Contro la famiglia

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Questo è uno di quei post per cui penso di beccarmi dello stravagante, o del bastian contrario a qualunque costo: mi dispiace, perché è quello che penso davvero. E cioè che la cosa più sopravvalutata al mondo (dopo gli U2) è la famiglia.

A Berlusconi, fra ieri e lunedì, è stato revocato l’invito a parlare al forum delle famiglie: la cosa ha fatto particolare scandalo. Allo stesso incontro Sacconi ha detto di voler difendere «i diritti delle famiglie fondate sul matrimonio e votate alla procreazione», rettificando poi parzialmente. Alemanno ha espresso il concetto ben più chiaramente: «se vogliamo aiutare le famiglie, che sono quelle sposate, dobbiamo aumentare le tasse ai single e alle coppie con pochi figli».

Ora, quel forum è fatto di gente che intende la famiglia nella maniera più chiusa e retriva, con i Ruoli con la “r” maiuscola, e la donna a fare la mamma (senza fecondazione assistita, però): insomma, gente che sarà inghiottita dalla storia prima di quanto credano loro, e forse anche prima di quanto creda io. Quindi non servirebbe neanche discutere quelle posizioni lì, e infatti non le discuto: la mia critica va molto più in profondità, e si rivolge all’istituzione della famiglia in quanto simulacro da cui la società trae origine, e che per me è invece fondata su un concetto orribile che è quello dell’affetto incondizionato.

Prima però voglio dire una cosa: non ho un modello alternativo, non sostengo che i bambini dovrebbero essere messi in campi di educazione sovietici, però non penso astrattamente bene della famiglia, penso soltanto che sia il meno peggio che abbiamo – e sì, rivendico forte che i figli non sono proprietà dei genitori, così come trovo scandaloso che genitori ebrei o mussulmani possano vietare a un bambino di mangiare un genere di cibo per qualche loro balzano capriccio, o un testimone di Geova impedisca al figlio di ricevere una trasfusione.

La famiglia è quella che, per prima, opprime moltissimi omosessuali che non riescono a fare coming out: per quasi tutti il terrore principale è la reazione del padre o della madre. La famiglia è quella che, in India, mette al rogo le vedove. La famiglia è quella dove, in Italia, si consuma il più alto numero di violenze sessuali. La famiglia è quella che, in molti paesi mussulmani, ti uccide per lavare l’onore compromesso per aver subito uno stupro. La famiglia è quella che, nella concentrazione del legame esclusivo fra genitori e figli, riproduce (e crea) tutti i difetti della società.

E poi c’è la dimostrazione pratica che quella retorica familiare non funziona: io non sono stato particolarmente fortunato, con la famiglia, e me la sono cavata piuttosto bene. Conosco tante altre persone che hanno avuto famiglie incasinate, assenti, strambe, e molti di questi vivono una vita spensierata e felice, così come ci sono quelli che hanno vissuto in famiglie normali, mamma e papà, tutto regolare e poi le cose son saltate in aria e hanno avuto una vita travagliatissima, alla quale erano impreparati (vale anche il viceversa, naturalmente).

La famiglia si fonda su un concetto santificato, quello dell’amore a qualunque costo, su cui nessuno ragiona mai: la teoria è che si vuole bene alla mamma e al papà qualunque cosa facciano, qualunque persona siano, qualunque orrore abbiano commesso. Hina, la ragazza uccisa dal padre perché vestiva in maniera troppo occidentale, dovrebbe volere bene al padre, se fosse sopravvissuta. Najaf dovrebbe volere bene al padre, che l’ha ridotta così (immagine forte). L’affetto di un mio amico, omosessuale, per la madre dovrebbe rimanere lì – non intaccato – anche se quella lo disprezza per essersi innamorato. Emidio dovrebbe volere il medesimo bene alla mamma e al papà, nonostante questo.

La questione, a parti invertite, è un po’ più complessa: nell’educazione dei figli un genitore conta molto, ed è quindi probabile che, se tuo figlio finisce per essere una persona che vive la sua vita per fare del male al prossimo, tu abbia almeno una parte di responsabilità. Ma, anche in questo caso, c’è un limite oltre il quale il voler bene non deve essere assoluto, e ciascun individuo deve fare con chi gli sta accanto la cosa più altruista al mondo, evitando di autoposizionarsi su di un piano morale superiore: comportarsi con gli altri con lo stesso metro con cui ci si comporterebbe con sé stessi, dare a ciascuno le proprie responsabilità.

Ci sono affetti, invece, che ti valorizzano e ti spronano a essere migliore. Che ci sono perché sei proprio tu, perché sei quella persona lì, e non solo lì per caso. Parlo delle persone che hai scelto, gli amici, la persona che si ha accanto – che è la prima amica –, i maestri che ti hanno insegnato, le persone da cui hai imparato senza che lo sapessero. Nella maggior parte dei casi, invece, nostra madre ci vorrebbe bene anche se fossimo le persone più spregevoli, torturatori di bambini, rovinatori di vite altrui.

