Sabato 25 ottobre

Al Khalil – Diario dalla Palestina 92

Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto…
chi ha dato, ha dato, ha dato…
scurdámmoce ‘o ppassato

Al Khalil è il nome arabo di Hebron, l’ebraico suona Hevròn. E Hebron è il luogo dove fanno mostra di sé i peggiori fra i peggiori: i coloni seguaci di Goldstein.

Qui il problema non è soltanto l’assenza di una storiografia comune, e la completa indisponibilità a qualunque compromesso; non è soltanto il racconto di una verità vera ma parziale, come qui:

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(traduco: questa terra è stata rubata da arabi nel ’29, a seguito dell’eccidio di 67 ebrei)

Perché l’argomento non è che non è vero, che non ci sia stato l’eccidio. È più che vero, come è vero che la comunità ebraica della città è stata completamente spazzata via, in quegli anni. Ma è altrettanto vero che il nuovo insediamento è nato dopo un altro massacro, di 29 arabi questa volta. Ovviamente ciascuno racconta solo la parte a sé più conveniente.

La complicazione è che qui, persino i farabutti – da una parte o dall’altra – hanno una parte di ragione. Anzi, in qualche modo l’hanno più loro, perché qualunque compromesso è un torto a qualcuno, quasi sempre sono due torti.

Per quanto possa stonare alle vostre, e le mie, orecchie assetate di giustizia, quei tre versi lì sopra (chi ha avuto ha avuto/ chi ha dato ha dato/scordiamoci il passato) sono l’unica soluzione di buon senso: neanche di buon senso, l’unica soluzione – e basta. Ciò vuoldire anche che, spesso, chi è stato più stronzo in passato avrà di più.

Però dicevo che il problema, a Hebron, non è questo. A Hebron il problema è la delinquenza deliberata. Gli ebrei qui insediati non sono semplicemente folli, come capita spesso ai fondamentalisti religiosi, ma sono dei mascalzoni di prim’ordine. Odiati da tutti, compresa la quasi totalità degli israeliani, che hanno però la responsabilità di un esercito connivente, e di un governo che li finanzia. Anche se la maggior parte dei fondi arriva da ebrei americani.

Sono 300-400 individui, che vivono in una sorta di città fantasma presidiata da un numero incredibile di soldati (si dice che il rapporto soldati/coloni sia di 4 a 1 per i soldati).
E qui non c’è nessun «eh, ma…»: eh, ma niente. Qualsiasi giustificazione, o tentativo di sminuire vuoldire pregiudizio.

Hanno acquistato i piani superiori di queste case, e visto che sotto passano arabi, loro lanciano rifiuti, spazzatura, sassi:

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Così sono state messe queste reti, per impedire alla varia oggettistica di raggiungere i bersagli:

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Come vedete molti dei resti sono ancora lì.

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Lunedì 20 ottobre

Vetro e ceramiche a Hebron – Diario dalla Palestina 88

Questo post è per il povero Carlo. Il tapino ha una collezione di coffee mug (tazze, quelle americane con il manicone) da tutto il mondo. E perciò mi ha commissionato l’acquisto di una di queste con la bandiera della Palestina. Ora voi direte, ma la Palestina non è (ancora?) uno stato. E io dico, beh non ditelo a me ditelo a lui.

Il problema, come avevo scoperto nella mia precedente visita, è che nonostante il nazionalismo che si vede da entrambe le parti del muro (andando in giro, vedendo tutte le bandiere da entrambe le parti, direste che è perennemente in corso una partita di calcio fra Israele e Palestina, e in un certo senso) non esiste quella tazza, fatta in serie, in tutta la Palestina.
Credevo fosse facilissimo trovarla, d’altronde fanno qualunque cosa con la bandiera palestinese, e invece si trova con simboli della fede, con le città, ma nessuna con la bandiera.

Però è una collezione, e le capisco le ossessioni. Quindi dico, vediamo se la posso ordinare, se chiedo loro di farla. A Betlemme conosco varie persone – oramai amici – che vendono souvenir, pensavo dunque di non avere problemi, specie dopo le rassicurazioni: «la ordiniamo a Hebron, quello è amico mio, vedrai che un favore te lo fa». Me l’hanno detto in più persone, e quando non arrivava beh, domani, inshallah: se Dio vuole.

