Incontro con una leghista

Qualche sera fa ho fatto un incontro particolare. Sapete? Ho sempre pensato che qualunque partito, anche i più lontani dalle mie idee, avessero qualche buon motivo per essere votati. Questo non voleva dire che potessi dargli il mio voto, ma che trovassi una qualche dignità nel voto in qualunque direzione ideale. L’unico partito che ha sempre fatto eccezione è la Lega Nord. Non trovo una sola, degna, ragione per votare la Lega che non sia l’egoismo da posizione acquisita (sono del nord, via quelli del sud che sono più poveri; sono italiano, via i non italiani che sono più poveri; etc).

Tale percezione era stata anche fiancheggiata dal fatto che di leghisti ne avessi sempre incontrati pochi, abitando nella Roma ladrona. Conoscete tutti la mia naturale disposizione a discutere di qualunque cosa, così potrete immaginare con quale spinta mi sia tuffato sull’occasione offertami da un’amica comune di parlare con una leghista colta e “per bene”.

C’erano, poi, altre persone. M, piuttosto di sinistra con una venatura di cattolicesimo «Gesù è il miglior filosofo eccetera». V, di una sinistra più riflessiva ma scivolante verso il dipietrismo «Travaglio è come Cassandra». E P, un liberale puro e a oltranza, a cui avevo sentito difendere Berlusconi più di quanto mi piacesse. [Ovviamente qualunque descrizione tradisce la complessità di ciascun individuo, ma è utile ridurre a pochi termini per capirsi]. Insomma, un parterre ben assortito. E poi c’era lei, organica alla Lega, che lavora per il partito, oltre a scrivere per la Padania.

Ovviamente non mi aspettavo una conversazione amabile, le cose che dice la Lega su immigrati e stranieri sembrano fatte apposta per non farmi essere amabile, ma speravo che in un qualche punto del castello d’inferriate, confini inviolabilidi e terre sacre, ci fosse un piccolo spazio per insinuare un dubbio, una contraddizione.

Invece  lei era perfettamente coerente con tutto il suo impianto logico, fino ad arrivare alla brutalità delle naturali conseguenze di quella sua filosofia (proprio in senso tecnico), a cui mai pensavo potesse arrivare. In questo senso, almeno, la sua posizione sugli immigrati era abbastanza comprensibile: se ci sono utili, bene, altrimenti restinoaccàsa. Si noti subito il noi e loro sottointeso in qualunque discorso. La sua idea, classica del comunitarismo, era che qualunque cultura avesse valore al proprio interno. Quindi no al cuscus e sì alla polenta non perché la polenta sia più buona (una posizione che avrebbe senso! Però, mi dispiace, è più buono il cuscus), ma solo perché questa è la nostra tradizione. Quindi se in Marocco mangiano solo il cuscus, a dispetto di quelli a cui piace la polenta, fanno bene. Se degli italiani vogliono andare a cucinare il sushi in Giappone, è giusto che gli sia vietato.

In tutto questo M (sinistroide) era abbastanza silenzioso, salvo intervenire le volte che  le baggianate leghiste gli sembrassero troppo grosse. V (dipietrista), si poneva con modi da paciere, cercando di contestualizzare ed edulcorare le cose che diceva la leghista, più in quanto amica comune che per effettiva convinzione. Il più combattivo, assieme a me, era P (liberale), che al compimento dato al sistema ideologico leghista è sbottato: «questo è esattamente come la pensa Gino Strada».

Perché è vero, la cosa che più mi ha colpito di tutta la discussione, è quanto fosse chiaramente identica la posizione leghista e quella che – ora – inspiegabilmente tiene una buona parte di sinistra massimalista. Tutto il suo discorso era incentrato sul “chi siamo noi per giudicare le usanze altrui?” (che sottointendeva quindi che questi altrui dovessero lasciare in pace noi sulle nostre usanze). La risposta «un essere umano» non le era sufficiente, perché – anche se non esplicitamente – secondo lei esistevano diverse umanità, e ogni gruppo etnico vive a compartimenti stagni.