In sostanza, la mamma non vuole bene a me, ma al mio ruolo: ci potrebbe essere chiunque al posto mio, Fabrizio Corona o Adolf Hitler, e per il suo affetto sarebbe perfettamente identico. Invece le persone a cui voglio bene, e che me ne vogliono, perché mi hanno scelto, lo fanno perché sono proprio io, perché sono così, perché ho preso determinate scelte che rivendico e non ne ho prese altre che considero deteriori. Se al posto mio ci fosse qualcun altro non gli vorrebbero lo stesso bene, perché vogliono bene a Giovanni, me, come essere umano. E questo è ciò che considero prezioso.

Alcuni di noi hanno la fortuna che queste cose coincidano, che i loro genitori siano stati persone eccezionali, e assieme amici, maestri, consiglieri: beati loro, hanno tante ragioni per essere invidiati. Ma gli altri, per favore, lasciateli in pace.

I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della vita stessa.
Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi,
e non vi appartengono benché viviate insieme.

La lobby di quelli che tengono famiglia

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Ci ho messo tanto per capire che non fosse giusto copiare, a scuola, durante un compito in classe.

Qualche tempo fa il mio amico Franco, che conosce il mio lambiccarmi sulle questioni etiche, mi sottopose questo racconto che aveva trovato nella rubrica di Gramellini:

Una lettrice racconta di aver ricevuto dal padre, in punto di morte, una confessione che l’ha stupita e confusa. L’anziano signore era stato un professore di latino e greco stimato e temuto da tutti per la sua intransigenza. Il classico duro capace di annullare il compito in classe allo studente sorpreso a consultare un foglietto. Ma il giorno degli esami di maturità il «prof» implacabile si trasformava nel più imprevedibile degli alleati. A turno i maturandi uscivano dall’aula per recarsi in bagno. E in un angolo buio del corridoio trovavano lui, che consegnava a ciascuno la versione già tradotta. Ma non la stessa per tutti. Una versione personalizzata e con l’handicap. I meritevoli ricevevano un testo impeccabile. I meno bravi uno sporcato da un paio di errori, che per gli scarsi salivano a quattro e per i pelandroni a cinque: al di sotto della sufficienza. Il professore comunicava a ogni ragazzo il numero di errori presenti, così anche il peggiore avrebbe potuto salvarsi, se fosse stato abbastanza bravo da trovarli.

Alla figlia, prima di morire, il vecchio ha spiegato che negli esami l’emotività gioca brutti scherzi, mentre con il suo metodo venivano riconosciuti i meriti e i demeriti accumulati durante l’anno. In sostanza quell’insegnante integerrimo metteva in piedi ogni estate una truffa con l’intima convinzione di rispettare una regola superiore di moralità. Non riesco a trovare una rappresentazione più efficace dell’essenza italiana. Una parte di me condanna quel professore. Ma dev’essere una parte norvegese o austro-ungarica, non fateci caso.

Mi chiese, Franco, cosa ne pensassi. Gli risposi questo:

Io non sono “un americano”, non valuto il rispetto della legge come un valore inviolabile. Trovo che ci siano leggi giuste e leggi sbagliate, trovo che sia accettabile non sottostare al contratto sociale e decidere di violare una regola, ovviamente assumendosene la responsabilità (è lo stato di diritto). E fin qui è facile. Ma trovo anche legittimo che, ciascuno di noi, possa concedersi rispetto alla propria stessa persona delle piccole libertà che rendano la vita più facile: l’esempio classico è il semaforo rosso. Se sono le quattro di notte, su di una strada che conosco, e vedo che a distanza di km non c’è nessuna macchina che si avvicina, beh io passo anche col rosso. Naturalmente auspico che il vigile che mi becchi mi faccia la multa, perché vorrei che si facesse così di fronte a chiunque altro, e quindi a me. Altrimenti sarebbe troppo pericoloso lasciare a ognuno – magari ubriaco e spericolato – la coscienza di decidere se si può passare con il rosso o no. Diciamo che ci sono casi in cui trovo giusto astrarsi dalla legge della maggioranza, che è l’espressione della legge: un esempio, io non sono un astensionista referendario. Se non mi piace il referendum voto “no”. Tuttavia ci sono limitati casi in cui mi comporterei diversamente: ipotizziamo che sia in gioco il referendum se istitutire la pena di morte in Italia, ecco, io considererei quel tema così importante che non andrei a votare per approfittare del possibile fallimento del quorum, in questo modo violando – con un trucco – la legge della maggioranza. Non so se tu ritieni ragionevole ciò che sto dicendo, di sicuro è molto pericoloso, e me ne rendo conto: per questo non soltanto dico che accetto, ma che auspico la multa del vigile (ovviamente io, dentro la mia macchina cercherò di non farmi beccare).