E qui sorge un altro problema: non solo affidarsi alla volontà Dio per un ordine (ma Inshallah è quasi un intercalare: allora ci vediamo alle 2 domani? Inshallah.) sembra un briciolo scomodante per la divinità, avrà altro da fare, credo.
Ma anche su “domani” ci sono dei problemi, come mi hanno spiegato in Palestina “bukra doesn’t mean tomorrow, it means not today” – Bukra non vuoldire ‘domani’ come insegnano le grammatiche – vuoldire ‘non oggi’.

Così dopo mesi di promessa insoluta mi sono deciso ad andarmela a prendere da me, dice che Hebron è l’unico posto dove farla. E a Hebron, l’unico posto dove fanno questo tipo di cose, è questa fabbrica:

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All’entrata c’è un cartello, con scritto in inglese: per favore entrate e fate tutte le foto che volete:

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Effettivamente vedere queste persone all’opera, lavori di precisione fatti a mano, è molto bello:

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Loro sono molto professionali nel non essere distolti da stranieri fotografanti, e anzi spesso si fermano mentre li fotografi – come a mettersi in posa:

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So bene che, purtroppo, le foto non rendono bene la bellezza di queste operazioni:

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Alla fine, la a-lungo-desiderata coffee mug è questa. Ma ovviamente ci mettono qualche giorno a farla:

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Dipingono gli interni, e dentro ci disegnano la bandiera della Palestina. Un po’ piccolina effettivamente, ma in tutta la Palestina non c’è altro posto.
Sono tornato a mani vuote, dunque, ma con questa foto come bottino, da passare al vaglio del collezionista, per poi andare a ritirarla fra un mesetto.
Quindi Carlo, ti chiedo, Hal a’jabak?

Lunedì 13 ottobre

Ramallah – Diario dalla Palestina 83

Visto che avete snobbato il mio ultimo post (mi aspettavo una tempesta di messaggi, che lettori inaffidabili!), qualcosa di più concreto. Ora, Ramallah, il colle di Dio. Tutto quello che pensereste di Ramallah, il fondamentalismo, un posto poco sicuro, etc è piuttosto falso. Anzi se dovessi dire un posto sicuro nel West Bank, persino più di Betlemme, direi Ramallah.

L’impressione è data chiaramente dai telegiornali, siccome è la capitale de facto della Palestina (ovviamente i palestinesi dicono, senza troppi torti, che lo Stato palestinese deve avere Al-Quds/Gerusalemme Est come capitale) tutti i collegamenti dei giornalisti sono da lì; così quando c’è qualche casino vediamo la diretta da questa piazza qui…

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…e quei leoni ci fanno pensare che il casino sia lì nei pressi. Farò una foto migliore la prossima volta che ci passo, perché qui non si vede il particolare più divertente: dei quattro leoni che vorrebbero rappresentare le quattro famiglie più importanti di Ramallah, il più imponente porta un orologio da polso sulla zampa.

Di storie sul perché, ce ne sono tante; certo è che siano state scolpite in Cina (e noi ci lamentiamo delle scarpe fatte lì!). La storia che hanno raccontato a me recita così: il grafico che doveva elaborare i leoni per poi mandare il progetto informatizzato ai cinesi, aveva inserito questo “buco”, per accertarsi di essere pagato e non espropriato del progetto: un po’ quello che faceva Leonardo da Vinci, che – con i brevetti ancora molto di là da venire – disegnava le sue macchine con grossolani errori di progettazione: lui l’avrebbe corretti a occhio, ma chi avesse voluto copiargliele senza il suo consenso sarebbe finito con un palmo di naso.
Insomma, sembra che il progettista non sia stato pagato quanto voleva, e che abbia lasciato l’orologio al polso del leone.

Racconti di colore a parte, la verità è che Ramallah è la città più occidentale della Palestina: fra organizzazioni internazionali, Ong, ambasciate e consolati, in alcune parti del centro una persona su dieci è europea o nordamericana, e questo ha effetto anche sulla tolleranza e sull’abitudine al “diverso” degli abitanti. Se a Nablus è sconsigliato andare in giro coi pantaloncini corti (anche per gli uomini, delle donne non se ne parla) e a Hebron si vede difficilmente una donna da sola per strada, qui si trova birra in quasi tutti i negozi downtown.  A Ramallah si va a fare shopping o si esce con gli amici. In centro sì che c’è un bel casino, ma stavolta non si parla di guerra.

