C’è sempre uno più puro che ti epura

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Beppe Grillo ha fatto un post delirante e fascista in cui accusava il Fatto Quotidiano di qualunque cosa succeda nella Via Lattea. Marco Travaglio, che sul Fatto scrive e ha contribuito a fondarlo, ha preso la – non solo legittima, ma sacrosanta – decisione d’interrompere la sua rubrica settimanale con il blog, chiamata Passaparola, in cui dava per scontata la malafede di qualunque persona e di qualunque scelta personale: come sappiamo, sono tutti dei venduti.

Sono andato sul blog di Grillo per vedere se, almeno questa volta, in cui a essere bersaglio delle calunnie di Grillo era uno considerato incorruttibile, quelle persone avessero aperto gli occhi rispetto ai metodi grilleschi.

Un commento, attualmente il più votato, interpretava così la notizia:

“Marco ha deciso di interrompere Passaparola.”

e ‘sti cazzi ce lo vogliamo mettere?
glielo avranno imposto per fare “Comizi d’amore” e lui, come tutte le anime pie che si vendono, si è venduto.
amen.

Forse condizionato dalla chiusa biblica del commento, il mio pensiero è stato altrettanto biblico (Osea 8, 7). Chi ha seminato vento raccoglierà tempesta.

EDIT: Travaglio ha negato qualunque collegamento fra le due cose. Ritiro perciò la mia difesa delle sue ragioni. Raddoppia, invece, la considerazione che a seminare il pensiero sospettoso e malfidente se ne finisce vittime: non ci può essere niente d’innocente. Non soltanto una critica è per forza motivata dalla corruzione e non da legittime ragioni, ma la corruzione c’è anche quando quella critica non c’è.

Di tutto e di più

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Ogni tanto qualche mio amico me lo chiede, così la metto qui per ricordarmela – ecco perché non potrò mai votare per Di Pietro:

[x e y] portano avanti battaglie libertarie per cui si può fare tutto e di più: si può fumare spinelli, inveire con il Padreterno, abolire le carceri. Un modo di vivere per me inconcepibile in una democrazia occidentale.

Fumare spinelli, inveire con il padreterno e abolire le carceri. Non c’è più morale, contessa.

Grazie a Guido

Sulla lista di quei froci dei froci

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Un’associazione LGBT ha pubblicato una lista di presunti politici gay e omofobi. Tante altre associazioni LGBT hanno criticato questa scelta perché non rispettosa della privacy dei coinvolti. Mi sembra di essere in disaccordo con entrambi, e provo a spiegare perché. Naturalmente la veridicità delle identità dei coinvolti, per la quale non c’è alcuna prova, è irrilevante.

Io non sono contrario in principio a premere, forse anche a costringere attraverso l’outing, coloro che sono omosessuali a dirlo apertamente. Non c’è dubbio che un omosessuale che vuole rivendicare la segretezza, l’essere privato, della propria preferenza sessuale sta introiettando il principio per il quale quello debba essere un carattere di cui vergognarsi. Se lo vivesse con tranquillità, come si vive qualunque dato privato di cui non vergognarsi (ti piace la pasta al pomodoro? Qual è il tuo colore preferito?) non avrebbe problema a parlarne. Il privato è politico, l’abbiamo imparato qualche decennio fa.

Su questo sono molto severo: i “tu non sai cosa vuol dire vivere in una famiglia difficile” sottintendono un senso etico debole e una concezione morbosa e anti-meritocratica del voler bene (e nella gran parte dei casi, certamente nel mio, dimostrano di non conoscere l’interlocutore). Non la faccio facile, la faccio necessaria. Perciò è vero: se ti vergogni della reazione che la società potrebbe avere, significa che un po’ di ragione, a quella società, la stai dando. Nessuno ti può far sentire inferiore senza il tuo consenso. Qualunque omosessuale in the closet è inevitabilmente – almeno in piccola parte – omofobo.