Quindi come orizzonte etico si potrebbe dire che io potrei essere propenso ad accettare la soluzione del professore. Eppure no. Capisco profondamente la sua buona fede, ma trovo che ciò che noi chiamiamo “merito” è semplicemente un dispositivo che ha trovato la società per crescere. Noi vogliamo che i più bravi ottengano dei posti non perché ci sia un ordine astrale in cui essi debbano essere premiati – in fondo uno meno capace a fare le tabelline è nato meno capace – ma perché dare a chi li fa meglio gli incarichi serve a creare una società migliore, più felice, più funzionante, anche per gli altri. Pensa ai medici, agli ingegneri, ma anche ai cantanti, ai poeti o ai cuochi: è giusto che sia cuoco chi cucina meglio perché farà felice chi sazierà. Che c’entra tutta questa premessa? Ha a che fare con quel lato emotivo – in realtà parla di debolezza emotiva, di lati emotivi ce ne sono diversi, anche quelli che ti fanno andare meglio sotto pressione – di cui parlava il professore: i ragazzi che non sanno esprimere sé stessi sotto pressione, dovranno impararlo, dovranno sforzarsi. Quella non è certamente l’ultima volta che saranno sotto pressione, anzi: molto probabilmente, qualunque ruolo nella società andranno a occupare, si troveranno di fronte a numerosissime altre prove simili. Perciò, e così, questo tipo di debolezza – o l’opposta presenza di spirito – non può non andare a incidere quanto il volume di studio, l’impegno, e il merito (personale) accumulato agli occhi del Prof. Come si dice: gli esami sono esami, ma sono anche esami di vita.

Francesco ha raccontato questa cosa qui, su come funziona il giornalismo in Italia: leggetela.

Naturalmente lo spirito giusto con cui leggerla è senza giustizialismi (e senza cornette sradicate), tenendo conto che il fair-play viene prima di tutto e che dare una mano a qualcuno che ne ha bisogno è cosa altruista – e penso che sarebbe d’accordo anche Francesco, al quale questo post non creerà tanti amici –, il problema è l’istituzione.

In difesa del puttaniere

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In tutto questo bailamme di berluconi, brunette, e bionde bisogna ricordarsi di una cosa, e cioè di quella che dicevamo tutti – spero – quando Berlusconi proclamava solenne la vigorosa stretta sulla prostituzione (e riguardarlo ora dà un po’ di sana euforia), e cioè che l’illegalità della prostituzione è una delle idee più datate e figlie di pregiudizî che l’Occidente abbia saputo creare.

E in Italia, al contrario di molti altri Paesi, non si è fatto alcun passo avanti sulla via dell’affrancamento da questo pensieraccio. L’idea che, in questo Paese, nella locuzione “sfruttamento della prostituzione” quello che fa orrore sia la parola prostituzione dovrebbe, da sola, ricordarci quanto tutti noi siamo dei piccoli Berlusconi – quantomeno nella concezione posticcia e languida del sesso.

È strano? No, non lo è: abbiamo un codice penale che parla di offese all’onore sessuale, nel quale fino al 1996 era compresa una norma sulla corruzione di minori che escludeva la punibilità “se il minore è persona già moralmente corrotta“. Vogliamo liberarcene? Direi proprio di sì. Scrivevo nella mia apologia della prostituzione:

La domanda è: cosa c’è di male nella prostituzione? Non parlo della legalizzazione, quella è suggerita dal buon senso, parlo proprio del concetto. In altre parole del considerare la legalizzazione non una riduzione del danno (come del resto sarebbe), ma un’opzione come le altre.
Ovviamente do per scontato che non sto parlando dello sfruttamento, quello sì nutrito dall’illegalità: sto parlando di persone adulte, libere, coscienti di sé. Sto parlando della prostituzione come atto di capitalismo fra due adulti consenzienti. Una cosa su cui mettere le tasse.

Quindi lasciamo fare a Berlusconi il flick-flock: quello che davanti al Vaticano dice che la prostituzione è brutta brutta, e di fronte ai suoi pubblici vizî solletica l’elettorato più misero dicendo che, in fondo, son meglio le belle donne che essere froci. E guardate che se sostituite il Vaticano con la moglie e l’elettorato con gli amici al bar, lì dentro c’è molta dell’umanità che abbiamo accanto.

Noi, invece, non lo rincorriamo nella solita gara a essere in disaccordo con Berlusconi qualunque cosa dica (ché se domani dice che la Terra è rotonda…). Rimaniamo della stessa idea, che è anche l’unica che poggia sulla ragionevolezza e non sui tabù: che ognuno, del proprio corpo e di ogni cosa sua, può fare quello che vuole – e qualunque cosa non faccia male a qualcun altro.

Qualifiche

Top 3 delle espressioni che, al solo essere pronunciate o scritte, qualificano uno stronzo:

  1. Non fare la verginella
  2. Checca isterica
  3. Tanto fra tre mesi è fuori

Burqa e veline non c’entrano nulla

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Giulia Innocenzi, alla quale mi legano diverse frequentazioni comuni che me ne hanno sempre parlato in termini molto positivi, e perciò – credo – anche una vicinanza su molte cose che pensiamo, ha scritto una sciocchezza: “partiamo dal velinismo prima che dal burqa“. Non solo fa un’equivalenza fasulla, ed efferata, fra due fenomeni la cui gravità è di una sproporzione spaventosa, ma articola l’idea per cui la priorità vada data al principio ragionevolmente meno impellente.

