Arrigoni e i buoni

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Vittorio Arrigoni è stato rapito a Gaza da un gruppo salafita che lo accusa di corrompere – con i suoi “vizî occidentali” – la gioventù mussulmana. In un’incredibile gara a essere il più puro – e c’è sempre uno più puro che ti epura, diceva Nenni – anche Hamas è sul banco degli imputati per eccessivo filo-occidentalismo.

In questa faccenda spaventosa, il video di Arrigoni insanguinato è agghiacciante, c’è una cosa che non si potrà dire di Arrigoni – come invece si disse delle “due Simone” o di Mastrogiacomo – è che “se la sia cercata”. Anzi, quello che è successo dovrebbe zittire una volta per tutte coloro che usano questa espressione orribile.

Arrigoni è sempre stato la voce più pregiudizialmente contraria a Israele, di predilezione dei palestinesi a senso unico. Conobbi il suo blog e le cose che scriveva nel dicembre del 2008, quando Israele attaccò Gaza: io ero a Betlemme, ben lontano dai bombardamenti, ma raccontavo un po’ le reazioni dei palestinesi a quelle vicende. Più d’una volta, nei miei mesi lì in cui tentavo di mantenere l’equilibrio, qualche lettore mi scriveva per dirmi che “non ero come Arrigoni”. Intendeva dire che criticavo gli israeliani, ma anche i palestinesi quando c’era bisogno. Arrigoni, insomma, doveva essere l’ultimo nella lista di questi farabutti.

E invece no.  Perché quella gente lì – gli islamisti – ci odia per quello che siamo, non per quello che facciamo.

È per questo che tutti, anche coloro che non condividevano una sola parola di quelle che Arrigoni scriveva, hanno il dovere di sperare che questa situazione si risolva per il meglio, come se nelle mani dei rapitori ci fosse la persona di cui più condividono ogni idea. Perché queste canaglie ce l’hanno ricordato: noi siamo i buoni.

Juliano Mer Khamis

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Prima di andare a lavorare in Palestina, avevo preso contatti con il Freedom Theatre, un’associazione di Jenin fondata da Juliano Mer Khamis che si occupa di costruire un futuro – attraverso il teatro, l’arte, i giochi – ai bambini palestinesi, in particolare quelli del campo profughi di Jenin. Avevo programmato di passare tre mesi a Betlemme, con Amal, e tre mesi a Jenin al Freedom Theatre, che aveva sempre bisogno di volontarî (a proposito, per chi avesse voglia di un esperienza del genere: anche se forse, ora, non è il miglior momento per contattarli). Poi mi ero trovato molto bene con Amal, mi ero affezionato al loro progetto, e avevo deciso di rimanere lì. Ero comunque andato a Jenin a vedere le loro attività.

Mer Khamis era palestinese ed ebreo – 100% palestinese e 100% ebreo, diceva lui –, figlio di madre ebrea e padre palestinese. Già prima di fondare un’attività simile era intrinsecamente una sfida al settarismo di quel conflitto. Aveva più volte espresso opinioni estremamente critiche nei confronti d’Israele e in Israele aveva fatto il servizio militare (una volta voglio scrivere un post su come, per i palestinesi, la scelta di non avvalersi del diritto – che hanno gli arabi – all’esenzione dal servizio militare sarebbe una forma di resistenza eccezionale). Per questo era visto male dalla destra israeliana e visto malissimo dagli islamisti palestinesi, che lo avevano più volte minacciato.

Lunedì l’hanno ammazzato. È stato un ex militante delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa che ultimamente si era avvicinato ad Hamas, e che aveva passato cinque anni in carcere per aver armato varî gruppi islamisti. Al-Aqsa e Hamas si palleggiano la responsabilità cercando di derubricare l’assassinio a crimine comune. Non mi viene altro commento che la frase di Golda Meir che «la pace arriverà quando loro ameranno i proprî figli più di quanto odiano noi». Juliano Mer Khamis era entrambi, loro e noi.

EDIT – Il commento appena ricevuto in mail di uno che in Israele ha vissuto e poi è andato via: “Su Juliano Mer-Khamis cosa dire? Che non fa altro che sottolineare quanto sia difficile vivere (nel senso proprio della parola) fuori dagli schemi in Medioriente.”