Ma è proprio quello il punto che mi infastidisce di questa iniziativa sullo smascheramento della combo gay+omofobo: un omosessuale ha diritto a essere omofobo quanto un eterosessuale. Cioè: va criticato, ma va criticato come qualunque altro eterosessuale. Altrimenti stiamo riconoscendo almeno due di questi tre principî: A) che il marchio di omosessualità, almeno in alcuni casi, deve risultare effettivamente infamante: una sorta di gay pride al contrario, un gay shame B) che per essere omosessuale devi anche avere determinate idee, anziché essere una semplice preferenza sessuale e un tratto privo connotati ideologici. Insomma: l’omosessualità è un’ideologia – quello che sostengono gli omofobi di tutto il mondo C) che le battaglie per la parità dei diritti devono farle solo, o principalmente, gli appartenenti a quella minoranza: che i neri devono lottare per i neri, gli omosessuali per gli omosessuali. (E siccome ogni minoranza è – costitutivamente – una minoranza, quelle battaglie di minoranza sono destinate a essere perdenti).

Non c’è nessuna questione di coerenza (e se anche ci fosse, non è mai quello il punto). Si può essere omosessuali ed essere scemi, si può essere omosessuali ed essere omofobi. Si può essere omosessuali e guardare solo al proprio tornaconto personale. Gli omosessuali sono come tutti gli altri, ricordiamocelo.

I fantastici quattro

Dio benedica tutti voi
Grazie di tutto

A me non importa che questi quattro personaggi siano in buona o in cattiva fede, mi importa che abbiano preso la decisione giusta.

E quelle persone lì – molte delle quali non sarebbero in vita se non fosse stato per quella decisione – glielo riconoscono. È un bellissimo mondo, oggi. Quanto mi piacerebbe essere in piazza con loro.


Chissà se avessero fatto un cartellone con “i peggiori quattro” chi ci avrebbero messo.

EDIT – Fabio Mignani commenta, come meglio non si può, il perché oggi – nell’aver dimostrato che siamo una sola umanità – ci si può azzardare a dire che è un mondo bellissimo. Non ce n’è mai stato uno così. È la sua risposta a chi, come tanti che ho sentito, lamentava che i bilanci si fanno solo alla fine.

Le somme si tirano in qualunque momento, se non si ha paura di sbilanciarsi. Io mi sbilancio e dico che i libici un deciso passo avanti verso un futuro migliore l’hanno fatto eccome. Ed ora, esattamente come i sudafricani alla fine dell’apartheid o come un paese che si libera da una dittatura o da un giogo coloniale, davanti hanno tante alternative e tanti rischi. Però rispetto a prima sono un bel po’ più padroni del loro futuro. E sono felice (soprattutto per loro) di poterlo scrivere. E di augurargli di seguire un percorso non dissimile da quello di chi 66 anni fa venne liberato da una dittatura.

Che cos’è il Multiculturalismo

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per Il Post

Perché è importante
In questi giorni, per ovvie ragioni, si fa un gran parlare di multiculturalismo. Talvolta, però, c’è un’incomprensione di fondo perché giornalisti e accademici danno per scontato il significato di questo termine, che non è invece così intuitivo. Il multiculturalismo non è, come molti pensano, la presenza di diverse culture in una società. Quello è un dato acquisito. In gioco è, invece, il tipo di relazione che queste culture (e le persone che ci vivono dentro) devono avere fra loro.

Una premessa va fatta: criticare il multiculturalismo è molto facile, i multiculturalisti duri e puri – quelli per i quali anche l’infibulazione, per dirne una, è il prodotto di una società e quindi degno di rispetto – sono pochissimi, e spesso la critica al multiculturalismo viene usata come alibi per non proporre soluzioni davvero alternative. Perché il vero opposto del multiculturalismo è la commistione, il “bastardismo”, ed essere disposti a imbastardirsi a contatto con altri è sempre molto faticoso. Ma a questo ci arriviamo.

Che cos’è
Il multiculturalismo è, in una frase, il rifiuto dell’ideale cosmopolita dell’Illuminismo: la negazione dell’esistenza di un tratto di umanità comune, universalista, che riconosce dignità all’individuo. Viene considerata oppressiva e/o illusoria l’idea che ci siano valori comuni, trasversali a ogni cultura, come i diritti umani, l’intangibilità della persona, le libertà individuali o la parità dei sessi. Al posto della persona, ciò che viene considerato valore è la cultura in quanto tale. Non sono gli individui a dover essere tutelati, quanto le società e il bacino di valori che esse portano.

