’odio in un fatto violento. Ma che c’entra l’invidia? È molto più probabile che gli invidiosi di Berlusconi siano quelli che lo votano, che sperano che qualche briciola cada anche al popolo, dal ricco tavolo imbandito del sovrano.

L’invidia è un sentimento bellissimo. L’invidia è quella disposizione d’animo per cui, quando vedi qualcuno che fa una cosa meglio di te, vuoi riuscire anche tu a farla bene come lui.
È la spinta di verità per cui Ahlam – che non ci aveva mai pensato prima – vede una ragazza italiana, Angela, che può andare in giro per strada, camminare e parlare con chi vuole senza bisogno di un uomo che la controlli, e pensa: «perché lei può e io no?».
Alla base di tutte le rivendicazioni di libertà c’è invidia, l’invidia – sana – per chi quelle libertà ce l’ha. L’invidia è il principio, in entrambi i sensi, di ogni evasione.

Certo, chiaro, l’invidia può degenerare. Qualcuno può tentare di rubare, per invidia: ma è sbagliato rubare, mica essere invidiosi.
Per questo l’accusa agli invidiosi è, davvero, la cosa più sciocca che ho sentito in questi giorni.

Poi è chiaro che, in questo momento, come ai funerali e nelle grandi tragedie nazional-popolari, vale tutto. Liberi tutti. E ha anche un senso.

Ma a un certo punto mi fermo: perché la retorica la capisco e la sopporto – l’amore vince sempre sull’odio -, le cazzate no.

Bene a farsi

Avevo promesso un racconto della serata a Città di Castello, all’associazione Il Fondino, che aveva invitato me, e le altre persone di cui racconterò a parlare delle nostre iniziative. L’evento – che si chiamava “bene a sapersi” – aveva ospitato delle lectio poco magistralis, e anzi molto presenti e vive, di Ettore Scola e Vincenzo Cerami; per l’occasione aveva cambiato il nome in “bene a farsi”, che già come titolo era – come dire – ben fatto.

Intanto che bravi, i ragazzi che hanno organizzato tutto: non è facile trovare tanta gente così bella, così spigliata, così operosa. E diciamocelo, anche così cazzona. Evviva!

Cosa ho fatto io? Ho raccontato della scemata di Piazza del Popolo, cercando di spiegare perché la trovassi la cosa più naturale del mondo. Poi, introdotta dal mio proposito per l’anno nuovo – che sarebbe quello di fare il “testimone che Geova non c’è”, ovvero andare a casa dei testimoni di Geova la domenica mattina con la Bibbia sottolineata da me e i libri di Russel, Dawkins, Hitchens, Harris per convincerli che Dio non esiste – ho fatto una bella, e sentita, apologia del proselitismo.
Perché quello che voglio fare, di andare dai testimoni di Geova per convertirli, non è mica una vendetta: è il riconoscimento che hanno ragione loro! Che la loro spinta, la loro decisione di voler portare gli altri a fare del bene è altruista. Solo che la risposta è dentro di loro, epperò è sbagliata.

Era stato chiesto, a ciascuno di noi, di esprimere un pensiero a chiosa della nostra esperienza: il mio è stato questo. Tutti mi avevano fatto i complimenti per come avevo saputo ascoltare le persone: ecco, ascoltare le persone è una cosa facile, invece la cosa eccezionale di quella giornata era stata che le persone volevano sentire il mio parere, e volevano darmi il loro. Cioè, in una parola, volevano convincermi della bontà delle loro ragioni, che è la cosa più altruista che c’è.

Ho spiegato che l’idea per cui la propria idea sia degna, e sensata, e fedele, solo se rimane immutabile e inintaccabile dalle opinioni altrui, e che chi cambia idea sia una traditore, è un’idea sciocca e che non contribuisce al progresso dell’umanità. Che cercare di convincere gli altri, e volere che gli altri convincano te, è l’unico dispositivo che abbiamo per progredire, a poco a poco, tutti. E che, se gli altri non avessero cercato – nel tempo – di convincermi delle loro idee, ora sarei una persona molto peggiore di quello che sono.