Naturalmente il velinismo, che è perfettamente riassunto nell’atteggiamento da millantatore in punta di cazzo del Presidente del Consiglio, è un fenomeno preoccupante, ma c’è un dato evidente: conosco tante persone che non si (s)vestono come veline. Possono farlo. Nessuno le ammazza, le picchia a sangue, le persegue per legge, le costringe in casa (anzi, semmai succede l’opposto) per essersi vestite troppo. Le donne costrette a portare il burqa – o anche l’hijab – invece non hanno scelta: se non lo fanno vengono uccise, massacrate e rinchiuse, nella migliore delle ipotesi (!) violentate – del resto è proprio questa la ragione per cui il Corano (33;59, 33;55) e numerosi Hadith sostengono che le donne debbono coprirsi: preceisamente per non aizzare il desiderio sessuale dell’uomo, e subire molestie (riecheggia qualcosa questa teoria della donna troppo svestita e quindi responsabile del proprio stupro, eh?).

Ciò, naturalmente, non vuol dire che non ci siano alcune donne che fin da bambine sono state così indottrinate  a considerare il proprio corpo come strumento del Diavolo, come succedeva fino a qualche tempo tempo fa in Italia, da voler mettere il Burqa di volontà propria, né che bisogni toglierglielo per legge. Anzi, io sono contrario al divieto del Burqa come in Francia, come ho detto in altre occasioni sono un “integralista del Primo Emendamento”, trovo la libertà d’espressione insindacabile (naturalmente, diverso è il discorso per una minorenne). Un’osservazione da fare, però, è che chiunque sia a favore dell’obiezione di coscienza come concetto – idea che io, invece, non sopporto – potrebbe trovare buone ragioni per essere a favore della legge: lo Stato francese fa obiezione di coscienza rispetto a una cosa che non ritiene giusta, ovvero il burqa.

Bisogna smettere di gonfiare questo benaltrismo sciocco per cui “noi-non-siamo-meglio-degli-altri”, e quindi ce ne laviamo le mani: intanto noi chi? Altri chi? Io considero giusta e importante dare l’adozione agli omosessuali, non mi sembra che la società in cui vivo – quel noi – sia molto favorevole alla prospettiva. Ma poi: da quando in qua le idee son giuste o sbagliate a seconda di chi le dice? Da quando in qua un’idea giusta, detta da uno che ha altri tipi di magagne, diventa un’idea sbagliata? Allora, se domani il Papa si alza e dice che bisogna eliminare la fame nel mondo, eliminare la fame nel mondo diventa sbagliato?

Noi – io, voi, tutti, ciascuno per sé – dobbiamo cercare di fare sì che gli altri, che sono quelli che ci stanno accanto ma anche quelli che ci saranno, siano meglio di quello che siamo noi. Non cerchiamo di farli assomigliare alla nostra società attuale, se non per le cose che ci piacciono, ma a una società migliore di questa.

Noi, tutti.

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Ecco, quando dico che le lotte per i diritti degli omosessuali – e in parte quelle per i diritti delle donne – sono state fallimentari perché settarie, intendo proprio questo: quell’idea, diffusa fra le minoranze e fra chi subisce i soprusi, che le battaglie siano identitarie, che gli omosessuali vadano difesi dagli omosessuali, che alle manifestazioni contro il maschilismo debbano partecipare principalmente le donne.

È un concetto orribile di politica, perché valuta come unico sprone possibile quello egoista – cancellando, di fatto, l’idea che esista un metro per il giusto e lo sbagliato – facendo assurgere la difesa della categoria a indirizzo etico, e il potere di rappresentanza a diritto al diritto. E ciò è anche più meschino perché sottintende un’idea persino peggiore: che un omosessuale faccia quelle battaglie non perché le ritiene giuste, ma perché omosessuale. In fondo, se fosse eterosessuale, che gli importerebbe?

Anche dai più insospettabili, coloro che – giustamente – avvocano diritti umani per tutti, ho sentito dire: “un uomo non può capire cosa voglia dire essere una donna discriminata” o “un eterosessuale non può capire cosa voglia dire per un omosessuale essere discriminato”. E tutte le volte ho pensato: io, per nessuna ragione al mondo, ho meno voce in capitolo sulle sofferenze di quelle persone. Non c’è nessun motivo per pensare che leggendo notizie come questa, io soffra di meno di chi è omosessuale.

Sono brutture del pensiero, e per di più non funzionano: la ghettizzazione delle minoranze, proprio perché sono minoranza, è quanto di peggio si possa immaginare. Invece, in un paese civile, l’assenza di diritti per alcuni cittadini dovrebbe essere vista da tutti – e da ciascuno – come una privazione in proprio.

Perciò, a commento dell’efferata notizia di cui sopra, volevo mostrarvi questa foto:

È una coppia, un bianco e una nera, che tengono un cartello con scritto «un tempo anche il nostro matrimonio era illegale». Io la trovo commovente, perché vuole dire “noi abbiamo avuto questo diritto, ma non saremo contenti finché non ce l’avranno anche tutti gli altri. Tutti gli altri noi”.

Come faceva la canzone di quel ‘once‘? Sì, quella canzone. Quella che fece da base per tutte le battaglie per i diritti civili dei neri. Ve lo ricordate? Suonava proprio come quella foto, diceva davvero: We shall overcome.

We.
Noi, tutti.