Per questo il modello multiculturale è quello della non-integrazione, in cui le diverse comunità ricreano i loro distinti ecosistemi senza possibilità di comunicazione. In questo senso, le società vengono considerate come concetti estremamente statici, impermeabili a qualunque cosa e perciò al cambiamento. Il cambiamento endogeno è molto difficile (perché difendendo una società, si difende chi comanda in quella società: generalmente maschi, anziani, eterosessuali); quello esogeno è completamente escluso: e ciò non vuol dire soltanto che un occidentale che critica la condizione femminile in Arabia Saudita è fuori posto, ma che lo è anche un olandese che critica l’assenza di diritti civili in Italia.

C’è un’alternativa?
Causa e conseguenza di questa posizione è la diffidenza nei confronti del potere della ragione e il rifiuto di qualunque idea di progresso. Una società che riconosce i diritti alle donne o agli omosessuali non èmigliore (o più progredita) di una che non lo faccia. In questo senso il multiculturalismo è un’idea intimamente anti-progressista ed endemicamente conservatrice. Chi si oppone a questa idea, invece, sostiene che è possibile identificare un valore di una cultura e questo dipende da quanto essa garantisce la felicità (o la minore sofferenza) agli individui che ci vivono dentro.

Nella pratica, qui in Europa abbiamo due esempî classici di questi modelli in contrasto: il Regno Unito, più tendente al multiculturalismo, dove – specie a Londra – vivono una quantità enorme di comunità diverse, quasi compartimentate fra loro, in quelli che i detrattori definiscono dei veri e proprî ghetti. Anche a livello sociale è favorita la ricreazione degli ecosistemi dei Paesi d’origine, è il caso delle Shari’a Courts. Questo modello di non-integrazione è riconosciuto quasi universalmente come fallimentare, di qui il recente cambio d’approccio. Il problema è che neanche il modello francese, improntato sull’assimilazione al cui cuore c’è la laicità, si è mostrato esente da difficoltà, come le rivolte nelle banlieue del 2005 hanno testimoniato.

Sì, ma non è la polenta
Dov’è l’alibi di cui parlavo? In moltissimi criticano il multiculturalismo proponendo un sistema che, scavando soltanto un poco, gli è esattamente identico. È il caso di Magdi Cristiano Allam o della Lega Nord (o Giuliano Ferrara, o qualunque teo-con). L’illusione è che l’alternativa al multiculturalismo possa essere di due indirizzi: quello identitario e il melting pot. Il primo risponde “focalizziamoci sui nostri valori”, il secondo “mescoliamoci e proviamo a uscirne migliori”. In realtà, la prima di queste risposte – quella che si concentra sulla propria identità – è una risposta fasulla. Perché è proprio il multiculturalismo a essere, per sua essenza, identitario: un multiculturalista e un leghista considerano i diritti umani come valori occidentali, un cosmopolita li considera di tutti. Non è un caso, difatti, che appena sopra Chiasso, la ricetta della Lega diventa squisitamente multiculturale – i diritti delle donne nei Paesi mussulmani? Ognuno fa come vuole a casa propria.

Non so come facciano a non notarlo, ma il concetto che ognuno fa come vuole a casa propria è precisamente quello del multiculturalismo. Per questo trovo intellettualmente scandaloso che Allam produca, come gli capita spesso, un’argomentata critica al multiculturalismo e poi proponga come soluzione – indovinate un po’? – quella di accartocciarsi sulla propria identità. Come si fa a criticare l’impermeabilità delle culture e poi avvinghiarsi alle radici giudaico-cristiane? Come si fa a parlare di valori non negoziabili e poi invocare la reciprocità (allora la libertà religiosa non è un’idea giusta in ogni luogo e in ogni tempo, è soltanto un contratto di scambio)?