Chi ha sulla coscienza questi morti?

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Non c’è niente di cui vergognarsi nell’avere paura. Spesso è la reazione più ragionevole che si possa avere, specie se si conoscono le conseguenze di quello che si può fare. Ma evito di scrivere “causare” non a caso. C’è una differenza fra responsabilità e colpa, come c’è fra essere ignorante e bruciare della carta ed esserlo e ammazzare delle persona.

Il reverendo Jones, quello scemo scemo che voleva bruciare il Corano, l’ha fatto qualche giorno fa. Al contrario di quanto accaduto a settembre, la cosa ha avuto pochissima pubblicità e qui se n’è parlato poco. In Afghanistan, per questo, hanno ucciso 29 persone, fra cui otto funzionarî ONU. Perciò Jones ha certamente fatto male – avrebbe dovuto avere paura, per quelle persone lì –, ma non ha causato un bel nulla.

Coloro che giustificano, anche parzialmente, le azioni degli invasati assassini a seguito della provocazione di Jones, stanno autorizzando l’ONU – per rispondere alla “provocazione” – a sterminare l’intera Kandahar. O, peggio, autorizzando il proprio stesso omicidio se qualcuno trovasse offensive le loro opinioni.

C’è una bella differenza fra essere scemo-scemo ed essere scemo-omicida. Ed è quella che chiunque sappia cos’è una dittatura conosce: uno Stato che ti punisce per le tue idee, sceme che siano, È una dittatura. Uno Stato che NON ti punisce per l’omicidio indiscriminato È una dittatura. La differenza fra il dovere dell’azione penale e il dovere della mancata azione penale.

Al tempo della prima pubblicità alla cosa, scrissi un post in tre punti in cui spiegavo perché – per quanto Jones fosse un cretino – la nozione stessa del mandante per provocazione era fasulla e pericolosa. Lo ricopio qui aggiungendoci un quarto punto preso da quello che scrisse Max nei commenti.

1) C’è rogo e rogo
È incredibile il doppio standard per cui l’esaltato pastore che vorrebbe bruciare delle copie del Corano sarebbe responsabile delle manifestazioni violente  – con dei morti – che si stanno verificando in gran parte del mondo islamico, mentre gli scalmanati manifestanti sarebbero completamente destituiti della responsabilità delle reazioni alle proprie azioni – sapete quante bandiere americane si stanno bruciando, in quelle manifestazioni? Per la stessa ragione, gli Stati Uniti dovrebbero essere legittimati a radere al suolo tutti i Paesi mussulmani.

2) L’offesa nell’occhio di chi guarda
Da quando in qua abbiamo deciso di usare il metro altrui, quello dei più sociopatici e scalmanati, e non la realtà dei fatti come criterio? Da quando in qua abbiamo deciso che bruciare un pezzo di carta con delle frasi di dubbio gusto scritte in arabo è l’offesa definitiva, perché qualcuno crede che quel libro conti più della carta su cui è scritto? Da quando abbiamo deciso di guardare la realtà attraverso la lente diffratta di chi ha un metro allucinato e fasullo? Da quando abbiamo deciso che la donna che va in giro in minigonna è colpevole del proprio stupro perché il suo abbigliamento offende, e aizza, lo stupratore? E da quando abbiamo deciso che un testimone di Geova può lasciare morire il figlio perché fargli una trasfusione di sangue lo offenderebbe? E perché, allora, non decidiamo che è sbagliato criticare il papa, visto che moltissimi cattolici si offendono delle nostre parole.

La libertà è un diritto inviolabile, anche di fare delle sciocchezze se queste non rechino – davvero, non nella testa dei fanatici – un danno al prossimo. Come diceva Orwell, if liberty means anything at all, it means the right to tell people what they do not want to hear. Se “libertà” vuol dire qualcosa, vuol dire avere il diritto di dire alle persone quello che queste non vogliono ascoltare.