Una lettera al Post

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Ho letto questo post del Post in cui venivano così argomentate le ragioni per non pubblicare la vignetta oggetto dell’articolo:

L’avevamo messa qui, la vignetta, dove ora sono queste righe. Sarebbe stato un servizio ai lettori di questo articolo, e la sua ovvia illustrazione: è pure spiritosa e inoffensiva per chiunque dotato di intelletto. Abbiamo in orrore le persecuzioni fanatiche nei confronti della libertà di opinione. Ma la ragione per cui poi abbiamo deciso di lasciare ai lettori del Post la scelta di andarla a vedere nella sua collocazione originale – e di non fingere che questa fosse una scelta come un’altra – è che, con tutta la diffidenza per gli ignoranti dogmi delle religioni, pensiamo si debba essere rispettosi anche nel confrontarsi con l’ignoranza, quando costa poco. Benché pensiamo che qualunque divinità illuminata non possa che ridere delle vignette a lei dedicate, o fregarsene, non vogliamo offendere nessuno fino a che non ce ne sia bisogno per difendere qualcuno. Quel giorno, fosse anche domani, la homepage del Post ospiterà ben più che una vignetta.

Ho trovato queste ragioni inadeguate, e sono andato a leggere il dibattito apertosi nei commenti sperando di leggerci qualcosa di sensato a sostegno dell’idea che la vignetta andasse pubblicata. Invece gli argomenti di coloro che avevano il mio stesso punto di vista – la bontà della pubblicazione della vignetta – erano del tutto scandalosi. Perciò ho iniziato a scrivere io il commento che avrei voluto leggere lì sotto, ma ne è venuto fuori qualcosa di troppo lungo per un commento. L’ho trasformata in una lettera al Post, e la metto qui:

Caro Post,
sono molto stupito da questa tua opinione sulla vignetta di Zapiro: proprio perché mi sembra così lontana dalla prosecuzione naturale di tanti altri ragionamenti che, invece, condividiamo.

Leggo le accuse di codardìa, e mi rammarico di come sia difficile trovare qualcuno che contesti un’opinione – sbagliata – confutandola, anziché con dietrologie sull’interlocutore. Mi offendo quasi di più perché le persone che condividono la mia opinione riescono a portare come unico argomento la delegittimazione – senza alcuna prova – dell’onestà dell’opinione altrui. Ammesso – e tutt’altro che concesso – che gli argomenti del corsivo siano una pezza per nascondere della paura, a quegli argomenti va data una risposta. Ci provo io.

Credo che tu sappia bene che accettare la dimensione dell’offesa altrui come proprio metro sia un asse scivoloso. Soltanto in questo momento nella tua homepage ci sono diverse cose che potrebbero offendere qualcuno: la parola Dio, che alcuni ebrei religiosi non scrivono. La parola rompicoglioni, che potrebbe andare di traverso a qualcuno all’antica. E poi sono certo che il meraviglioso giorno in cui gli omosessuali si potranno sposare in Italia pubblicherai una foto dei primi due coniugi, magari del loro bacio: e io penso che farai benissimo a farlo! Immagino che a questo potresti rispondere che ognuno deve necessariamente decidere una soglia oltre la quale l’offesa – anche illegittima – di un interlocutore inficia la giustizia di ciò che si ritiene giusto, e credo che in questo caso la declineresti in quel costa poco. Anche questo è opinabile – perché costa poco anche scrivere D-o o rompic*****i, o mettere una foto di un municipio anziché quella di un bacio – ma vorrei provare a convincerti che è la stessa esistenza di quella soglia a essere per lo meno discutibile.

Essere rispettosi nei confrontarsi con l’ignoranza” è ciò di più contrario a ciò che auspichiamo per il mondo, e professiamo per noi stessi come cittadini di esso. La nostra società è, esattamente, fondata sulla mancanza di rispetto per la stupidità e l’ignoranza. Il mondo in cui viviamo deve tutti i suoi progressi a questa forma di intolleranza dolce nei confronti delle cattive idee: c’è una ragione per la quale una persona che dice che la Terra è piatta non può diventare Presidente degli Stati Uniti ed è la stessa ragione per la quale, probabilmente, non assumeresti un redattore che durante un colloquio ti spiegasse di essere in contatto con gli extraterrestri, o per la quale non usciresti a cena con chi sostiene di stimare il Mostro di Firenze.

E questo non succede – per fortuna! – perché ci sia una legge che vieta di pensare che la Terra è piatta o che il Mostro sia un bell’esempio, ma perché la nostra società è arrivata a un livello di consapevolezza tale da ostracizzare i punti di vista che non sono fondati su delle prove. È così per qualunque scoperta sulla medicina, sulla biologia, sulla fisica, ma anche sulla storia o sull’etica: in tutte queste discipline ci sono delle opinioni squalificate dalla mancanza di prove, in nessun convegno di storia sentirete mai qualcuno difendere il proprio punto di vista dicendo “dovreste rispettare la mia idea che l’Olocausto non ci sia mai stato”.