È capitato di parlare della mia esperienza in Burkina Faso anti-MGF, la sua frase celebre è stata «io non farei mai una campagna contro l’infibulazione in Africa». Perché anche lì – chi sono io? – quella è la loro tradizione, e finché resta fuori dai nostri confini non è nostro diritto (figuriamoci se è nostro dovere, come invece sostengo io) intervenire. Rispetto a questo principio di non ingerenza, e a quello ottocentesco della sovranità nazionale, si è inoltrata fino a dove il suo integralismo la spingesse: qualunque tipo di intervento dal “di fuori” le sembrava sbagliato. In Rwanda, in Darfùr, in Bosnia, anche se sparavano alla gente in fila per il pane, torturavano le donne, facevano pulizia entica, beh, non erano fatti nostri. Solo di fronte al Nazismo, ai sei milioni di morti, al fatto che – secondo il suo principio – gli americani non sarebbero dovuti sbarcare in Normandia perché lo sterminio degli ebrei era il risultato-del-percorso-storico tedesco (questa l’espressione che usava per ciascun altro eccidio. la persecuzione degli omosessuali in Iran? Il risultato del percorso storico iraniano) ha avuto qualche esitazione, a dimostrazione che anche l’indifferenza più disgustosa ha qualche esitazione di fronte al Male.

Mi servirà questa discussione, la ricorderò a tutti ogni volta che qualcuno mi dirà – di fronte alle peggiori ingiustizie – che “quella è la loro cultura”, in qualità di attenuante anziché di aggravante. Non so, ho come la speranza che essere associati alla precisa filosofia della Lega possa essere un buon deterrente per coloro che, a sinistra e in buona fede, stentano a capire come il mondo sia uno solo e non c’è nessuna ragione per “rispettare” le usanze che vanno contro ai più basilari principî dell’intangibilità della persona, dei diritti umani, dell’autodeterminazione delle idee e delle preferenze sessuali.

Alla fine della serata, dopo aver ascoltato (e subìto) tutti questi doppî standard, di diritti che a noi spettano per chissà quale conquista dei nostri bisnonni, e agli altri no perché hanno la sfortuna di essere nati su di un suolo non occidentale, io –  calmo ma risoluto – le ho detto: «Se a te interessa soltanto di come Silvia è trattata a Milano, ma non ti interessa delle vessazioni che subisce Aisha in Marocco, questo fa di te, semplicemente, una persona peggiore». Lei si è alzata e se n’è andata. Poi ha mandato un sms all’amica comune con scritto “non ti preoccupare, la nostra amicizia non è in discussione”.
Un mio amico ha commentato: «allora potevi impegnarti di più».

Vàntatene

Min. Luca Zaia: «Molti della sinistra mi voteranno». Eh, se ti votano tanto di sinistra non sono.
«I leghisti sono i veri no-global». Sempre detto io.

È colpa dei genitori

Famiglia ANSulla homepage del Guardian segue soltanto Obama, come importanza. Ed è una notizia che riguarda l’Italia, e che aveva dato per primo il Corriere per poi essere sepolta da altre notizie molto più irrilevanti. Si tratta della sentenza emessa dal giudice di Milano Bianca la Monica che ha condannato – al pagamento di mezzo milione di euro – i genitori di alcuni ragazzini di cosiddette famiglie-bene che avevano più volte stuprato una ragazzina di 12 anni.

