Mercoledì 21 gennaio

Brutti e infantili – Diario dalla Palestina 142

Sui graffiti e il Muro potrei veramente raccontare, o più propriamente lasciar raccontare, le immagini, le scritte, i disegni, le idee, per chissà quanti post. Si potrebbe farne un blog apposito.
E poi c’è Banksy, il graffitaro più famoso al mondo. Ovviamente tutti lo conoscete, ma se non lo conoscete dovreste. C’è una sua frase che non ricordo dove avevo letto, che diceva qualcosa come: “dicono che i graffiti siano brutti, infantili e non ricordo cosa. Beh, solo se sono fatti proprio bene”.

Ecco, lui li fa proprio bene, e qui a Betlemme si è sbizzarrito. Seleziono i migliori per me, ma ne ha fatti altri, qui.

Il passo… carra(rmata)bile:

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Il soldato che chiede i documenti all’asino:

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Questo non l’ho mai visto di persona: e sapete perché? Si lo so, è incredibile: hanno pensato che fosse una presa in giro ai palestinesi e l’hanno cancellato. O almeno così l’hanno raccontata a me

La colomba con il giubbotto antiproiettili:

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E i miei due preferiti: la bambina che perquisisce il soldato, e il ragazzo che lancia i fiori (unico elemento colorato) invece della molotov. Delle volte mi fermo e li guardo, anche dieci minuti a pensare “ma che bello”:

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L’originale del secondo non è a Betlemme, ce n’è una copia su un muro di Beit Sahour, il comune contiguo.

E se ne trovano altri, in giro per Betlemme, sia perché è il pezzo di muro più facilmente raggiungibile da uno straniero (Bansky nasconde la sua identità, ma dovrebbe essere inglese), e sia perché Banksy raramente disegna direttamente sul Muro, molto più spesso su case, o muri secondari – insomma, dove l’eventuale zelo di un soldato potrebbe interrompergli il lavoro: anche se a onor del vero non ho mai sentito dire di un soldato che abbia contestato qualcosa a un pitturatore.
Poi c’è anche la storia di quello che ha venduto il muro della propria casa, con sopra un graffito di Banksy, e l’ha ricostruito.

I graffiti in Palestina sono stati fatti in più venute nel corso degli anni, alcuni sono del 2005, altri del 2007: purtroppo molti sono oramai scoloriti (per questo alcune delle foto che vedete qui, le ho prese in giro per internet).
Domani vi racconto e documento cosa mi ha fatto pensare che Banksy sia tornato qui nei pressi.

p.s. C’è un sito ufficiale di Bansky, dove non si trova nulla di questo, ma tanto di altro e molto bello: e c’è una pagina che si chiama “manifesto”, con una citazione che oltre a essere molto azzeccata, sembra proprio essere un sibilo alle mie orecchie viste le recenti disavventure:

When I was a kid I used to pray every night for a new bicycle.
Then I realised God doesn’t work that way, so I stole one and prayed for forgiveness.

Continua qui
(il link funzionerà domani)

Martedì 20 gennaio

Saltando nelle pozzanghere – Diario dalla Palestina 141

Il sabato sarebbe il giorno delle uscite, con i bambini. Si uniscono i due gruppi e si va in giro. Qualche volta si va a giocare a pallone, altre volte si fanno uscite più “culturali”, d’estate in piscina. Però con il freddo invernale le uscite sono limitate al minimo, a meno che non si trovino posti al chiuso dove portare i bambini.

Avevamo fatto un bel progetto, per familiarizzare i bimbi con gli anziani. Qui la famiglia è lo stato sociale ma per alcune circostanze disagiate come sono i disabili, e talvolta gli anziani, queste situazioni costituiscono una vera vergogna per certe famiglie, e delle volte l’abbandonon è la soluzione seguita.

Anche la coscienza culturale di ciò è in evoluzione e, se dell’incontro coi disabili ne parlai nel primo post che feci dalla Palestina, la visita alla struttura per anziane mantenute dalle suore antoniane è stata divisa in due parti. Essendo il luogo troppo piccolo per tutti e due i gruppi abbiamo portato prima i grandi e poi i piccoli: qui l’incontro con i piccoli.