Naturalmente ci sono cose del cui grado di certezza siamo meno sicuri rispetto al fatto che la Terra sia rotonda, alla veridicità dell’Olocausto, o alla sociopaticità del Mostro di Firenze, ma è proprio per questa ragione che sarebbe sbagliato mettere una legge che vieti di pensarlo: potremmo avere torto. Tuttavia la sola maniera per dimostrare la validità di un’idea piuttosto che di un’altra è che nessuna delle due sia schermita da un malinteso rispetto. L’unico modo per poter cambiare idea, è dare la possibilità agli altri di attaccare quell’idea.

Perciò è giusto rispettare le persone, mica le idee. Ed è giusto che chi si sente offeso da un’idea altrui – molto brutalmente – se la prenda in saccoccia. Potrà cercare di convincere l’interlocutore delle proprie buone ragioni, ma non potrà appellarsi soltanto al fatto di essere offeso: perché ciò non vale nulla. Anche io sono offeso da un sacco di cose, da chi dice che Prandelli è un imbroglione, da chi si mette i pantaloni con scritto “Rich” sul sedere, o da chi fa le battute che finiscono con qualcuno che sodomizza qualcun altro. Altri sono offesi dagli applausi ai funerali, dal Grande Fratello o da chi mette il pepe sulla mozzarella di bufala. Eppure queste offese, tutti noi, ce le teniamo. E ci mancherebbe altro. Forse dirai che queste sono cose meno importanti. Intanto è tutto da dimostrare – qualche ultrà della Roma potrebbe ammazzare per un “Totti frocio” – ma poi chi lo stabilisce cos’è importante?

Perciò no: l’offesa non può mai essere nell’occhio di chi guarda. Un mussulmano non può sentirsi offeso perché mia sorella non indossa il Burqa, come un ebreo non può offendersi se mangio il prosciutto, e un cristiano non può considerarsi offeso se io vado a letto con un uomo. O meglio, certo che può: ma non ha nessun diritto di condizionare il mio comportamento. E questo discorso non vale – ovviamente – solo per le religioni, ma per tutti coloro che si sentono offesi per dei comportamenti altrui.

Naturalmente resta ancora molto da discutere: ci si può domandare quali siano le ragioni sufficienti per reclamare la propria offesa (ad esempio: per un “terrone!” è giusto offendersi?). Discutiamone, è quello che stiamo facendo da diversi secoli. Ma mi sembra piuttosto chiaro che “un libro scritto 1400 anni fa lo vieta” non è una ragione sufficiente – anche perché di libri scritti secoli fa ce n’è più d’uno. Tanto più che accettare il metro di chi spinge l’offesa più in là – che sia l’integralista o l’ultrà – vorrebbe dire premiare socialmente i più violenti e i più suscettibili, due atteggiamenti che vorremmo scoraggiare.

Dici, e non credo tu abbia tutti i torti, che c’è una notevole misura d’ignoranza nell’offendersi di fronte a una vignetta spiritosa e inoffensiva come quella, però difendere qualcuno dalla propria ignoranza è un atteggiamento molto condiscendente e – secondo me – neanche così altruista: bisogna sempre cercare di trattare gli altri esseri umani come fini, per quanto si può.

Apprezzo molto che tu abbia deciso di non fingere che questa fosse una scelta come un’altra. Io penso che avresti dovuto pubblicare la vignetta proprio così, scrivendoci accanto che non era una scelta come un’altra, e magari spiegandolo. Chessò, qualcosa così: “Cari lettori, ci dispiace che qualcuno si possa offendere per questa vignetta. E ci dispiace davvero. Però noi pensiamo che – con tutti gli strumenti di riflessione – non ci sia ragione per la quale questa vignetta possa risultare offensiva. Non ci mettiamo su di un piano morale superiore, perciò trattiamo voi lettori come vorremmo essere trattati: e noi vorremmo che c’insegnaste ciò ch’è giusto”.

David Cameron sarebbe un genocida?

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In questo momento il nuovo Primo Ministro britannico, David Cameron, starà scrivendo – di proprio pugno – quattro lettere dal contenuto particolare, e assolutamente top secret. In queste missive ci sarà scritto qualcosa come “nel caso il Regno Unito sia distrutto da un attacco nucleare, esplodete le vostre testate e radete al suolo il nostro nemico” Firmato: David Cameron.

Proprio così: ogni primo ministro che prende ufficio in Gran Bretagna diventa il responsabile ultimo dell’uso dell’arsenale nucleare – il Programma Trident – e ha l’ultima parola in caso di qualunque tipo di attacco da dover effettuare. È, però, lo stesso Primo Ministro ad avere questo incarico, anche quando sia morto, ed è per questo che Cameron dovrà scrivere le sue ultime volontà indirizzate ai quattro comandanti dei sottomarini nucleari britannici nel caso che un attacco nucleare faccia fuori anche lui.

In ciascuno di questi sottomarini – poi – c’è una sicura, e all’interno di quella sicura c’è un’altra sicura, e all’interno di questa sicura c’è la lettera del Primo Ministro da aprire solo nel caso che il governo sia stato spazzato via da un attacco nucleare. Oramai è tutto perduto, il Regno Unito non esiste più, vendicarsi o non vendicarsi? Causare la morte di milioni di persone inutilmente, oppure rinunciare completamente all’uso di quelle testate perché oramai la Madre Patria è stata cancellata?