Si tratta di una sentenza che sancisce un principio molto significativo, e che dovrebbe essere l’unica e la sola parte della tragedia nazionalpopolare di Morgan su cui vale la pena di discutere – spogliatici dell’irritante commedia della colpevolezza-verso-la-morale, come solo in un Paese visceralmente cattolico («io mi pento», «se intraprendi un cammino di espiazione» «ti assolviano»).
I genitori sono colpevoli dell’educazione dei proprî figli? Se Morgan dice che l’eroina non fa male e un tredicenne decide di farsi di eroina: è colpa di Morgan? È colpa dei genitori che non sono riusciti a educarlo?Il Tribunale Civile di Milano, mutatis mutandis, dice che è colpa dei genitori. E che, difatti, i genitori di quei ragazzini non hanno trasmesso:

«educazione dei sentimenti e delle emozioni che consente di entrare in relazione non solo corporea con l’altro»; e non hanno badato a che «il processo di crescita» dei loro figli «avvenisse nel segno del rispetto dei sentimenti, dei desideri e del corpo dell’altra/o».

Io penso che, a parte il tono un po’ moralista, il giudice abbia molte ragioni. Penso che essere genitori è innanzitutto una responsabilità. Tantopiù che, mai bisogna trascurarlo, i figli non sono proprietà dei genitori. E perciò educare un bambino cercando di plasmarlo senza per questo determinarlo, renderlo forte ma non chiuso: ovviamente è impossibile essere perfetti, ma bisogna cercare di stare il più lontano possibile dall’estremo opposto.
Perché ci fanno orrore cose come queste. E non ce ne fa per nulla l’indifferenza, l’ignavia, la complicità rispetto al male, di altri genitori?

Forse bisognerebbe instaurare un cortocircuito,  mettere in relazione, tutta la retorica sulla famiglia, sull’insegnare i Valori (con quella stropicciatissima “V” maiuscola), con episodî di questa stregua di cameratismo e violenza.
Pensiamoci, la cosa che viene in mente a me è che, più che insegnare “la famiglia”, bisognerebbe insegnare “alla famiglia”.

P.s. Nessuno di quei genitori era una coppia gay, ve lo immaginate quale rotolo di polemiche infiammate avrebbe attirato un caso così se soltanto uno di quei ragazzini avesse avuto due padri o due madri?

Integrità

Bignamino: negli USA dai tempi di Clinton c’è una legge che – non chiedere, non dire – permette agli omosessuali di servire nell’esercito a patto che non dichiarino il loro orientamento sessuale: la legge fu un compromesso, incentrato sul “non vogliamo sapere” a cui si arrivò per eliminare la legge precedente che vietava formalmente agli omosessuali di entrare nell’esercito. Nel discorso sullo stato dell’unione di qualche giorno fa Obama ha usato parole chiarissime: l’anno che è appena cominciato sarà l’anno dell’abolizione del Don’t ask, don’t tell. Non più “non vogliamo sapere”, ma – com’è giusto – “non ci riguarda”.

In rappresentanza di tutte le sezioni militari (Esercito, Marina, Aviazione e Corpo dei Marines) è stato invitato a parlare al Senato, il Capo di Stato Maggiore Congiunto. Questo è ciò che ha detto Michael Mullen, colui che – secondo solo al Presidente – è al comando dell’esercito degli Stati Uniti d’America.

“Parlando per me stesso, e per me stesso solamente, è mia convinzione personale che permettere a omosessuali e lesbiche di servire apertamente nell’esercito sarebbe la cosa giusta da fare.

Da qualunque prospettiva io guardi questa questione non posso fuggire dall’essere turbato dal fatto che quella in vigore è una politica che costringe giovani uomini e donne a mentire su chi sono loro stessi per avere la possibilità di difendere i loro connazionali.

Per quel che mi riguarda, si tratta di integrità: la loro, come individui, e la nostra, come istituzione”.

È questo il vero genio dell’America, il motivo per cui – nonostante tutti i George Bush e i Donald Rumsfeld, nonostante i Rush Limbaugh e le Sarah Palin, nonostante il Ku Klux Klan e la Bible Belt – quella è sempre stata la Terra della Libertà: il desiderio di andare, tutti insieme, avanti. La straordinaria capacità di rimediare ai proprî errori.