3) La legge di Cavazza
(scrive Max)
Pensandoci bene, c’è un valore nelle azioni dei vari Jones piromani. Lui non lo sa, in quanto è probabilmente mosso più dallo spirito dei roghi dei libri del Nazismo, uno spirito inaccettabile in principio. Ma in effetti sta contribuendo a un lento processo di desensitizzazione psicologica di un miliardo e mezzo di musulmani traumatizzati da un libro. Un po’ come un vaccino, o meglio, una terapia di gruppo.

I cattolici lo san bene, ci sono gia passati e ci son voluti 200 anni perché se ne facessero una ragione (anche se l’Italia rimane una delle poche democrazie liberali con il vilipendio della religione nel codice penale e diversi processi in atto, sic!). I destrorsi americani – pure – ci sono passati con la desacralizzazione della bandiera, che continuano a riproporre di vietare per legge, senza successo.

4) Paura e rispetto
Infine, la citazione del giorno:

I may refrain from insulting you. I may refrain from publishing a cartoon of your prophet. But it’s because I fear you. Don’t think for one minute that it’s because I respect you. (Richard Dawkins)

È possibile che mi astenga dal fare ciò che consideri un insulto. È possibile che mi astenga dal pubblicare una vignetta del tuo profeta. Ma è perché ho paura di te. Non pensare, neanche solo per un momento, che sia perché ti rispetto.

Non siamo diventati tutti caschi blu olandesi

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Una domanda brutale: quanti ne possiamo uccidere, controvoglia, per salvarne quanti? E’ una domanda cui non saprei rispondere. Perché come molti, sono stato pigro, davanti alla Libia. Ho pensato, prima, all’inizio, che per una qualche benedizione seriale, potesse finire come in Tunisia e in Egitto. Poi ho pensato che ineluttabilmente sarebbe finita in altro modo, con la vittoria scontata e feroce di Gheddafi, che lasciava anche alle anime brutte il conforto di una meditazione sul cinismo dell’occidente, e sul destino infame dei ribelli. Invece no, non c’è stata un’altra Srebrenica, non siamo diventati tutti caschi blu olandesi.

Frutto di farabutti

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È esplosa una bomba a Gerusalemme, fra l’altro in un posto dove passavo spesso quand’ero lì. Il titolo di Repubblica “frutto della tensione a Gaza” è riprovevole. Tratta i palestinesi – tutti, fra l’altro, senza distinzione – come una colonia batterica, senza una responsabilità personale.

Non tutti gli attentati sono uguali, per quanto emotivamente ci verrebbe da pensarlo. E questo qui è fra quelli più disgustosi, che non hanno nessuna giustificazione – altro che figlio della tensione a Gaza. È fra i peggiori per l’obiettivo che ha – massacrare il maggior numero di esseri umani – che qualifica chi l’ha fatto, chi l’ha pianificato, e anche chi lo giustifica, come un farabutto. È la differenza fra l’adottare una strategia sanguinosa e controversa, e fare di quel sangue il proprio fine ultimo.

Qualche giorno fa ho fatto un post in cui commentavo la reazione del governo israeliano all’accoltellamento di una famiglia di coloni: quello che segue doveva essere un corollario a quelle considerazioni. In quello scritto criticavo le politiche d’Israele, ma gli riconoscevo questo: niente di tutte le, anche sanguinose, iniziative che Israele prende ha questa faccia. Quella del festeggiare le morti innocenti anziché piangerle.

È proprio per questo, però, che dobbiamo riconoscere che non tutti gli attentati sono uguali, come invece mi sembra di leggere in tutti gli articoli che ora citano il precedente di Itamar. Accoltellare una famiglia di coloni è un atto violento, sanguinoso, ma non è la stessa cosa di un attentato a una fermata dell’autobus affollata di vecchini che vanno al supermercato e bambini che vanno a scuola. Certo, l’attentato di Itamar includeva l’uccisione di due bambini, e le colpe dei genitori – quelle persone non sono innocenti – non devono ricadere su quelle dei figli. Ma proviamo un momento a non considerare questo fatto.