Per la stessa ragione, appena dopo, bruceranno le lettere con gli ordini di Brown: al termine dell’incarico di ciascun inquilino di Downing Street, quello strano testamento viene distrutto. Così non sapremo mai neanche quali siano stati gli ordini di Blair, Major o Tatcher, sebbene nessuno di questi sembri particolarmente disponibile alla conciliazione con una forza nucleare nemica che ha appena ucciso 60 milioni di concittadini, scrivente compreso. Si dice che proprio John Major considerasse la scrittura di queste lettere un compito così importante, da riservarsi un intero week-end per dare inchiostro ai proprî pensieri.

Di speculazioni sul contenuto delle lettere ce ne sono molte: gli storici ipotizzano che durante la guerra fredda contenessero i seguenti quattro ordini:

  1. Mettetevi agli ordini degli Stati Uniti d’America, se ancora esistono.
  2. Andate in Australia, se c’è ancora.
  3. Lanciate i vostri missili per distruggere il nemico contro il quale siamo in guerra.
  4. E, in ultima istanza, usate il vostro giudizio personale.

Come tutte le questioni di fantapolitica, le procedure in caso di attacco nucleare appassionano sempre se le si affronta in maniera solamente speculativa, senza focalizzarsi sull’oggetto concreto della propria speculazione: come nel caso del Designated Survivor, il membro del governo USA che viene portato in una località segreta a ogni evento a cui sia presente tutto il governo – compresi Presidente e Vice-Presidente – per garantire la linea di successione presidenziale in caso di evento catastrofico che faccia fuori tutti gli altri membri.

Ma qui c’è di più della speculazione e l’amore per il nozionismo: c’è una questione filosofica – o quantomeno di filosofia politica – molto interessante che ricorda la Teoria del Pazzo di Nixon. L’utilità dichiarata del possedere un arsenale nucleare è quella della deterrenza, ma se  un attacco c’è già stato la deterrenza – semplicemente – non può più esistere. Mettiamoci nei panni del comandante di uno si questi sottomarini: il proprio Paese è stato annientato, compreso tutto il governo e tutta la sua famiglia, non c’è più nessuno a cui fare riferimento, lanciare l’attacco sarebbe del tutto inutile, nonostante questo voglia dire che il genocidio di 60 milioni di persone – o più – rimarrebbe impunito. Si può parlare di senso di giustizia, in questa direzione? No di certo.

E quindi noi vogliamo sperare che nelle lettere che si sono avvicendate, scritte dai varî primi ministri non ci fosse mai scritto “vendicatevi!”. Eppure, quando pensiamo al nemico che potrebbe distruggerci con le sue testate nucleari, e che non lo fa per paura della vendetta, beh, pensiamo sia meglio che il nemico creda che – in realtà – il nostro Paese sia disposto a usarle. Altrimenti a cosa servirebbe il concetto stesso di deterrenza?

Così c’è questa contraddizione, forse solo apparente, in cui noi vogliamo sperare – per noi – che chi ci guida non voglia essere responsabile di un genocidio, ma vogliamo che gli altri immaginino, eccome, che questi sarebbe pienamente in grado di esserlo.

Roscio Malpelo

interesse 3 su 5

Immaginate una società – non così lontana da noi, come dimostra Giovanni Verga – in cui le persone con i capelli rossi (rosci, a Roma) siano considerate maligne, in qualche modo diaboliche e contrarie al naturale corso della specie che ci vuole tutti castani, neri – o al massimo biondi. Pensate che queste persone, considerate un virus per la società, siano perseguitate dalla società, torturate, uccise.

Immaginate che a causa di queste persecuzioni i rosci comincino a nascondersi, e per sfuggirvi tentino di occultare il vero colore dei proprî capelli nelle maniere più disparate, tingendosi, rapandosi a zero, usando una parrucca: tanto che alcuni finiscano per convincersi di essere nati con i capelli neri.

Immaginate che, dopo diversi anni, si affermi un movimento di rosci e non, che rivendichi gli stessi diritti anche per i rosci rispetto a tutte le altre capigliature: a chi ha i capelli rossi vengono ancora negati alcuni diritti fra i più elementari, come quello di sposarsi o avere dei bambini – lo so, lo so, che ora avete capito, ma seguitemi – e che le persone comuni, per fare un esempio, siano spaventate all’idea che nasca loro un figlio roscio: sarebbe una sciagura!

Immaginate, ora, che piano piano i pregiudizî nei confronti dei rosci si vadano erodendo anche grazie alla scoperta di alcune figure simboliche che riconoscano di essere rosce, si tolgano la parrucca, e comincino a dimostrare che – per tutti gli altri – il loro colore di capelli non cambia niente. Pensate a quanto è potente, per le persone comuni, il rendersi conto che quella persona, roscia, è la stessa che prima stimavano.

Cosa pensereste se una di queste persone in vista, coi capelli rossi, volesse continuare a tenere in testa la sua parrucca marrone? Non pensereste che, in una piccola misura, sbaglia perché asseconda il pregiudizio altrui? Non pensereste che, in qualche modo, la sua neutralità, il suo non volere permettere che questa battaglia passi fin dentro alle sue fibre, siano un piccolo danno per la causa di tutti quelli che hanno i capelli rossi?