Ed è qui che si percepisce la più grande contraddizione fra anti-americanismo di maniera – componente irrinunciabile di ogni buon-cittadino in Palestina – e modo di vivere di tanti ragazzi che vuonno fa’ l’americani. Sul rapporto con l’America tornerò in un altro post, per quanto riguarda Ramallah basta vedere questo:

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Chi ne sa un po’ di ammeriganate avrà subito riconosciuto il logo, Starbucks! Per i pochi che non lo sanno Starbucks è una catena di “caffetterie”, la più famosa, che da Seattle ha esportato i suoi negozî in tutto il mondo tranne l’Italia (dice che nel Belpaese puoi prenderti un caffè per 0.70 € a ogni angolo di strada, non gli conviene).

Beh, chi non ha riconosciuto il logo ha più ragione degli altri perché questo è Stars & Bucks, una spudoratissima copia palestinese che ricalca l’originale in tutto, logo, colori, nome. Se vi capita di passare nella piazza principale, Al-Manara, dopo aver chiesto che ore sono al leone, potete fermarvi qua a prendere un ice coffee, ricordatevi solo di non ordinare un bagel!

Giovedì 9 ottobre

Trova le differenze /2 – Diario della Palestina 80

In qualche modo è la seconda versione di questo.

Mohab è il più grande dei ragazzi, è quello con il padre violento che sembrava averlo rovinato. Ne avevo parlato qui, proprio quaranta racconti fa. Quello a cui sareste abituati – avvertire la moglie (picchiata anche lei), parlare con la famiglia (nella maggior parte dei casi è d’accordo), chiamare la polizia (ti dicono: «embè?) – in Palestina non si può fare.

In questi tre mesi è migliorato enormemente, le prime volte che lo vidi non parlava. Completamente in silenzio, sempre in disparte, sembrava abbrutito senza emozioni, neanche rabbia o disprezzo. Standogli accanto per un bel periodo ho iniziato ad apprezzare i momenti di apertura, sempre meno rari. In cui, nel mezzo di una discussione su altro, accennava alla propria condizione. Ovviamente in maniera velata, amara, parlando sempre in generale. È-ingiusto-che-succeda-questo. Ancora più spesso in contrapposizione, mentre si sta raccontando di una storia o spiegando qualcosa che è giusto fare, Mohab dice «eh ma spesso non è così». Domani vi racconterò di una tal volta.

Piano piano è migliorato, e gran parte del merito è di Angela (G) e Umberto che hanno raccolto i soldi necessari a mandarlo in una scuola migliore, una scuola privata. Al contrario di ciò che succede in Italia, le scuole private sono enormemente migliori – sono quasi tutte gestite dalla Chiesa, e sono molto costose. Gli insegnanti se ne fregano degli studenti, e tutto ciò che fanno è dare cose da imparare a memoria. Non rispondono neanche alle domande che gli fai se non hai capito, ci ha raccontato Mohab.

Ora le cose vanno molto meglio, Mohab sorride spesso e l’altro giorno si è addirittura seduto, da solo, accanto a una femmina. La cultura della segregazione inizia sin da bambini, e più volte i maschi si sono rifiutati di continuare un gioco perché si trovavano a doversi sedere accanto a una bambina (ovviamente Ahlam e io siamo inflessibili). Invece un paio di settimane fa Mohab era arrivato prima degli altri ragazzi, e c’era solamente Nama, la sorellina di Ahlam che c’era venuta a trovare. Così, mentre io e Ahlam finivamo un lavoro per l’associazione, lui e Nama si sono messi a giocare a ‘Uno’, che fra i nostri bimbi spopola. Io, solito scemo, non m’ero accorto di nulla, ma Ahlam mi ha detto «guarda, guarda…».

Anche con me Mohab ha iniziato a prendere confidenza, e ora quando mi vede mi fa l’occhiolino e mi dice «ciaó», lo pronuncia con l’accento sulla ‘o’. Tanto da farmi capire che anche lui è contento di scherzarci su. Così,  l’altro ieri, non abbiamo fatto una foto assieme, ne abbiamo fatte due – una con la faccia triste che faceva quando sono arrivato, e una con la faccia di tre mesi dopo:

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Le trovate le differenze..?