Decidere che la polenta è meglio del cuscus perché l’abbiamo inventata noi è una cosa proprio scema, e tradisce quell’ideale di umanità e di fiducia nei miscugli – d’idee, di cose, di persone – che è al cuore dell’Illuminismo. L’unica vera alternativa al multiculturalismo è credere nel potere della ragione: nella forza delle idee e non nel loro contenitore. Ci sono idee migliori di altre, non serve chiedergli la carta d’identità o il certificato di battesimo.

Qualche riflessione sul manifesto di Breivik

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Ho impiegato un po’ di tempo, in questi giorni, nel leggere diversi stralci e commenti al manifesto di Breivik, ne ho tratto qualche considerazione non risolutiva:

* La cosa che mi ha colpito di più è quanto questo documento assomigli a quelli di Hamas. Naturalmente ha dei tratti in comune con tutte le destre del mondo, ma l’equivalenza con Hamas è davvero notevole. Il suprematismo religioso, l’ultraconservatorismo sociale, il vincolo alla propria – statica – cultura, l’ossessione complottista, la sindrome d’accerchiamento, la fobia per l’invasione, il rifiuto del progresso, lo spregio per omosessuali ed emancipazione femminile etc. Davvero, sostituendo con l’equivalente un paio di parole chiave (Israele, Cristiani, Templari), sembrano scritti dalla stessa mano. Naturalmente, come sottolinea il mio amico Marco, la differenza è nel seguito che Breivik e Hamas hanno.

* In questo senso l’accostamento politico-religioso con Hamas, e soprattutto con l’Hamas più recente, è più preciso che quello con Al Qaida o con altre organizzazioni del fondamentalismo islamico che hanno un progetto prevalentemente religioso. Breivik ha compiuto un’azione prevalentemente politica, mossa dal suo spaventoso progetto di società. Il movente non è stato religioso, almeno non in senso stretto: non in molti l’hanno notato, Breivik non ha ucciso un mussulmano o un immigrato, ma ha ucciso dei ragazzi del partito laburista, come Hamas non uccide gli israeliani perché ebrei ma perché israeliani (naturalmente Hamas è antisemita e Breivik odia mussulmani e immigrati, ma non è la condizione autosufficiente).

* Per onestà, devo riconoscere che il mio primo pensiero “ah, vedi che anche i fondamentalisti cristiani fanno gli attentati!” non era molto accurato. Breivik non è un fondamentalista religioso, almeno non nel senso comune che diamo a questo termine: si definisce più volte una persona che crede in Dio ma “non particolarmente religiosa”, dice di non avere una relazione personale con Cristo, e suggerisce addirittura di aver considerato in passato la religione come un rifugio per persone deboli. Insomma: certamente un cristiano, ma non quello che generalmente intendiamo per fondamentalista religioso. È invece ossessionato dall’ideale identitario della religione (“sono culturalmente, socialmente, identitariamente e moralmente cristiano e perciò mi definisco tale”), come una sorta di nuova etnia (in questo senso, si avvicina di più a un razzista), un Sacro Romano Impero, un’Europa arcirinchiusa sulle proprie “radici cristiane” contro il nuovo impero Ottomano.

Non ho molte conclusioni da trarre da queste osservazioni: continuo a pensarci su.

Le piroette di Borghezio e Magdi Allam

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Questa faccenda dell’attentatore norvegese sta replicando nella destra tutte le dinamiche che troviamo nella sinistra scema quando c’è qualche attentato terroristico fatto da mussulmani. In qualche modo, la ragione è sicuramente nella percezione di una sorta di contiguità ideale o causale (cioè la causa che si combatte) con l’autore di quell’atto di terrorismo.

È una cosa che dimostra come il dibattito politico sia mosso, con poche eccezioni, dalla partigianeria. Se lo stesso atto deprecabile viene compiuto da un “amico”, la valutazione che se ne dà cambia completamente, non solo vengono date attenuanti, ma si cercano giustificazioni al di fuori del “proprio” bacino d’idee. Insomma, come farsi guidare dalla bandiera, invece che dalla bussola della propria idea.