È sempre così difficile, così scivoloso, provare ad analizzare tutte le sfumature di una questione, e fare anche le distinzioni più piccole: ma bisogna provare a farlo. Come disse qualcuno, il problema del conflitto arabo-israeliano è che comprende troppa storia e troppa poca geografia. E, perciò, ogni pezzo di terra costruito dai coloni è un pezzo di terra in meno per i palestinesi. Ogni persona che ne fa un baluardo, è un ostacolo – un nemico – di uno Stato palestinese, e della pace. Il fatto che dei coloni vivano a Itamar – un insediamento nel cuore della Palestina, lontano chilometri e chilometri dal confine Israeliano – è una dichiarazione di guerra. Possiamo girarci attorno in mille modi, ma non c’è altro modo per chiamarla. Non ha la violenza di un accoltellamento, ma è un comportamento possibile solo ed esclusivamente grazie ai mitra e alla forza bruta di decine e decine di soldati che stazionano intorno a quella colonia.

Per un palestinese, l’unica alternativa all’impugnare un coltello è la più inane non-violenza, senza alcuna speranza di cambiamento. E non lo dico nel senso di quella detrazione di responsabilità che anima l’infelice titolo di Repubblica, ma esattamente al contrario: la responsabilità ce l’ha quel colono, e ce l’ha la persona che decide di usargli contro la violenza. Niente di tutto ciò è inevitabile, è il risultato di specifiche scelte, che vanno considerate come tali. Esiste una posizione perfettamente speculare al pacifista senza-se-e-senza-ma che garrisce l’immagine del Che mentre lustra il proprio fucile, ed è quella di chi pacifista non è ma esige che lo siano coloro che non gli stanno simpatici.

Ho messo tante premesse e tanti incisi in questo discorso, magari mi date dei buoni argomenti per cambiare idea: ne sarei contento. Per ora, non sono lontano dal pensare quello che diversi israeliani – anche fra i più pacifici che ho incontrato – mi hanno detto: «quei pazzi di Hebron? Se li ammazzano se la sono cercata». Per ora quello che penso è che bisogna riconoscere che c’è una differenza fra fiori e molotov (l’immagine è di Banksy, ed è su un muro a una manciata di chilometri dal luogo dell’attentato di oggi); ma ce n’è una anche fra chi li riceve, quei fiori o quella molotov.

E penso che solo tenendo a mente queste cose si può – davvero, e nel modo più pieno – avere rabbia e spregio per l’effigie del Male che è la bomba – messa lì per colpire tutti, per colpirne il più possibile – che è esplosa oggi sullo Sderot Shazar.

Cinque stupidaggini sulla Libia

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Ci sono buoni e cattivi argomenti per essere a favore di questo intervento, e ci sono buoni e cattivi argomenti per essere contro a questo intervento. Io penso che i buoni argomenti a favore siano enormemente di più dei buoni argomenti contro, ma penso anche che discutere di queste cose sia un gran bene: proprio perché cerco di scegliere con cura le mie idee, sono contento che queste siano messe in discussione ed – eventualmente – migliorate.

Per fare questo, però, c’è bisogno di accordarsi su un comune denominatore di convivenza: ovvero escludere le stupidaggini. Intendo gli argomenti sciocchi, quelli che non hanno nulla a che vedere con la discussione. Il chiasso. E, qui, mi sembra che ci sia un enorme squilibrio fra il chiasso a favore e il chiasso contro. Chiunque dicesse “è giusto intervenire per prendere il petrolio ai libici” o “dobbiamo ammazzare più libici possibile” verrebbe immediatamente – e, dico io, giustamente – escluso dalla discussione fino a quando non porti argomenti migliori.

La stessa cosa non succede, invece, quando vengono tirati fuori argomenti equivalentemente stupidi o egoisti da chi è contrario a questo intervento. Si inseguono le traiettorie schizzate e i binarî morti di argomenti che nulla hanno a che vedere con la tutela della vita dei libici che – ricordiamolo sempre – è l’unico metro attraverso il quale bisogna valutare la bontà di quest’azione. Per dire: se, il Cielo non voglia, questo intervento dovesse comportare una strage di civili inermi enormemente maggiore di quella che aveva e avrebbe fatto Gheddafi, coloro che sostengono l’intervento avrebbero torto – io, ad esempio, dovrei ricredermi.

