I Topoi

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Siccome curriculum non è una parola italiana, e non risponde alle regole della lingua italiana, va intesa come una parola straniera, come un prestito importato da fuori che ormai fa parte del nostro lessico. I prestiti non si declinano.

Matteo Bordone, che quando si tratta di scemate e nervosismi ci azzecca sempre, ha scritto un post contro chi dice “curricula” come plurale di “curriculum”, e così via. Chi mi ha incontrato almeno una volta sa che in queste cose ci sguazzo; chi mi ha incontrato almeno due volte sa che questa dei forestierismi latini incomprensibilmente declinati al plurale è una battaglia anche mia, da sempre, per le ragioni che scrive Matteo e quindi rimando alla sua lettura.

C’è una cosa da aggiungere, però, e che Matteo omette: e cioè che la regola dà torto a lui (e a me), nel senso che essa vuole che i forestierismi non vengano pluralizzati, tranne per le lingue classiche (per “regola” si intende il consenso della maggior parte dei grammatici e storici della lingua, per esempio si veda qui). Lo dico perché mi sono un po’ impaurito vedendo un sacco di gente che – citando l’autorità di quel post – ha cominciato a dare dell’ignorante a destra e a manca.

Questo eccitamento nell’aver trovato un modo di spregiare il secchione della porta accanto – ha! finto colto! radicalchic! – mette un po’ di angoscia, perché le regole si contestano (e poi cambiano) dopo averle studiate e capite: e in questo, come negli altri casi, chi la applica non è un ignorante, ma al massimo un po’ conformista. Insomma, teniamo presente che la nostra è una battaglia di retroguardia.

Come dire: la regola dà ragione a loro. Poi è una regola analogica e trombona, quindi la vogliamo cambiare.

Right or wrong, un po’ di filologia

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Da quando Sarkozy e Merkel non se la son sentita di dire di avere fiducia in Berlusconi, e gli è scappato un risolino, c’è un sacco di gente in giro che dice la sciocchezza “right or wrong it’s my country”.

Ora, quella frase – se esistesse – sarebbe una sciocchezza, perché il patriottismo è sempre scemo. Però se proprio devi far riferimento a un’autorità per dare lustro a una sciocchezza, «come dicono gli anglosassoni», almeno accertati che quelli la dicano. In realtà, formulata così, la dicono solo gli italiani.

Quella frase, in inglese, non esiste, anche perché è un anacoluto ai limiti del grammaticalmente scorretto. In inglese esiste “my country, right or wrong”, senza il verbo. Che ora vi sembra la stessa cosa, ma che chi la pronunciò ne intendeva un’altra ben più condivisibile. E difatti usata così, come a dire “difendo il mio paese, che sia nel torto o nella ragione”, la dicono solo gli sciovinisti eredi di quelli che hanno inventato il nazionalismo bianco.

Una frase simile venne pronunciata duecento anni fa da Stephen Decatur, un ufficiale della marina americana. Diceva “Our country! In her intercourse with foreign nations, may she always be in the right; but our country, right or wrong”. May she always be in the right, che possa essere sempre nel giusto. Qui si suggerisce un riferimento all’espressione del celebre Edmund Burke “To make us love our country, our country ought to be lovely.” Per fare sì che noi amiamo il nostro Paese, il nostro Paese deve essere (un posto) da amare. Proprio l’opposto del senso al quale ci si riferisce oggi.

Ma l’espressione precisa “my country, right or wrong” fu pronunciata da, ed è quasi sempre attribuita a, Carl Schurz. Già leggendo la frase completa essa assume tutto un altro senso:

“My country, right or wrong.” In one sense I say so too. My country; and my country is the great American Republic. My country, right or wrong; if right, to be kept right; and if wrong, to be set right.
(“Il mio Paese, nel giusto o nello sbagliato”. In un certo senso lo penso anche io. Il mio Paese, e il mio Paese è la grande Repubblica Americana. Il mio Paese, nel giusto o nello sbagliato: se nel giusto, per mantenerlo nel giusto; se in errore, per correggerlo)

In realtà, come si vede, Schurz stava dicendo esattamente – esattamente – l’opposto. Stava invero rispondendo all’accusa di essere poco patriottico che un senatore del Wisconsin gli aveva rivolto. Difatti successivamente aveva scritto: «ho fiducia che il popolo americano [sappia riconoscere] i pericolosi egoismi che si nascondono sotto i lamenti dell’ingannevole falso patriottismo [che dice]: “our country, right or wrong!”».