Così vediamo Borghezio che suggerisce un cui prodest complottista. Visto che Breivik ha idee molto simili alle sue e la strage le ha obiettivamente screditate, allora si sottolineano “le numerose stranezze esecutive” della strage “realizzata da un individuo lasciato agire impunemente da solo” che fanno “molto pensare”. E fanno pensare “alle finalità oscure di quelle forze mondialiste a cui interessa criminalizzare certe idee”. La riconoscete, è precisamente la lingua di quei rintronati dei cospirazionisti (o, più propriamente, clinicamente malati) per i quali gli attentati del terrorismo islamico sono compiuti dalla Cia.

Un altro esempio di piroetta è quella di Magdi Allam, solitamente grande fautore della responsabilità individuale, che sostiene che Breivik fosse esasperato dal multiculturalismo, ed è la società in cui vive che l’ha portato a questo gesto inconsulto. Precise precise le giustificazioni che non accetterebbe mai – a ragione – come giustificazione del terrorismo islamico.

In sostanza, se tu pensi VivaLeMele e non ti piacciono gli AbbassoLeMele, e uno che pensa VivaLeMele come te fa una cosa sbagliata, la spiegazione è nel fatto che sia tutto un complotto di quelli di AbbassoLeMele per screditare VivaLeMele oppure è la diffusione delle idee di AbbassoLeMele ad aver portato un VivaLeMele a compiere quegli atti. In ogni caso, non è mai colpa tua.

Terrorista

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Coloro che oggi lamentano l’ipotesi islamista come un pregiudizio non sanno cosa sia un pregiudizio. Non parlo delle critiche a chi l’ha scritta sui giornali prima di averne le conferme, quello è cattivo giornalismo. Parlo della prima ipotesi che abbiamo fatto, noi tutti, quando abbiamo saputo della bomba e della rivendicazione farlocca del gruppo qaedista. Un pregiudizio è una convinzione radicata – irrazionale e non basata su prove o ragionamenti – spesso formata su una paura, senza possibilità di cambiare idea.

Ipotizzare che una bomba in una capitale europea è opera del terrorismo islamico è semplicemente la più ragionevole delle ipotesi, valutando il passato recente di questi episodî e l’ideologia che lo supporta. Quando picchiano un omosessuale a Roma, la prima ipotesi che ci viene in mente è che sia qualcuno legato al neofascismo: e questo mica vuol dire che abbiamo un pregiudizio nei confronti del neofascismo. Se domani sparano a Mina Welby – “Dio” la conservi –, la prima ipotesi che formuleremo sarà che il colpevole sia qualcuno legato all’estremismo cristiano, e questo ben sapendo che ciò non investe di sospetti il nostro giornalaio che ha il poster di padre Pio attaccato nel chiosco. Anzi, chi è ansioso di scagionare la categoria “terrorismo islamico” perché pensa così di scagionare Ahmed, il fruttivendolo sotto casa, è il primo che investe quel legame di legittimità.

Tuttavia, c’è un’altra cosa che potrebbe denotare un pregiudizio nelle reazioni di queste ore. Non è l’uso del termine islamico prima, ma il mancato uso del termine terrorista poi – quando si è scoperta la diversa matrice dell’attentato. Il terrorismo è l’uccisione indiscriminata di civili (quindi, al di fuori della mente criminale, innocenti) per perseguire scopi ideologici. Non c’è dubbio che Breivik sia un terrorista e abbia fatto un atto di terrorismo (mi ricorda un po’, sul fronte opposto, la renitenza all’uso del termine “terrorista” nei confronti di Hamas). C’è l’uccisione indiscriminata e ci sono gli scopi ideologici, nei quali la religione viene prima della politica che viene a sua volta prima della religione, in un circolo vizioso che abbiamo oramai imparato a conoscere e che è, quasi sempre, il sottobosco in cui fiorisce il terrorismo e le ideologie che a esso sono intrecciate.

Perché i radicali (e tutti gli altri) hanno fatto bene

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Una delle conseguenze dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Papa è stata la nascita di una piccola polemica rispetto alla scelta dei radicali di votare a favore del procedimento. L’accusa è quella di aver tradito il costitutivo garantismo che, da sempre, contraddistingue la “galassia radicale”. Secondo me, invece, hanno fatto bene. Cambiare idea non sarebbe un peccato, ma – comunque – non ci vedo nessuna resipiscenza legalitaria.