Mi sembra, invece, che quelli che portano avanti questi argomenti – slogan che replicano sé stessi – non potrebbero cambiare idea, qualunque cosa accada. E, quindi, se non si stabilisce questo principio minimo di condivisione delle idee, è inutile discutere. Io suggerisco di farla sempre quella domanda: c’è qualcosa che ti potrebbe far cambiare idea? No? Allora questa non è una discussione. Però penso anche che ci siano tante persone, probabilmente la maggioranza, che hanno sottoscritto idee buttate nella mischia da altri sulla scorta dell’emotività o della confusione; ma che, ragionandoci un attimo su, non stanno in piedi.

Perciò, gli unici dubbî sui quali ha senso riflettere sono quelli che pensano alle conseguenze lì in Libia, naturalmente anche sul lungo termine, alcuni sono qui. Questi, invece, sono gli argomenti che sento più spesso, e su cui NON vale la pena discutere:

1)  Lo fanno per interesse/per il petrolio

Prima di tutto, bisogna mettersi d’accordo con sé stessi: fino a tre giorni fa i potenti del mondo dimostravano la loro malafede ignorando la Libia, ora dimostrano la stessa malafede decidendo di intervenire. Questa è, piuttosto, una profezia che si autoavvera. Come ha scritto Giovanna: “Perché l’Occidente non interviene in Libia? Perché ha troppi interessi economici, ovvio! Perché l’Occidente interviene in Libia? Perché ha troppi interessi economici, ovvio!”.

La cosa più ragionevole da pensare, invece, è che per Cameron, Sarkozy e Obama questa sia una bella gatta da pelare, e che fino a che hanno potuto hanno cercato – questo sì, cinicamente – di non imbarcarcisi. Poi, costretti dagli eventi hanno deciso di intervenire: vogliamo dire che non l’hanno fatto di propria coscienza, ma per assecondare l’elettorato che vedeva le immagini dei massacri? Diciamo che, in genere, mi fiderei più della coscienza di Obama che di quella di Putin (o Medvedev), ma fate voi, non mi importa: qui non si valuta il nostro giudizio su Obama o Putin, qui si valuta il nostro giudizio su questo intervento.

Difatti, molto più sinteticamente, la risposta a: «lo fanno per il petrolio» dovrebbe essere: “embè?”. Dovrebbe essere: “a me interessa sapere delle sorti della gente in Libia”. Chiunque abbia più in odio gli interessi di Obama o Sarkozy rispetto a quanto tenga alle sorti di centinaia di migliaia di persone in Libia, e da questo deduca che i supposti interessi dell’Occidente risolvano la questione, può portare il proprio cinismo livoroso da un’altra parte. Chi riuscirebbe a passare su migliaia di cadaveri per fare un danno ai proprî nemici non merita la nostra attenzione.

2) Fino a ieri eravamo alleati di Gheddafi
Se l’ovvia risposta all’obiezione precedente è: «embè? (quello che mi importa è la vita dei libici)», la risposta a questa è: «appunto! (quello che mi importa è la vita dei libici)». Era profondamente sbagliato fare gli amiconi con Gheddafi, era sbagliato in via di principio – perché si legittimava un dittatore sanguinario – e in pratica – perché quegli accordi erano pagati sulla pelle dei libici annegati nel Mediterraneo.

Però fare due volte lo stesso errore è peggio che farlo una volta sola. Da quando in qua perseverare nel male è meglio che smettere? E poi non possiamo mica fare lo slalom opposto: se prima Berlusconi aveva torto, e ce l’aveva, perché difendeva un assassino tiranno, non si può mica fare tutto il giro e dire che no, in fondo, non era poi così male. Ricordiamocelo: qui non è in ballo la nostra opinione su Berlusconi che, immagino, non cambierà di molto, è in ballo la vita di quelle persone. Discutiamo solo di quello.

C’è un povero ragazzo (i libici) che viene picchiato a sangue da un teppista (Gheddafi, con la connivenza di Berlusconi), e noi cerchiamo di farlo smettere. Quando poi, finalmente, quel teppista (Berlusconi) smette di picchiarlo, noi che facciamo? Gli diciamo: «eh, no, prima lo stavi picchiando, mica puoi essere incoerente»?