E registrando questi pensieri, viene inevitabilmente in mente la miseria di questa povera Italia, quella in cui un generale dell’Esercito – uno dei più progressisti di questo Paese, ci hanno detto – dice che i gay non sono adatti all’esercito.

7

Pochi minuti fa Obama ha terminato il suo primo discorso sullo stato dell’unione, a un anno dall’elezione, così abbiamo rispolverato le vecchie tradizioni ed eccoci qui svegli alle 5 del mattino e nonostante la sveglia fra due ore. Un commento brief.

L’inizio è stato molto demagogico, a metà davvero pugnace e il finale bello, di quella concretezza intrisa di idee, come piace a noi.
Non è stato un discorso conciliante, e gli inviti alla responsabilità ai repubblicani assomigliano più ad accuse ben chiare (non che siano immeritate). Di là, difatti, ci son stati un sacco di mugugni, mentre i democratici hanno fatto sù e giù per alzarsi ad applaudire ad ogni concetto, anche quando ha riservato critiche (prevedibile) e quando ha parlato del taglio della spesa dal 2011 (meno prevedibile).

Tre contro:
– Il populismo, specie della prima parte, è stato forse più vicino al livello “insopportabile” che al livello “vabbè dài, qualcuna ne deve dire”.
– Sono mancati molti “come”. Ci son stati tanti “cosa” e tanti “perché”, ma pochi “come”. Speriamo che, almeno lui, li sappia.
– La crudezza degli attacchi al non voler fare politica dei repubblicani.

Tre pro
– Un passaggio molto bello sui diritti delle donne nel mondo e negli USA: ecco, al Cairo sarebbe bastato questo.
– Fine delle discriminazioni per gli omosessuali nell’esercito americano. Finalmente (l’ha detto lui!).
– La crudezza degli attacchi al non voler fare politica dei repubblicani.

Voto: 7

Burqa sì, Burqa no

E così sembra che la Francia andrà ad approvare una legge che vieta il Burqa e il Niqab. L’uniforme dei militanti sessuofobi e sessuomani “offende i valori nazionali”. Non è un divieto assoluto, ma qualcosa di più simile a un’obiezione di coscienza: sarà vietato indossare la gabbia di stoffa nei locali pubblici, nei mezzi pubblici, eccetera. Non sarà vietato per strada, sembra, perché la Francia è un paese libero, solamente – sembra – “a casa mia non si fanno queste cose”, come ciascuno di noi, magari, non vorrebbe far entrare in casa una persona che indossa una svastica.

Hijab mia sceltaLa Francia, come altre volte, si dimostra uno Stato. Uno Stato civile nelle fibre, e che afferma fortemente delle idee. Questa è la laicità, nel senso più pieno e genuino del termine. Laicità vuoldire scegliere, non essere imparziali.
Eppure percepisco sempre un sinuoso turbamento per misure come queste, perché essere così tanto “Stato” finisce per incidere la libertà delle persone: come in altri casi, come sulla negazione dell’Olocausto o del Genocidio degli Armeni (entrambi reati d’opinione puniti per legge in Francia).

Io sono un integralista del primo emendamento, e non (solo) perché consideri la libertà sacra, ma perché trovo che la libertà di espressione di certe posizioni contribuisca a screditarle – in un ambiente dove c’è una vera competizione di idee. Penso sia giusto difendere il diritto dei nazisti a dire le loro indegnità, quanto è giusto che io abbia il diritto – anzi, il dovere morale – di dileggiarle. Se viviamo in un mondo in cui nessuno sostiene (più) che le streghe volino sulle scope non è perché abbiamo messo una legge per vietarlo, ma perché abbiamo costruito una società consapevole che è ridicolo pensarlo.