C’è stato tutto un lavoro preparatorio all’incontro, e – so che vi sembrerà la tipica illusione da innamorato – sono certo che i nostri bambini non riserveranno lo stesso trattamento ai loro genitori o ai loro figli disabili, se ne avranno.
Qui c’è qualche foto:

Io sono stato malissimo quel giorno, mi succede una volta all’anno, ma quella volta non mi reggo in piedi. Ecco, quello era quel giorno, febbre/mal di testa/mal di stomaco, forse si vede dalla faccia. E mi è dispiace molto perché l’incontro è stato bellissimo. Per fortuna durante le vacanze natalizie c’erano venuti a trovare Rodolfo e Antonio (altri volontari di Amal)  che hanno dato una mano indispensabile. Ecco l’arrivo:

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Qui le bimbe hanno fatto un ballo per le signore che, non è buonismo, hanno davvero apprezzato. Avevamo portato anche un fiore per ogni signora:

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Altre foto delle danzatrici:

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E qui una foto di tutti i bambini che conversano con ognuna delle anziane:

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Alla fine la cosa più bella, dopo aver chiesto ai bambini cosa ne pensassero e come si immaginassero la loro vecchiaia, abbiamo mostrato loro il video musicale più bello che c’è, Hoppipolla (hop in paddles) dei Sigur Ros, che sia loro di buon auspicio:

La volta successiva ci hanno chiesto di rivederlo, ma ancora non l’abbiamo fatto. Se ci saranno commenti di rilievo, come ci saranno, li riferirò.

Lunedì 12 gennaio

Dài, che la vita è bella – Diario dalla Palestina 132

Grazie al bel regalo dei miei nonni, abbiamo potuto iniziare a vedere dei film insieme ai bambini. In giro per la rete si trovano i sottotitoli in arabo, così non c’è neanche bisogno di passare dall’inglese. I bambini si sono appassionati a Benigni, cosa che mi ha sorpreso un poco, ma sicuramente fatto felice (già immagino il vostro strale: io lo considero l’unica persona veramente innamorata al mondo, pensate un po’). Abbiamo visto la Tigre e la neve, e la Vita e bella. Il primo è stato molto divertente, e i bimbi volevano farmi da interpreti nelle parti in cui si parlava in arabo, è stato delizioso (se vi ricordate il film è ambientato durante la guerra in Iraq). La Vita è bella, invece, è tutta un’altra cosa. Da non esperto di cinema quale sono, quindi solo apprezzandone il godimento, lo considero il più bel film che c’è. Merita un capitolo a sé stante il fatto che il film affrontasse il tema dell’Olocausto, con bambini che non ne sapevano nulla, e che sono educati a odiare gli ebrei fin da bambini. Avevo qualche remora al proposito, ma ho trovato in Ahlam un’insperata molla propulsiva: abbiamo visto la prima parte assieme, e poi la seconda parte l’ha valutata lei prima di farla vedere ai bambini, e il suo responso è stato – dobbiamo farlo vedere ai bambini. Però che Hitler ammazzasse anche gli omosessuali non l’ha voluto dire, lei stessa ha scoperto dell’esistenza dell’omosessualità alle porte dei trent’anni.

L’iniziativa, comunque non è piaciuta soltanto ai bambini, anche Mahdi – il fratello di Ahlam, che la viene a prendere ogni sera perché lei non può camminare da sola per strada – è venuto un po’ in anticipo per partecipare alla visione:

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E poi c’è stata la volta successiva, in cui dovevamo vedere la seconda parte della Vita è Bella, ma Lana, Ghaida, Rowan, Mohammed, Roa, Marah, Tina e Nasri l’avevano già vista, mentre Jaber no. Quindi abbiamo messo Jaber da solo a vedere la prima parte, continuando le nostre attività nell’altra stanza. Ma non c’è stato verso: Lana, Ghaida, Rowan e Mohammed volevano a tutti i costi rivedere anche la prima parte:

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Così non abbiamo potuto far altro… che arrenderci alle cause di forza maggiore:

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E questa? Beh, hanno voluto rivedere la scena finale, e uno di loro – non ricordo neanche più chi – ha preso la macchina fotografica, e gli ha fatto una foto. Eccola qui:

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Un ristorante, il Muro e una buona idea

Una strada collegava Gerusalemme, la Città Santa per eccellenza, Betlemme, dove è nato il cristianesimo, e Hebron, dove è nato il padre di tutte e tre le religioni, Abramo. Tutto in poco più di trenta chilometri. La strada c’è ancora, ma in mezzo c’è un muro; che presto diverranno tre muri, perché il percorso passa attraverso Efrat e Gush Etzion, due delle famose colonie illegali che il muro andrà a inglobare: è questo, infatti, uno dei punti in cui la barriera israeliana sconfina oltre la linea verde del ’48.

La parte di muro già costruita è quella che divide Gerusalemme da Betlemme: la barriera è a ridosso di Betlemme, poco lontano da dove abito io, e per andare di là bisogna seguire l’arzigogolato percorso fino al check-point che è situato un pochino più a nord proprio su quella che, almeno onomasticamente, rimane la Jerusalem-Hebron road. Pochi passi più giù c’è un ristorante con un nome molto esotico per i Territori Occupati: Bahamas.