3) L’attacco è stato avventato. Si poteva trovare una via di mezzo prima della guerra
Perché una no-fly zone implementata con mezzi militari? Non si potevano trovare delle vie di mezzo o ulteriori sanzioni? Di queste obiezioni sarebbe la più ragionevole, perché almeno punta a qualcosa di smentibile e che non si auto-avvera. Il problema è che è già smentita dai fatti, e continuare a ripeterla contro tutte le evidenze suggerisce – nella migliore delle ipotesi – un’ostinazione cinicamente pacifista, quella che considera la pace come un fine e non come un mezzo per garantire la vita delle altre persone e passerebbe sopra a un genocidio commesso dal proprio vicino di casa per non intaccare la propria immacolata coscienza.

Come ha scritto Francesco, “esistono moltissime vie di mezzo tra ignorare lo sterminio di un popolo e dichiarare guerra alla Libia, e la comunità internazionale le ha provate tutte: gli ha intimato di smettere con crescente decisione, ha espresso dichiarazioni di condanna con tutte le sue istituzioni internazionali, ha riconosciuto ufficialmente i ribelli, ha approvato un primo pacchetto di sanzioni economiche e politiche, ha congelato i suoi beni, gli ha nuovamente intimato un cessate il fuoco, ha dato il sostegno che ha potuto dare ai ribelli. Niente di tutto questo è servito”. Si è battuta la strada dell’esilio, della presidenza dorata, quella della concertazione, quella delle sanzioni: non ha funzionato.

La verità è che fino all’altro ieri eravamo tutti qui a chiederci cosa aspettassero. Un nuovo massacro? La ragione per la quale la comunità internazionale è intervenuta così tardi è stato proprio aver provato tutte queste vie di mezzo. Tentativi ragionevoli che, a questo punto, possiamo definire fallimentari. C’è il legittimo dubbio che bisognasse intervenire prima. La decisione del consiglio di sicurezza è arrivata poche ore dopo che Gheddafi – probabilmente giocando sul terremoto in Giappone che aveva catalizzato l’attenzione internazionale – era arrivato alle porte di Bengasi, la roccaforte dei ribelli, e aveva annunciato una vendetta consumata “fino all’ultima goccia di sangue” a chiunque non si arrendesse. Era criminale aspettare ancora.

4) Stiamo violando la sovranità di uno Stato
La sovranità di uno Stato è il principio inviolabile che la tradizione conservatrice – i cosiddetti “realisti”, quelli delle dittature in Sud America, che ora sono tutti contro a quest’intervento perché (ironia della sorte) “non ci conviene” – ha sancito e riproposto dalla pace di Westfalia. Qualunque persona progressista – dai marxisti, ai liberali a tutte le vie di mezzo –, nei secoli passati, l’ha sempre considerato un vecchio arnese per permettere ai potenti del mondo di violare i diritti degli altri in santa pace. Einaudi, settant’anni fa, scriveva “[Il] principio dello Stato “sovrano”. Questo è oggi nemico numero uno della civiltà, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello Stato sovrano, dello Stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso”. È un concetto odioso, che il mondo ha cercato di limitare sempre di più. Il più grande attacco all’inviolabilità di questo principio è arrivato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: basterebbe questo per risolvere l’argomento.

Lo stesso articolo 11, tante volte tirato in ballo da chi è contrario a questo intervento, dice una cosa importante: che l’Italia ripudia la guerra come strumento d’offesa alle libertà altrui o metodo per risolvere controversie internazionali (e, semmai, in questo caso l’offesa la stava facendo Gheddafi), ma aggiunge una cosa importante che nessuno cita e Sciltian ricorda: “consente (…) le  limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (corsivo mio, naturalmente riferito all’Italia: ma implica lo stesso per tutti). La comunità internazionale stessa, attraverso le Nazioni Unite, riconosce la sovranità come un principio limitato dalla “responsabilità di proteggere” i proprî civili, e il fatto stesso che sia stato l’ONU ad approvare l’azione spazza via qualunque obiezione. A onore del vero, coloro che erano contro la guerra in Iraq “perché non c’era l’ONU” devono dimostrare la propria onestà intellettuale dicendosi favorevole a questo intervento.