Insomma ho fatto il saltimbanco, al cospetto e come intermezzo di tante cose più belle e strutturate.
Quello mi riesce bene ogni volta, comunque, e come mi diceva sempre un caro amico: in tutta la corte, il giullare era l’unico che poteva insultare il re.

Siccome ho già scritto troppo, gli altri tre partecipanti, e le loro idee, le racconto in un altro post.
Uno per ciascuna idea, ché se lo meritano!

Marrazzo, la cacca e il culo

Le cose migliori, su Marrazzo, le ha scritte Malvino:

“A me piacciono i trans – avrebbe dovuto dire – e ogni tanto, quando mi va, vado a letto con uno di loro”. Pagandolo? “Non sono contro la prostituzione – avrebbe dovuto dire – e penso che ciascuno sia libero di vendere il proprio corpo, se è maggiorenne e non vi è costretto”.
Ma andare a letto con un trans “Non consento ad alcuno di giudicare i miei gusti sessuali – avrebbe dovuto dire – e tanto meno di criminalizzarli, perché vado a letto con individui maggiorenni e consenzienti. Fatti miei, è il mio privato”.
E allora perché venircelo a raccontare? “Perché non mi ritengo ricattabile – avrebbe dovuto dire – e oggi mi hanno chiesto del denaro in cambio del silenzio su quanto ho qui rivelato”. Piero Marrazzo non l’ha fatto: si è ritenuto ricattabile e ha pagato i suoi ricattatori.

Cosa fa di una persona come Marrazzo un individuo ricattabile? Il fatto che abbia usato l’autoblù per cose private? Il fatto che abbia omesso di denunciare un reato? No. Tutto quello che ne è venuto fuori è incentrato sulla censura – mi vengono i brividi ad associare questa parola a un comportamento sotto le lenzola – morale, per la conduzione di un campione non approvato di vita sessuale.
Intendiamoci, rispetto all’individuo stesso, il fatto che una persona abbia tradito un patto di fedeltà con la moglie è grave – e scontarlo perché “gli uomini sono fatti così” avrebbe il sapore stantìo di quella visione sciupata per cui il sesso ha lo sciocco gusto delle cose proibite, come quando da bambino dicevi cacca o culo sentendoti oscuro e diabolico. Concetto per nulla raro, e di cui è un ottimo esempio, prima fra tutti, la centrifuga berlusconiana.
Ma, importante, esclusivo metro e giudice di questa infrazione può essere solo e singolarmente la moglie: l’unica vittima deliberata di questa defezione.

Questo malinteso senso della gravità delle cose, non mi stanco di dirlo, è colpa di una invertita idea di etica – pressoché appaltata dalle religioni – per cui esistono dei crimini senza una vittima; per cui c’è qualcosa di “immorale” nel fare alcune cose anche se queste non danneggiano gli altri. È l’idea che la misura del bene o del male sia in qualche modo postulata lì in alto, e non risieda nell’infrazione dei diritti o della felicità altrui.

Voglia il Cielo scusarci se proviamo a fare del bene, qui in Terra.

Cos’è la laicità

In alcune discussioni fatte in questo blog, ma anche spesso nella discussione politica – ricordo un improvvido intervento in questo senso, sulla legge francese, del per altri versi molto apprezzabile Andrea Sarubbi – si è fatta strada una malintesa idea di ciò che è la laicità.

Questo brutto frainteso accatasta la laicità sopra all’equidistanza, facendo coincidere quello che spesso è inane vezzo di imparzialità, con ciò che dovrebbe essere il fondamento di ciascuna istituzione che pretenda  legittimità di riconoscimento nel discorso pubblico. Travisando quindi, il significato di “laicità”, nella “neutralità rispetto a diverse posizioni”.

Ma essere laico non vuoldire essere ignavo, non vuoldire neppure non schierarsi. Essere laici significa basare su delle evidenze quello che si sostiene, e pretendere che gli altri facciano lo stesso. Il punto di vista laico è quello che – senza condizionamenti dogmatici: religiosi certo, ma anche aprioristicamente infondati – analizza le evidenze portate dagli uni e dagli altri. Il punto di vista laico è quello che, sull’eventualità che genitori omosessuali causino danni psicologici ai figli, semplicemente studia. Non fa la media di quello che dicono gli uni e gli altri.