Lo gestisce Jospeh Hasboun un cordiale e ingegnoso palestinese, di madre americana: pare che il nome del ristorante sia un omaggio lei, che quando il cielo era sereno dalla Florida vedeva quelle isole. Hasboun apre il ristorante nel ’97, ma le cose precipitano quando, tre anni più tardi, quella diventa una zona di confine e quindi di guerra. Per tre volte una pallottola entra nel ristorante, e il ristoratore è costretto a chiudere.

Qualche anno dopo Joseph ci riprova e riapre il ristorante. Ma gliene capita un’altra: proprio lì di fronte gli costruiscono il muro, una cosa potenzialmente distruttiva per gli affari, anche perché un sacco di clienti erano israeliani. Lui, pragmaticamente, dice: «Bisogna tirare fuori il meglio da quello che si ha davanti, e io davanti avevo questo muro, così mi son chiesto: ‘come farlo fruttare?’»

Perché è vero che molti dei vecchi clienti erano spariti, ma ora cominciava a venire proprio lì un sacco di gente interessata, turisti o curiosi, per vedere com’è veramente questo muro di cui tanto si parla, e da Gerusalemme quello è il posto più comodo.
Così Joseph ha un’idea geniale: dipinge il menù del suo ristorante proprio sopra al muro, cosicché gli avventori possano consultarlo direttamente dalla sua veranda.
«Sapevo che i soldati non mi avrebbero disturbato, non stavo mica lanciando razzi», ma il dipinto lo fa nel giorno di Kippur, quello di riposo per gli ebrei, perché «non si sa mai».
L’idea funziona talmente bene e colpisce lo sguardo di tanti curiosi che il ristoratore trova il modo, e il denaro, di aprire anche un secondo locale, sempre lì accanto, dal nome ancora più esplicativo: the Wall Lounge, il Bar del Muro, con tanto di regolare menù raffigurato dirimpetto.

«È assurdo» dice «ma per me quei piloni di cemento sono stati una cosa positiva!». Meno positiva, ovviamente, la situazione di questi tempi: «certo, ora che c’è la guerra non viene più nessuno», ma su Gaza non aggiunge altro perché «la politica fa tutta schifo». Anche di speranze per la pace ne ha poche: «il problema è la religione, in Medio Oriente tutti sono religiosi in un cattivo modo, da una parte e dall’altra». Poi specifica: «anche io credo in Dio, ma credo anche che siamo tutti fratelli: se la religione distrugge l’area, allora non abbiamo bisogno della religione». E dire che la chiamano Terra Santa.

(Unità, ieri – versione integrale, poi all’ultimo ho dovuto stagliuzzarla)

Qui trovate la vecchia foto e la storia come la sapevo prima di andare a parlare col ristoratore, quella che segue è la nuova foto con il menù del bar:

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Non confondere Barack con Barak

Voi venite qui aspettandovi foto dalla Palestina e ve ne ritrovate dall’altra parte dell’oceano: grazie a Fabio, lettore dopo che amico, e abitante della città di Obama per eccellenza.

Manifestazione pro-palestinese a Chicago – notevole  il “Yes we can, free Palestine”:

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Martedì 6 gennaio

La fiaccolata – Diario dalla Palestina 127

Era la ‘manifestazione dei pacifisti’. Non ho tanta voglia di raccontarvi che gli slogan erano “dal Marocco al Qatar vogliamo cacciare tutti gli ebrei” e “dove sono gli arabi? Vogliamo soldati, non pecore!”, e permettete la preterizione.

Allora vi racconterò che le candele erano trasportate dentro alla carta dei falafel:

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Che c’era tanta salita da scalare:

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Che tanta gente non c’era, ma qualcuna sì:

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Che con altre candele hanno scritto Gaza, ma in arabo, davanti alla Natività:

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Che c’era anche il megafono, come allo stadio, solo che davanti alla Chiesa della natività, e fa un po’ strano:

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Che dietro c’erano i preti che controllavano un po’ incazzati perché l’altra volta gli avevano appiccicato le candele sulla chiesa, ecco questo non ve lo posso, perché non ho fatto la foto, quindi vi accontenterete di una bella foto generale:

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Tantomeno vi spiegherò che Gaza in arabo si pronuncia krasa (il kr sarebbe una “r” francese + catarro):

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Però che la gente cantava cori per Arafat, beh, questo ve lo faccio ascoltare:

Lunedì 5 gennaio

Proteste a Betlemme – Diario dalla Palestina 126

Oggi Betlemme è più rumorosa, i canti dei muezzin sono più incisivi, e ci sono molti più fedeli. Ho visto anche per la prima volta gruppi di bambini con dei bastoni – per me non c’è da avere paura, so come comportarmi in questi casi, e quel poco d’arabo che so mi aiuta. Soldati israeliani, qui, non ce ne sono, quindi è solo una dimostrazione di rabbia.