Infine, la gente di Bengasi ha già manifestato (e oggi ha ribadito) come il rispetto dell’autodeterminazione dei popoli sia dalla parte delle persone – che esultavano in piazza per  il passaggio della risoluzione – e contro il despota. Come spesso succede, rispettare la sovranità (cioè la sua inviolabilità) di un luogo significa rispettare chi comanda, spesso attraverso sangue e terrore, in quel luogo.

5) Anche altrove ci sono violazioni dei diritti umani
Questo è l’argomento che l’Independent ha definito Perché-Dovrei-Mettere-In-Ordine-La-Mia-Cameretta-Quando-Il-Mondo-È-Così-Incasinato. È giusto o non è giusto mettere in ordine la cameretta? Si fa bene o si fa male? Certo, in Arabia Saudita, in Bahrein, in Qatar, in tante parti del mondo ci sono violazioni dei diritti umani: sostenere che, siccome si sbaglia in un posto, bisogna sbagliare in tutti i posti è ridicolo. Anzi, sostenere questo porta come logica conseguenza il sostegno a molti più interventi come questi qui, almeno dove ciò è fattibile. Insomma, chi è a favore di questo intervento ha ragioni di obiettare “perché non anche lì?”, ma chi è contro dovrebbe – semmai – celebrare il fatto che non ce ne siano di altri interventi simili.

Spesso questo argomento viene sostenuto su due tipi di speculazioni. Entrambe piuttosto cerebrali e indimostrabili: una è quella del complotto dei media che raccontano violazioni che non ci sono. La seconda è che gli Stati intervengano in Libia per il petrolio (vedi punto 1)  e non negli altri posti perché non ce n’è. La prima rimodula in diverse maniere questo concetto: Gheddafi non sta uccidendo la popolazione (nonostante sia lui stesso ad averlo promesso), i mezzi di comunicazione sono conniventi con le superpotenze e plasmano l’opinione pubblica attraverso un determinato linguaggio (in realtà, non so se ci avete fatto caso: in Tunisia e in Egitto chi protestava era definito da tutti “il popolo egiziano/tunisino”, in Libia tutti parlano di “ribelli”, accettando sostanzialmente la retorica di Gheddafi). Anche questa obiezione è semplice da risolvere:  se c’è un complotto non sei certo tu l’unico talmente intelligente da andare oltre alla cortina di fumo che hanno diffuso per tapparci gli occhi. Quindi parliamo di quello che sappiamo.

La seconda è che la bontà delle opinioni di chi è genuinamente favorevole all’intervento sia inficiata dalla malafede di chi le attua. Io non so a quali segretissime fonti abbiano accesso queste persone per leggere le menti di quei capi di Stato, tuttavia c’è un dato abbastanza ovvio: se Cameron, Obama e Sarkozy non agiscono su considerazioni umanitarie, non lo fanno certamente coloro che sono sempre stati riluttanti all’intervento: Hu Jintao, Putin/Medvedev, ma anche i Partiti dell’Egoismo come la Lega Nord o i Tea Party. Se la mia opinione a favore dell’intervento è “sporcata” dal fatto di condividerla con Obama, quella di chi è contrario ha una compagnia ben più odiosa: quella di Borghezio, di Putin, di Hu Jintao, e di tutti i dittatori del mondo a cui piace la camera disordinata così com’è. Sarà meglio rassettarla?

I meno meno meno peggio

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Il governo israeliano ha deciso di pubblicare le foto di alcuni coloni uccisi a coltellate qualche notte fa. Lì dentro c’è quella che è oramai l’unica dinamica di quel conflitto: l’essere i meno peggio.

Israele sopravvive e basa la propria credibilità sull’essere il meno peggio. Ogni volta che viene indicata un’ingiustizia ai danni della gente in Palestina, la risposta è: «ma loro fanno quest’altro». Un israeliano – con delle ragioni – potrebbe sfidarvi a trovare una violazione della libertà d’opinione, dei diritti delle donne, dell’intangibilità delle persone, del buon senso, praticata dagli israeliani ma non dai palestinesi, se non per mancanza di forza o potere.