Se ci sono due persone che dibattono sulla pericolosità o meno del buttarsi dal settimo piano, il punto di vista “laico” non è quello che sostiene che abbiano ragione entrambi, nessuno dei due o in parti uguali. Se l’Individuo A dice «buttarsi dal settimo piano fa male» e l’Individuo B dice «buttarsi dal settimo piano non fa male», l’unico approccio laico è quello di dare ragione all’Individuo A. Ovviamente fino a prova contraria.

Contro il burka e perciò contro Daniela Santanchè

Ovviamente Daniela Santanché in quanto essere umano è un pretesto.

Oggi Daniela Santanché è andata a fare una piazzata davanti a una moschea, sembra, cercando di togliere di forza il velo alle donne che passavano. È possibile che quando la destra si appropria delle battaglie della sinistra, lo faccia con i modi della destra.

In tutto questo ci sono dentro decine di paradossi: mi domando con quale titolarità una persona che – in campagna elettorale – a qualunque domanda (le case, il welfare, l’occupazione) rispondeva con grida «prima gli ITALIANI!» possa dire di voler difendere quelle donne dalle vessazioni dei loro mariti o fratelli. Prima gli italiani un cazzo, prima le persone che vengono discriminate, che vivano in Mali o in Italia, che siano marocchine o italiane.

Effettivamente io contesto spesso l’ignavia connivente della sinistra su questi temi, il fatto che i progressisti si siano dimenticati del progresso; ma c’è tutta un’area politica che fa dell’equivoco opposto una linea. Se i fascisti vecchio stampo (Movimento sociale, fiamma tricolore, fronte nazionale) sia per antisemitismo che per antiamericanismo, oltre che per una fascinazione per l’ordinamento tradizionale del nazionalismo islamico, conservano il loro menefreghismo (non a caso) per le donne e gli omosessuali nell’Islam, una parte di destra “moderata”, talvolta addirittura la Lega (il partito dell’Egoismo Disgustoso) combatte il multiculturalismo con la stessa arma spuntata.

santanche_statistaPerché l’identitarismo con cui Santanché combatte il multiculturalismo, è il riflesso dello stesso concetto. L’altra faccia della medaglia dell’assunto che ogni cultura ha valore a casa propria, e così noi abbiamo più diritti nel nostro Paese. Lo sciocco argomento con cui Santanchè dice «a casa nostra decidiamo noi» è, implicitamente, l’uguale inveterata domanda multiculturalista «chi sei tu per dire come deve vivere una persona in Arabia Saudita?».

Si tratta, in realtà, del medesimo macroscopico e razzista errore del pensare che i diritti umani, quelli delle donne, e quelli degli omosessuali, siano “concetti occidentali”, anziché patrimonio di tutti, e che – per ragioni che possiamo indagare, ma non certo genetiche – alcuni ci siano arrivati prima di altri.

In fondo quello che interessa a queste persone è avere i burka fuori dallo sguardo, che queste cose si facciano, ma si facciano lontane dal proprio Suolo sacro. Non è un caso che, spesso, si senta dire «se vogliono fare di queste cose alle loro donne, rimandiamoli a casa loro»: già su quel “loro” ci sarebbe da scrivere un’invettiva chilometrica, ma – al di là di quello – la domanda è: e quando sono “a casa loro” che fanno? Tratteranno le donne meglio di quello che avrebbero fatto in Occidente? Casomai il contrario.

Così, Santanchè combatte un comunitarismo terribile e perncicioso con un altro comunitarismo altrettanto – in essenza – conservatore; difende una cultura che ha fatto le proprie conquiste proprio a scapito delle persone che – nel tempo che fu – la pensavano come lei, quelle che difendono la propria cultura in quanto status quo. L’accartocciamento sui proprî-valori per cui i mussulmani che mettono gli omosessuali fuori legge sono barbari, ma – figuriamoci – se gli stessi devono avere il diritto di sposarsi!

Se Santanché può andare in giro in minigonna e supertruccata – e, se a lei piace, fa benissimo a farlo – è perché ci sono state persone che hanno sfidato quelli che – proprio come lei ora – vedevano nella cristallizzazione della propria società in quel momento temporale, il loro fine e il migliore dei mondi possibili.
La Storia, intanto e per fortuna, va avanti.