Mercoledì 8 ottobre

Giai – Diario dalla Palestina 79

Faccio questo post dall’Italia, dove sono sbarcato da qualche ora. Tornerò fra un mese circa forse a Jenin, forse ancora a Betlemme, ma intanto staccherò un po’: la mia finestra sulla Palestina sarà qui, perché ho miliardi di foto, foglietti, argomenti, in arretrato da dovere ancora pubblicare. Prometto un post al giorno.

Intanto le foto del saluto ai bimbi, che è stato un certo arrivederci e non un addio:

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Martedì 30 settembre

A fare i grandi – Diario dalla Palestina 70

Oggi è il primo giorno della fine di Ramadan. Non lo si è saputo fino al tramonto di ieri, perché doveva succedere una cosa con la luna che non ho capito bene. Anche se pure gli imam non è che lo capiscano tanto bene: l’anno scorso, ad esempio, si son messi a avvistare la luna e, se in Egitto hanno visto così, in Arabia Saudita hanno visto cosà, quindi… potete immaginare.

Stavolta, invece, tutti d’accordo e quindi fine del Ramadan e primo giorno di vacanza per tutti (fino a venerdì). I negozi sono tutti chiusi e per strada non c’è nessuno. Cioè, nessun adulto. Perché invece è strapieno di bambini. Che giocano a fare i grandi. Le bambine, anche di 6 o 7 anni si vestono da donne, si armano di borsette, abbigliamento e passo femminile, e vanno in giro per la città in gruppo.

I maschi invece, vanno in giro in gruppetti più sparuti, tre, quattro, massimo cinque. Però tantissimi. Non ho mai visto così tanti bambini per strada, e fin qui. Il fatto è che vanno tutti in giro con un’arma giocattolo che spara pallini o niente. Avrò visto – non esagero – ottanta bambini, di cui quelli sprovvisti di mitra, pistola o un’arma qualunque si contavano sulla dita di una mano di Django Reinhartd.

Ho capito che c’erano tre modi di non farsi sparare (ché i pallini, quelli gialli, fanno male sulle chiappe). Uno era fare la faccia cattiva, se hanno paura che tu gliele dia, evitano e se la vanno a rifare su turisti attempati che non avrebbero la forza di rincorrerli. Il secondo era quello di portarsi la mano, orizzontale, alla fronte: come a fare il gesto del mettersi sull’attenti. Molto contenti della complicità, ti lasciavano passare come un “superiore”.

Il terzo era quello di mostrare molto interesse e anzi chiedergli, con le grame parole del mio minuto repertorio d’arabo, di fare una foto: al che tutti i ragazzini si mettevano in posa, impettiti, qualcuno si copriva il volto come nei video di Al-Qaida (Al caida?), qualcuno faceva una faccia fintamente minacciosa, la maggior parte sorrideva.

Non pensatemi meglio di quel che sono: ho usato anche i primi due. Qui alcune dei risultati del terzo metodo. Alla fine, dice, sono stato l’unico occidentale a non essere sparato.

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Ho sempre pensato che fosse una sciocchezza l’equivalenza fra gioco e realtà, ho sempre criticato i criticatori dei videogiochi violenti, e sostenuto che un gioco è un gioco.
Però devo ammettere che queste mini-squadriglie m’hanno fatto angosciato un po’, ci ho pensato tutto il giorno.

Ovviamente non sono giunto ad alcuna conclusione, se non che avrei dato tanto per vederli giocare a pallone.

Venerdì 26 settembre

Matrimonio alla Natività – Diario dalla Palestina 66

Domenica sono stato al mio primo matrimonio in Palestina, ho un invito a un altro nei pressi di Jenin, e non mancherò approfittandone per vedere anche il nord della West Bank.

Purtroppo sono entrambi matrimoni cristiani, vorrei vederne anche uno mussulmano, anche se alcuni stessi mussulmani m’hanno detto che è molto più noioso: cercherò di entrare nelle grazie di qualche mussulmano in attesa di convolare (avete mai usato tale verbo, in un contesto diverso da questo?) a nozze, anche se il problema è che molto spesso si sposano intorno ai 18 anni, e quell’età è completamente fuori dal mio target: conosco bambini, fino ai 14 anni, e poi ragazzi dai 22 anni in sù.