Chi equipara, ad esempio, la guerra a Gaza agli attentati suicidi usa una tattica drammaticamente perdente: Israele avrebbe il potere militare per sterminare tutti i palestinesi, ma non lo fa. Hamas, non ha quel potere, ma prova a farlo – al massimo delle proprie forze. Si può essere contrari a quella guerra, e a tutte le ingiustizie commesse da Israele, senza tirare in ballo questo confronto perdente. Anche perché quel confronto è il flagello di Israele e Palestina.

Specchiarsi solamente nei proprî nemici è, assieme, l’anticorpo alle critiche e il morbo della società israeliana. Una società che, da quarant’anni, ha deciso di farsi forza d’occupazione, di non puntare più a essere i buoni – come nei sogni dei loro fondatori – ma a essere i meno peggio. Un circolo vizioso che gli permette di fare un passo verso il baratro quando lo fa anche il nemico. Dei nemici alleati in questa coazione a ripetere, anzi a peggiorare.

Quando Haaretz ha chiesto al ministro Edelstein perché avessero preso questa decisione, questi non ha cercato in nessun modo di spiegare perché fosse una decisione giusta, ha detto – testuale – «perché lo fanno anche loro». Hamas e Fatah hanno sempre pubblicato le foto dei civili morti per causa diretta o indiretta delle azioni israeliane. Perciò ha deciso di farlo anche Israele. Il concetto è sempre lo stesso: dobbiamo mostrare quelle foto, dobbiamo far vedere che loro sono peggio di noi – che noi siamo i meno peggio.

L’intervistatore ha individuato la contraddizione: «ma, allora, siamo come loro?», ha chiesto. Indovinate qual è stata la risposta? Ancora una volta non è stata: “ci siamo comportati bene”, ma «c’è ancora una grande differenza». Fatah e Hamas pubblicano foto più crude, talvolta fasulle, talvolta ritoccate. Qualche volta quelle foto sono state prese prima di prestare soccorso alla persona, molte altre senza chiedere il permesso a nessun familiare, etc. Tutte cose vere, figuriamoci.

Ma è come rispondere: non siamo come quelli che critichiamo, ma cerchiamo di assomigliargli sempre di più.

Abbiamo vinto noi, ma abbiamo deciso di perdere

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If you are neutral in situations of injustice, you have chosen the side of the oppressor.
Desmond Tutu

Quando due primi ministri di destra, Cameron e Sarkozy, dicono queste cose vuol dire proprio che abbiamo vinto noi. Che l’aiuto agli ultimi e la necessità di oltrepassare il principio storico del conservatorismo – la sovranità – hanno fatto breccia in quelli che cinquant’anni fa sarebbero stati i nostri nemici. I nostri “noi” di qualche tempo fa si congratulerebbero con noi per aver vinto questa grande battaglia di idee.

Ho paura, però, che i nostri “noi” di oggi, invece, faranno tutt’altro. Come in quell’equivoca citazione di Brecht, che mi è sempre sembrata un gioco linguistico, si siederanno al tavolo del torto, perché quello della ragione – che avevano occupato per tanti anni senza successo – è divenuto quello di tutti.

Non so se per narcisismo e necessità d’essere alternativi, o per aver maturato odio per i nostri nemici anziché per le loro sciagurate idee, ma la gente di sinistra che fa tutto il giro del tavolo e inizia a parlare del rispetto della sovranità di un altro Stato, di fronte a questo massacro quotidiano, ha deciso di diventare quello che un tempo avrebbe combattuto e schifato.

È come se, dopo aver vinto la battaglia – anche ideale – contro la segregazione razziale, Rosa Parks avesse pensato: «se i bianchi sono d’accordo con me, significa che ho torto: forse la segregazione era meglio».

Auguri di San Valentino

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Ricopio quello che ho scritto l’anno scorso. Vale anche oggi:

Tanti auguri. Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la Polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è uno scherzo, si chiama così. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.