Per questo ha ragione Ivan, e ha ragione Sullivan. Certo che Kagan ha diritto alla propria riservatezza, ma l’etica è esattamente rinunciare a qualcosa che ci spetta, per aiutare qualcun altro. È un comportamento etico rinunciare a un week-end al mare per dare quei soldi in beneficenza, è etico assistere un anziano che sta attraversando la strada anche se ci fa perdere del tempo. Per quanto in entrambi i casi sia perfettamente legittimo fare il contrario.

Certo, nessuno sta parlando di puntarle un coltello alla gola per farla confessare: ognuno è padrone delle proprie decisioni. Ma gli altri sono padroni delle proprie opinioni su quelle decisioni, ed è legittimo e auspicabile sperare in una decisione – più giusta – rispetto a un’altra. E si può pensare che, se decidesse di non essere prigioniera dei pregiudizî altrui, sarebbe una persona migliore.

Giustizia e libertà

Interesse 3 su 5

Generalmente sono più antiberlusconiano, se così si può dire, delle persone con cui vado d’accordo – di solito – su altri temi. Ultimamente – per fare un esempio – mi ha colpito una cosa: a me le idee politiche di Vianello, nella valutazione dell’uomo, interessavano.

È chiaro, nessun individuo dotato di buon senso può ammirare l’operato di Berlusconi come Presidente del Consiglio, ma la malsopportazione che ho io va oltre la categoria politica: risiede in quell’elaborato dell’italianità peggiore che Berlusconi è, e rappresenta, con il suo atteggiamento verso le donne; la sua pretesa d’essere invidiato per degli atteggiamenti che in qualunque occhio critico generano soltanto desolazione. L’autocompiacimento di quello che – in un post quasi liberatorio – avevo definito un millantatore in punta di cazzo mi genera una ben poco ragionata rabbia: non sono in disaccordo, mi fa proprio imbestialire.

C’è, però, una cosa che mi ha sempre allontanato dalle più folte schiere degli oppositori monocratici di Berlusconi, un sinuoso atteggiamento di fondo che arrivo a presagire dalle prime frasi lette o ascoltate. Si tratta del furore punitivo, della gioia per interposta incarcerazione, dell’odio metodico, che molte persone – oserei dire “insospettabili” – hanno maturato. È come se un cruccio livido si fosse riuscito a insinuare in persone onestamente di sinistra – come un riflesso sciocco all’autoconcessa improcessabilità di Berlusconi – e questo rivoltamento avesse trovato una misura precisa, e neanche troppo nascosta, di disprezzo nei confronti dei detenuti, di presunzione di colpevolezza e coazione alla punizione che, ho paura, sarà davvero il peggior lascito di questi vent’anni di scena politica di Berlusconi.

Ricordo il mio costernato stupore, in una discussione che ebbi tanto tempo fa, sull’indulto: una mia interlocutrice, indiscutibilmente attenta alle cause dei più deboli del mondo, che affermava – con queste parole – di preferire 67 persone in carcere, fra cui Previti, al costo della violazione dello Stato di Diritto di 14.000 individui. Penso che quasi tutti i peggiori vizî della sinistra attuale vengano a cascata da lì: la violenza punitiva, l’atteggiamento inquisitorio, la professionale e clinica mancanza di fiducia. Quella compulsione al trovare un lato oscuro anche quando non c’è – e quindi anche al complottismo – che, da che mondo e mondo, era tutto ciò che non apparteneva al progressismo (tutte cose che, in realtà, aveva immortalato Staino in una splendida vignetta qualche anno fa).

Ci ho ripensato ieri, quando ho ascoltato questa intensa storia. È una puntata di una trasmissione – This American Life – che mi ha consigliato Max, e che è sempre fatta molto bene. Questo qui è un racconto bellissimo di un ragazzo – non più ragazzo – che ha ucciso un uomo durante una rapina. Da quel momento ha fatto 27 anni di carcere e comportamento esemplare: si è laureato, è diventato assistente carcerario per le questioni di droga, non ha mai fumato una sigaretta dove non si può. La sua voce, quello che dice, infonde di umanità tutto il contorno: è assolutamente ovvio che non abbia alcun senso ch’egli sia, ancora, privato della libertà.

La trasmissione – purtroppo – è in inglese, ma è un inglese piuttosto scandito. Ho tagliato il file in modo che ci fosse solo questa storia, cosicché sia più facile ascoltarla seguendo il filo conduttore del racconto: il file è qui, potete scaricarvela sull’ipod e ascoltarla in metropolitana, oppure basta premere “Play” in fondo al post.

Se non vi commuovete, se non sperate ardentemente per tutto il tempo che questa persona sia liberata – perché la giustizia! – se non vivete la sofferenza di quest’uomo, e non la percepite nella stessa metà del cielo – e non come contraltare – a quella della povera persona che ha ucciso, beh, penso che – uscito di scena quel Silvio Berlusconi – dovrete fare una lunga dieta.

This American Life

P.s. La prigione di cui si parla nel racconto è San Quentin.