La cosa particolare di questo matrimonio è che, pur essendo sempre all’interno del cristianesimo, si sposavano un lui cattolico, e una lei siriana-ortodossa. Dato che nella Natività non c’è uno spazio siriano, ma c’è quello ortodosso, il rito è stato un miscuglio dei tre riti.

Per quello che ho visto non c’era un solo mussulmano fra tutti i presenti.

Il rito, tutto in arabo tranne l’Hallelujah (chissà se lo sanno che è una parola ebraica?), è piuttosto diverso da quello a cui siamo abituati in Europa. È molto più concentrato sulla chiesa, sulla fede, sul/i preti, che sugli sposi. Probabilmente assomiglia di più a quello che dovrebbe essere veramente il matrimonio, nella concezione cristiana: un rapporto verticale e non orizzontale, un’unione prima con Dio, e poi con il proprio coniuge.
Effettivamente i due futuri coniugi, in chiesa, mi sono sembrati così necessariamente poco complici: non si sono mai guardati negli occhi.

E poi non c’è neanche il «bacia la sposa»!


Alcune foto, ne seguiranno altre, della festa:Ecco l’arrivo della sposa:1-sposa.JPG

Scesa dalla macchina e accompagnata dal padrino e dalle damigelle:

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…intanto lo sposto l’aspetta sulla porta della chiesa:

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Vedete la chiesa addobbata, e questo corridoio dentro al quale stanno passando gli sposi, riempito di ornamenti: purtroppo si vede poco, qui lo sposo sta sciogliendo un nodo – un simbolo della verginità?

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Ecco la foto dei tanti riti. L’officiante è un prete cattolico, ma tutti gli altri sono ortodossi, siriani, etc: è così strano vederne tanti (4, uno è un cameraman!) sull’altare:

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Qui un video: «Vuoi tu Issa, prendere come tua legittima sposa Shamiran…»?

Dopo il sì, i due sposi vanno a pregare, in silenzio, senza rivolgersi parola l’un l’altra, sotto l’altare dedicato alla Madonna:

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Usciti dalla chiesa, le due famiglie di lui e di lei si dispongono in fila indiana con le spalle al muro, tutti gli invitati sciorinano a fare le congratulazioni a ciascuno dei componenti: sembra l’incontro di due squadre di calcio a centrocampo, ma molto più lungo – invece di undici e undici, qui sono una ventina e un centinaio:

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Infine la macchina che li porterà via, sulla targa dietro – invece – c’è scritto “Just Married”:

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Seguiranno le foto della festa…

Giovedì 25 settembre

E la storia continua –  Diaro dalla Palestina 65

Oggi soltanto qualche foto, ché magari rimettono di buon umore anche voi:

La storia continua e taluno è più attento di tal altri…

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…qualcuno che è fin troppo assorto…

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…così assorto che quando tutti gli altri vanno a giocare, decide di rifletterci un po’ su!

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Lunedì 22 settembre

Là dove il sì suona – Diario dalla Palestina 63

Un aggiornamento su quello che sto facendo: la mia occupazione principale, ovviamente, sono i pomeriggi con i bambini, ma – avendo le mattine libere – avevo programmato di tenere dei corsi d’italiano, come facevo in Italia con gli immigrati: l’ho detto più volte, qui l’italiano è apprezzato molto più di quanto non si pensi. Per dire, la scuola elementare più importante qui insegna tre lingue: arabo, inglese e italiano.

Più persone si erano mostrate interessate al mio corso, intorno alle due direttrici ben chiare che si occupano di volontariato in Palestina: i cattolici, e i comunisti. Ovviamente si conoscono tutti, e avevo detto a loro di mettersi d’accordo sul dove e il quando: soltanto poi ho capito che ogni gruppo ha un suo entourage, e difficilmente gli affiliati degli uni e degli altri convergono. In ogni caso avevo cominciato un corso all’Azione Cattolica, che aveva offerto i propri spazi. Era un corso che si teneva la mattina per i ragazzi delle scuole, e che sarebbe durato fino all’inizio della scuola.