La replica di Schurz è esemplare non soltanto per la parte che notiamo subito, “if wrong, to be set right”, ovvero il riconoscimento che la propria patria può effettivamente essere in errore, e che quando lo è bisogna impegnarsi a correggerla; ma anche per quella che non si nota subito, ma ha implicazioni profonde, “if right, to be kept right”, che suggerisce che anche quando consideriamo il nostro Paese nel giusto – e quindi pensiamo di esserlo noi – è importante impegnarsi per non finire nel torto, perché tutti possiamo sempre sbagliare. Essere i buoni non è mai scontato.

Berlusconi solo con la esse

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Questo tipo di giochi linguistici mi diverte molto. Qualche tempo fa avevo imparato a memoria  i monovocalici in O (ho l’orto) e in I (vidi i ciclisti) di Gianni Micheloni. Così mi sono appassionato anche a questo racconto allitterato, Silvio’s Super Story, ad opera di Francesco Linguiti, ne riporto una parte ma cliccate sul link per leggere il resto. Anzi: Scopro soltanto sommario stralcio. Se sognate sapere seguito, seguite subito spingendo su “Silvio’s Super Story”

Stati stranieri sghignazzano scrutandoci stupiti: “Sono senza speranza”. Sembrerebbe sufficiente, sebbene, sorpresa sorpresa, seguono scandali sessuali. Soubrette scosciate si scoprono senatrici, segretarie sotto scrivanie si scoprono sottosegretarie. Si sa, Silvio si sdebita spartendo seggi, sebbene smentisca spudoratamente. Sua sposa, stufatasi, si separa. Silvio si scatena: seduce signorine sussurrando “Sono scapolo, sono settantenne, sono soldi”.  Scopre squillo Sahariana sedicenne: sono serate straordinarie. Senonché sbirri sgamano suddetta squillo scippare sua socia, subito Silvio sollecita scarcerazione. Stampa si sbizzarrisce.

Segnala Saverio

Il latinorum di Massimo Fini

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Grazie (si fa per dire) a Pietro Raffa scopro un altro lato di Massimo Fini, il pensatore dei pensieri più spregevoli, fascisti, talebani, sessisti, leghisti, viscidi, etc etc. L’uomo che potrebbe essere insensibile alle più efferate ingiustizie, indifferente a fiumi di sangue. Se sentite Massimo Fini dire qualcosa, sapete che la verità è il contrario. Perfino Borghezio o Saponetta Fiori ne azzeccavano più di lui.

Ecco, insomma, ho scoperto che non solo tutto questo, ma che oltre a non saperne di geografia, non ne sa neanche d’italiano:

è onorato e omaggiato dall’intera intellighentia (!!!)

Evidentemente Massimo Fini deve essere convinto che la parola intellighenzia – che viene dal cirillico e perciò si può scrivere in mille modi, tranne quello che usa lui – derivi dal latino. E deve sapere male anche il latino, perché quell’acca è da mani nei capelli.

Abbìra, semmai

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Mi chiedono di commentare la pubblicità che sta facendo ridere tanti, quella del «cinque léttere, abira», sottolineando che è una parodia riuscita male e che nessun romano riderebbe. Detto che trovo davvero difficile immaginare qualcuno a Roma che non sappia scrivere birra, mi limito a sottolineare che – se proprio… – nessun romano direbbe «abìra, cinque lettere» – quella sì, ignoranza del romanaccio – perché in romano la parola “abìra” proprio non esiste, è abbìra con due “b”, come assedia per la sedia. E come in italiano si scrive “va bene”, ma si pronuncia “vabbene” e attaccato si scriverebbe proprio vabbene, o come si scrive “da vero” ma si pronuncia “davvero” e si scrive attaccato “davvero”. Se proprio volete sapere il nome, si chiama raddoppiamento fonosintattico.