Stasera c’è una marcia da Bet Sahour alla Natività contro la guerra a Gaza, in bici è una salitona non indifferente, figuriamoci a piedi: mi hanno specificato che si tratta di una marcia “pacifica”, nel senso che gli slogan non dovrebbero essere dei peggiori. Se così sarà, sarò un marciante anche io, altrimenti solo un fotografo.

Intanto sulla ringhiera davanti al palazzo dell’UNRWA (cioè l’ONU) di Betlemme sono stati attaccati questi cartelli:

Al di là della sproprzione evidente, e comunque la si pensi, i palestinesi dovrebbero capire che tirare in ballo l’olocausto per quello che sta succedendo a Gaza è controproducente: basta il conteggio delle vittime per archiviare la questione, e non parlare d’altro:

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Una scritta più equilibrata, e anche molto significativa: Leonardo dice che la stessa frase usata da Obama per i cittadini di Sderot potrebbe essere usata per i palestinesi. Il concetto è quello – “noi siamo palestinesi, diversità nell’unità, i nostri bambini come tutti i bambini devono vivere in pace e sicurezza”:

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In arabo:

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I caduti:

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Ecco il palazzo dell’ONU:

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C’è vento, e sopra sventola la bandiera azzurra:

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Mercoledì 31 dicembre

La guerra che non c’è – Diario dalla Palestina 118

Per quanto il campo sia un campo di battaglia anche per la storiografia, una questione che ha sempre contato tanto – nelle guerre combattute da Israele – è stata la differenza di motivazione: se fino al ’73 Israele ha combattuto quattro guerre per la propria sopravvivenza, dalla due guerre in Libano, alle due intifada – si dice – quella coesiona data dal dover combattere per la sopravvivenza propria, dei propri figli, e del proprio popolo è venuto a mancare.

Se a Tel Aviv o a Gerusalemme, l’intera popolazione era in mobilitazione per respingere i nemici, nelle varie capitali arabe – si racconta – non c’era alcun clima di emergenza. A Damasco, a pochissimi chilometri dal Golan, e quindi dal fronte, la vita della città andava avanti. Si passava il tempo nei caffè. Un cifra che mi ha sempre stupito è stato il numero di soldati siriani morti nel ’67, in quella che è stata una vera disfatta per tutti i paesi arabi, Siria inclusa: neanche cento. È un dato emblematico, e raramente ci si riflette.

Ci ho ripensato oggi, quando un bel buco nella suola della scarpa, combinato con la pioggia, mi ha imposto l’acquisto di scarpe nuove, e il mio numero di piede (49), mi ha imposto di oltrepassare il muro e andare in cerca di un paio di scarpe della mia super-misura in uno di quei centri commerciali che hanno tutto quello che non richieda troppa fantasia.

L’avevo già visto a Gerusalemme, ma la visione di come la vita continuasse normalissima, senza nessuno sconvolgimento, con qualche misura di sicurezza in più – ma niente di troppo diverso da quello che c’è di solito – con quello che sta succedendo a Gaza, è stata un’immagine abbastanza forte.
Effettivamente in Europa ci si immaginano i carri armati al centro commerciale, invece tutto quello che si vede è la normale vita, e una buone dose di indifferenza: si dice che gli israeliani – giocoforza – ci siano abituati a “vivere in guerra”, ma quella che si respirava oggi era piuttosto indifferenza.

Caffè, anzi “espresso”.

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L’immagine della tranquillità:

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Famiglie, coppie, la vita prosegue normale:

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C’è anche chi acquista gioielli:

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Volevo fotografare una Kippà, ma non è venuta molto bene:

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E i bambini giocano nelle aree ricreative:

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Mi son reso conto che, al di là dell’indifferenza che obiettivamente indispone, questo post che voleva far vedere come la vita avanti normalmente – un’osservazione tanto banale – è uscito fuori un po’ moralista. Non era intenzione.

Qualche tempo fa in Israele una pubblicità-progresso, per la prudenza alla guida, diceva che dal ’48 a oggi le vittime della strada in Israele sono state di più che le vittime di tutte le guerre combattute da Israele sommate alle vittime degli attentati.
È un punto di vista anche quello.