Quattro di questi ragazzi mi avevano poi chiesto di continuare privatamente, cosicché avevamo programmato le lezioni nelle mattine in cui non c’è scuola (venerdì e domenica), e le sere – verso le 19 – dopo l’incontro con i bambini di Amal. L’incidente con la macchina aveva ritardato l’inizio del corso con l’Alternative Information Center, che sarebbero i marxisti, ma per fortuna ero riuscito a continuare con Dima, Yusef, Issa e Najeeb, che – quando ero bloccato a casa per la gamba – venivano da me, a domicilio, per fare lezione.

Così poi avevo fatto sapere all’AIC che avrei potuto iniziare: alcuni studenti l’avevo trovati io, nel frattempo, fra amici e conoscenti in giro per Betlemme, fra cui Murad che mi avrebbe dato un passaggio all’andata e al ritorno da Beit Sahour, luogo dov’è basato l’AIC; altri li aveva procacciati Sara, una ragazza italiana che fa il servizio civile in quell’organizzazione.

Va a finire che un’incolpevole e imbarazzata Sara mi comunica che – al contrario di quanto mi avevano detto in un primo tempo – era stato deciso che gli studenti avrebbero dovuto pagare 50 Shekel ciascuno; saranno anche pochi (10 euro), ma il fatto che su un corso d’italiano gratuito ci volesse guadagnare l’organizzazione non mi ha fatto un’ottima impressione: non stanno lì apposta per aiutare i palestinesi?

Come era andata a finire? Che, ovviamente, mi ero rifiutato di far pagare gli studenti cercandomi di arrabattare per trovare un posto e – non trovando altrimenti – finendo per addobbare ad aula il centro della mia associazione; certo, non è la cosa migliore, manca una lavagna, e lo spazio è quel che è, ma ci si può arrangiare senza problemi, con sedie e tavoli per bambini, foglie e cartelloni – qui vedete una foto:

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Ecco, una cosa va veramente detta, che per quanto piccola e disorganizzata (scopro oggi che è scaduta la registrazione del dominio del sito!!!), la mia associazione è animata da persone il cui unico interesse è provare a dare una mano.
Altro che scopo di lucro. E se c’è un modo per rendere più utile l’affitto che paghiamo per la sede, che ben venga.

Qui la foto di uno dei cartelloni che ho preparato per la prima lezione, e che lasceremo attaccato nella sede, perché l’alfabeto italiano può sempre tornare utile in un’associazione Italia-Palestina (quelli che vi sembrano scarabocchi sotto alle parole sono le traduzioni in arabo, ignoranti!):

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Il cartellone ha suscitato entusiasmo sia in Nabil che in Ahlam: Nabil è venuto anche lui a lezione d’italiano (alla fine eravamo 8 + 2 assenti giustificati, che considerate tutte le defezioni di chi non può muoversi da Beit Sahour a Betlemme è un buon numero); Ahlam invece ha voluto che facessi la prima lezione anche ai bambini cosicché imparassero almeno l’alfabeto italiano ché può sempre essere, qualunque sia la loro strada, un ottimo strumento:

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Io, per me, mi sono stupito di come questi bambini fossero profondamente interessati e partecipi: ovviamente adattando un po’ la lezione per renderla divertente, e nel modo in cui possono esserlo i bambini, sfidandosi l’un l’altro a indovinare la pronuncia delle lettere, ma è anche questo un modo di imparare, anzi, forse è il miglior modo.

Qui una foto di Yazan e Ghaida che indovinano (bravi!) le due pronunce della “O”:

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Infine quella che avrebbe dovuto essere una foto di gruppo, ma la fotografa – Tina – è molto più interessata alle foto che le si fanno (per le quali sta in posa anche 5 minuti) che a quelle che fa, perciò ha inquadrato soltanto la prima fila.

Così, a parte Ghaida, Ahlam e Yazan, s’intravedono soltanto un occhio di Nasri, un naso di Ahmed, un ciuffo di Reem, e Lana che – del tutto spontaneamente – è andata a prendersi un foglio e una matita, il tavolo su cui appoggiarli, e s’è messa a scrivere appunti estremamente impegnativi!

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p.s. poi c’è anche una suora a cui insegno un pochino d’inglese, ma questo è più diletto che opera.