Insomma, i signorini della Treccani permettono? Forse questo potrebbe esservi d’aiuto.

La tastiera aggeggiata

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Alcuni avranno pensato che sono pazzo, gli altri non se ne saranno accorti: tutti questi segnacci che faccio (È É  î – « ») dove li vado a pescare? No, non mi metto a fare “inserisci simbolo copia e incolla” né a fare Alt 145 ogni volta. È il tipo di cosa che qualcuno sa e dà per scontato, e gli altri considerano una stupenda novità sconvolgente. Per i secondi, lo dico.

Ci sono dei programmini per rimappare la tastiera, e scegliere a che lettera o simbolo deve corrispondere ogni tasto. Quelli smanettoni possono cercarsi il proprio, e riconfigurare la propria tastiera come vogliono; però ho pensato che a qualcun altro – più pigro o meno capace – potrebbe interessare il file d’installazione della mia tastiera, così ve l’allego qui sotto, per chi lo volesse.

La tastiera è la classica tastiera italiana con le 6 modifiche che interessano a me:

Blu = Shift, Rosso = Alt Gr, dall'alto verso il basso e da sinistra verso destra: î È É « » –

  1. “È” al posto della “ç”, quindi con shift + “ò” viene la È maiuscola accentata grave (Verbo essere a inizio frase: “Non voglio. È sbagliato.”)
  2. “É” al posto della “§”, quindi con shift + “ù” viene la É maiuscola accentata acuta (utile solo per i titoli in maiuscolo: PERCHÉ AMARE IL CICLISMO )
  3. “«”, aperte virgolette basse, i cosiddetti caporali,  con alt gr + “,” viene « aperte virgolette (Mario mi ha detto: «vieni al mare?»)
  4. “«”, chiuse virgolette basse, i cosiddetti caporali,  con alt gr + “.” viene » chiuse virgolette (Mario mi ha detto: «vieni al mare?»)
  5. “î”, solo per maniaci, con alt gr + “ì” viene la î col circonflesso (plurale delle terminazioni in -io: i principi non vengono meno ai loro principî)
  6. “–” la lineetta, con alt gr + “-” viene la lineetta (utile per gli incisi, o per l’introduzione del discorso diretto, in opposizione al trattino: sono andato al mare a Fregene con un anglo-italiano)*

Bisogna cliccare qui -> TASTIERA AGGEGGIATA <-

È un file zip da salvare  (salva con nome) ed estrarre da qualche parte (tasto destro sul file, estrai) dopodiché bisogna cliccare su “setup” contenuto nella cartella e installare. Dopo aver fatto quest’operazione bisogna andare sulle impostazioni della lingua e scegliere come lingua predefinita “italiano – custom” oppure “italiano – aggeggiato”. A quel punto la nuova tastiera sarà quella predefinita e basterà riavviare perché entri in funzione.

*di lineette ce ne sarebbero diverse, particolare l’uso in inglese: l’approssimazione a due – lunga-corta – mi sembra la migliore.

Talibani

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Se non è un errore, ma Republica.it si è messa a combattere la battaglia linguistica per dire “talibano” e non, l’errato e anglofilo, “talebano”, beh, bravi. Ché io m’ero già arreso al corso degli eventi, e avevo iniziato a dire “talebano”.

Comitato per l’abolizione del “più”

C’è un tic linguistico che io non sopporto proprio, perché è riflesso di una concezione degenerata del mondo che mi preoccupa prima di scocciarmi. È quello di aggiungere un “più” a frasi sensate – delle volte anche senza rendersene conto – in modo, però, da stravolgerne il senso. Chessò. Proviamo con questo esempio:

Frase 1: In Italia non si rispettano le donne.

Frase 2: In Italia non si rispettano più le donne.