Le posizioni che critico sono questa questa e questa, che hanno stimolato un piccolo dibattito, e ho visto linkate da diverse persone di cui solitamente condivido l’approccio su questioni di giustizia. L’argomento segue questo filo: le ragioni per l’arresto cautelativo devono (dovrebbero) essere tre: il rischio di fuga, che onestamente non c’è. Quello di reiterazione del reato, neanche. E quello di inquinamento delle prove, su cui si può discutere. Secondo questo ragionamento, mancando – a parere dello scrivente, ma anche dei parlamentari – queste evidenze, mancano le ragioni per l’arresto cautelare. Perciò i parlamentari (radicali e non) hanno sbagliato ad autorizzare la richiesta.

Io ho un’enorme attenzione a questo genere di abusi, all’utilizzo a tappeto della custodia cautelare anche quando essa – a norma di Codice Penale – non avrebbe senso di esistere. Penso che sia una cosa incivile, e che andrebbe affrontata con veemenza. Il problema è che non è di questo che stiamo parlando. E, credetemi, ciò non ha a che fare col fatto che Papa sia del PDL: varrebbe la stessa, identica, cosa se fosse di qualunque altro partito.

I parlamentari non erano tenuti a votare sulla veridicità delle accuse o sulla validità delle misure cautelari – quello è il compito della magistratura, si chiama separazione dei poteri – e difatti non si è votato sull’arresto di una persona ma su un’autorizzazione a procedere. Erano tenuti a valutare se si fosse verificato il famoso “fumus persecutionis”, se le ragioni di questa incriminazione fossero di natura squisitamente politica. È la ragione per la quale l’immunità parlamentare esiste: essa non depaupera il potere giudiziario delle proprie prerogative per consegnarle a quello legislativo. Ma tutela gli eletti dal popolo da potenziali tentativi d’ingerenza della magistratura mirati a sovvertire la legittima azione politica, anziché all’accertamento dei fatti. In questo senso, la separazione dei poteri è esattamente il fulcro della democrazia (non sto dicendo che l’Italia è una dittatura, non sono scemo: sto dicendo che mescolare potere giudiziario e potere legislativo lede le garanzie dello stato di diritto, ed è perciò contrario alle procedure democratiche).

Io non ho un’opinione precisa sulle procedure d’immunità parlamentare: non le considero la vergogna che le considerano in tanti, e sono consapevole che esistono in diversi Paesi civili proprio per tutelare la separazione dei poteri. Tuttavia, se pensiamo che esse abbiano una ragione di esistere, in qualità di tutela dell’autonomia del Parlamento, non possiamo lamentarci che non vengano usate come non devono essere usate – facendole diventare esattamente ciò che coloro che le considerano misure antidemocratica accusano essere: un modo per conferire il potere giudiziario a quello politico.

 

In realtà sei un demagogo, e neanche dei migliori

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Lo spietato dipinto di Luigi Castaldi su Antonio Di Pietro è una di quelle cose così letterariamente perfette. Quando senti che, alla fine, tutto si rimette a posto.

Solo i fessi possono credere in ciò che da sempre vorresti dar da credere, talvolta nella parte del villico sanguigno, talvolta nei panni del fiero tribuno. In realtà sei un demagogo, e neanche dei migliori. Non hai nemmeno un grammo di cultura liberale e, quando dici “democrazia”, non si fa troppa fatica a capire che stai parlando di un populismo esteticamente diverso da quello di Berlusconi, ma della stessa sostanza. Della cultura in generale, meglio lasciar perdere. In fondo anche tu hai nel fondo l’immarcescibile diffidenza verso tutto ciò che è vera intelligenza, optando per la furbizia degli ignoranti integrali. E in questo probabilmente nemmeno sai quanto somigli a Berlusconi: sei figlio della sua stessa Italietta, poi avete preso strade diverse, lui quella aziendale e tu quella clanica. Siete due facce della stesso familismo, della stessa destra prepolitica e antipolitica, della stessa subcultura da strapaese: in lui meglio mascherata, in te fiera di mostrarsi al naturale.