Per quanto – se non si ha una concezione grottesca e misogina dei rapporti uomo-donna – sia ordinariamente ovvio che la condizione delle donne nell’Italia attuale sia di gran lunga migliore rispetto a quella di trent’anni fa, troveremo molte più volte scritta o detta la seconda. Non ha senso, ma retoricamente fa più effetto. Ovviamente funziona con altre parole simili, proviamo con “oramai”.

Frase 1: I giovani pensano solo al sesso

Frase 2: Ormai i giovani pensano solo al sesso

Anche in questo caso: i giovani di un tempo pensavano meno al sesso? Direi proprio di no. Basta visitare qualche area rurale dell’Italia, o anche Paesi che – per vicissitudini storiche – sono in condizioni simili a quello che dell’Italia di qualche decennio fa, per rendersi conto che sia – semmai – il contrario. Che è tutto l’accento sulla proibizione, che crea un’ossessione. Che è chiaro che molti giovani, e non giovani, pensino abbastanza al sesso (e non c’è nulla di male), ma non in tassi superiori a prima. Però, vedrete, che una frase del genere sarà sempre accompagnata da un malintesto “oramai”.

Il più fulgido esempio della diffusione di questo luogo comune è Massimo Gramellini, uno dei giornalisti più preparati in Italia. Uno che riesce a scrivere cose belle, sintetiche, commoventi e partecipi come questa, alla quale sono affezionatissimo, ma che poi – in moltissime delle sue cose – si lascia sfuggire quell’innesto qualunquista: prendo l’ultimo dei suoi “Buongiorno” nel momento in cui scrivo, non è selezionato all’uopo: “C’è ancora in Italia un disadattato che non ruba, pur occupando un ruolo che gli consentirebbe di farlo?”. Ancora. Come se, invece, nell’Italia della DC e poi in quella di Craxi non si potesse usare lo stesso indulgente catastrofismo.

Gramellini, che io apprezzo davvero, è solo un esempio: succede a tanti e in continuazione. Ma non perché le persone credano, ogni volta, che davvero si stia peggio nel 2010 rispetto al 1950. Non sono tutti dei laudatores temporis acti: è semplicemente un tic linguistico. È soltanto uno di quei concetti automatici che si insinuano nella nostra testa, e che – proprio perciò – ci si deve impegnare a evitare, e che dice che «prima si stava meglio». Il modo di dire, però, finisce per far passare un messaggio all’interlocutore, e sono sempre di più (vedete, ci sono cascato anche io?) le persone che passano dal tic incosciente al dire che – davvero – il mondo di oggi sia così peggiore.

Ovviamente non è vero. Il mondo di ora è migliore da mille punti di vista: la mortalità infantile, la fame nel mondo, sono crollate negli ultimi vent’anni. Un buon numero di Paesi che trent’anni fa erano dittature sono ora delle democrazie, magari non perfettissime, ma sempre luoghi dove la libertà è garantita. Di tutte le libertà, quella di cui ci si lamenta sempre: la liberta di stampa nel mondo, anche quella è migliorata – venticinque anni fa ce n’era di meno. Gli omosessuali hanno fatto conquiste (cioè, tutti noi le abbiamo fatte) la cui sola espressione vent’anni fa sarebbe stata inconcepibile. In nessun momento della storia del mondo i lavoratori hanno avuto tanti diritti come oggi. E così via.

Ovviamente questo non è un invito a non combattere per le mille cose per cui si deve combattere, anzi, è la dimostrazione che le cose possono cambiare se ci crede nel darsi da fare. Perché sì, ovviamente c’è ancora un sacco da fare: ma è proprio questa qui l’obiezione più grande all’immobilismo, al nulla può cambiare perché nulla è mai cambiato – le cose sono già cambiate, e in meglio.

Insomma, smettiamola: quelle parole – più, ormai, di questi tempi, – non usiamole… più.

p.s. E vi do uno scoop? Non è mica vero che non ci sono più le mezze stagioni. Uno che ne capiva mi ha spiegato che negli ultimi novant’anni ci sono state più mezze stagioni che nei novant’anni precedenti.

Momenti che rovinano un’infanzia

Visto che siamo in tema di malattie letterarie racconto una cosa: c’è una regola assurda, che sanno (e interessa) solo ai fissati come me, per la quale in italiano “da solo” si dovrebbe pronunciare dassolo. Esattamente come davvero si pronuncia davvero, o va bene, attaccato si pronuncia vabbene.
Lo so, è una regola per ostinati intestarditi nerd al cubo, ma c’è chi le va dietro. Fra questi va dietro ci sono io.
(per chi volesse entrare nel club si chiama “raddoppiamento fonosintattico”)
Nessuno ci fa più caso, e da quando è nata Mediaset, o Fininvest, e quindi il centro linguistico si è un po’ spostato a Milano l’attenzione per queste cose – che a Milano sono tutte sballate (e difatti lì pronunciano vabene e non vabbene), quindi insomma – è stata completamente cancellata. Più che una battaglia coi mulini a vento è una non battaglia, perché è talmente già persa che è davvero raro che – perfino i rompipalle come me – facciano riferimento a questa cosa.

Però c’è un fatto che mi porto dentro da quando ero bambino e che ha turbato la mia crescita: alle elementari quando dicevo dassolo – a quel tempo lo facevo senza consapevolezza, e dicevo anche “te” al posto di “tu” – gli altri bambini mi prendevano in giro un sacco. Io dicevo loro che avevo ragione, però – a Roma – ero in drammatica minoranza. C’era un mio compagno delle elementari a cui ero affezionato, si chiamava Filippo Lupi, non lo sento da più di dieci anni, che con amorevole piglio ogni volta provava a aiutarmi a dire dasolo, e io gli dicevo «non ci riesco» (te lo confesso, Filippo, mentivo!).

Alla fine me n’ero quasi convinto pure io di stare sbagliando, ma il dramma violento avvenne quando in un tragitto da scuola a scuola calcio, in macchina con un mio compagno di classe, Fabio Pizzino, questi mi chiese «perché dici dassolo invece di dasolo?». Al che io, con la sicumera senza argomenti del bambino di 7 anni, risposi: «perché si dice dassolo». Ecco, in quell’istante la madre  di Fabio disse: «no, si dice da solo». Il momento più drammatico della mia infanzia. In quell’attimo tutte le mie certezze crollarono, e la mia bambinezza si avviò verso una cupa adolescenza senza più la gioia del sapere che tutto quel che dicevo era giusto.

Quando, all’università, ho scoperto che – invece – è giust dire dassolo, la mia testa è subito volata a quell’incontro lì: andrei a casa Pizzino – se abitano ancora dove abitavano tanti anni fa, e ci facevano i Nutella Party – alle 3 di notte a citofonare e urlare nel citofono «hai capito??? Si dice dassolo! Si dice dassolo! Avevo ragione io!!!», rapirei tutti i componenti della famiglia fino a quando la madre non rilasciasse un comunicato a tutte le agenzie di stampa che reciti “aveva ragione lui. Si dice dassolo». Cancellerei tutte le scritte ioettetremetrisopralcielo di cui è segnato il tracciato dalla loro casa a lavoro per scriverci solo “da solo” “da solo” “da solo”, per dieci chilometri e senza soluzione di continuità.

Sapete che c’è, una volta lo faccio davvero, senza rapimenti però: vado lì, all’ora del tè, citofono. Ciao sono Giovanni Fontana, sì, quel Giovanni Fontana, no ecco, sì è tanto tempo. Lo so. Ecco sì, volevo salire. Oh ciao non siete cambiati per nulla, ecco, sì, che piacere vedervi, che faccio nella vita? No, cioè sì, sentite io sono venuto, ecco, per dirvi una cosa. Per me è una cosa davvero importante, sì dunque: quella volta avevo ragione io. Ecco, l’ho detto. Ci vediamo fra altri dieci anni. Ciao, statemi bene.