Trovo quindi la motivazione di questa legge orribile. Ciò che “offende i valori nazionali” non deve essere vietato per legge. Ci sono mille cose che offendono me: chi sostiene lo stalinismo, chi dice (o pensa) che sono un cretino, e chi si mette il fondotinta. Però queste offese me le tengo. Come si dice a Roma: se m’incazzo, mi scazzo. Perché altrimenti da qui a stabilire che l’affermazione della legittimità di un’offesa sia appannaggio del destinatario è un passo breve: e così finiamo con le ambasciate date alle fiamme per delle vignette su un uomo vissuto mille e cinquecento anni fa.

Per questa ragione non ho un’alta opinione dell’obiezione di coscienza. Lo trovo – in genere – un espediente: una piccineria, boriosa e al tempo stesso connivente. L’importante non è cosa succede nel mondo – si legge in quel principio – ma quello che faccio io, che la mia coscienza rimanga pulita. Per questo parlai, una volta, di sopravvalutazione della coscienza di ciascuno.

***

burqaSono dunque contrario a questa legge? Non lo so.
Innanzitutto credo che bisogni partire da due presupposti: 1) le motivazioni di questo disegno di legge sono orribili 2) Il Burqa è male.
Il primo punto credo di averlo argomentato a sufficienza fino a ora. Sul secondo c’è poco da aggiungere: chiunque pensi che esistano, in qualche parte del mondo, delle persone che – geneticamente (e quindi non è un concetto inoculato loro) – nascono con la concezione che il corpo nel quale sono nate è uno strumento di peccato è precisamente un razzista. Chiunque consideri giusto che il controllo sessuale dell’uomo sia situato sul corpo della donna, come per la ragazza stuprata perché va in giro in minigonna, è un fascista.

Dunque, per capire meglio come la penso, mi faccio delle domande.

Qual è il pericolo?
Sicuramente quello della ghettizzazione. È molto probabile che una parte, una buona parte, delle donne che ora vanno in giro con il Burqa subirebbero divieti ancora più stringenti da parte dei loro mahram (mariti, fratelli, zii, cognati che le hanno in “gestione”). E non è per nulla facile identificare questi veri e proprî rapimenti, anche perché queste donne – spesso – in Europa hanno solo la famiglia, che è quella che le reclude.

A chi giova?
Sicuramente la cosa più importante non è il fatto in sé, non è quella manciata di donne che – non potendo mettere il Burqa o il Niqab – usciranno un poco più scoperte, bensì il messaggio che si manda. I messaggi sono importantissimi e significativi, e sono sempre troppo sottovalutati. In questo momento, in ogni parte del mondo, ci sono delle persone che stanno combattendo la loro battaglia contro il burqa, una battaglia con sé stesse e con i loro maschi-padroni. Sapere che c’è qualcuno che sta dalla parte giusta è fontamentale, e infonde forza. Tutte coloro che ne sono uscite non smettono mai di raccontare quanto sono importanti questi segnali, così come non smettono mai di rimproverare gli atteggiamenti troppo accomodanti su cui ogni tanto ci impigriamo.

Ci sono altre ragioni per essere contrarî a questa legge?
A parte la questione della libertà e quella della ghettizzazione, con tutti i suoi rivoli, direi di no: soprattutto bisogna guardarsi dai Tariq Ramadan. Quelli che così-non-si-favorisce-il-dialogo-con-l’Islam ma che al tempo stesso l’Islam non è questo. Delle due l’una: se l’Islam è questo – il Burqa e la segregazione – non c’è nessun dialogo da fare ma solamente un’ideologia da sconfiggere. Se, invece, l’Islam non è questo – come spesso sentiamo dire – allora non c’è nessuna ragione per cui l’ostilità al Burqa dovrebbe sfavorire il dialogo.

Mi sono chiarito le idee? Mica tanto. Mi sembra di essere in disaccordo con gli uni e in disaccordo con gli altri.

Voi che ne pensate?

Tutto il mondo è Belpaese

In America, cioè negli Stati Uniti, son matti, e questo si sa. Delle volte son matti per il bene, e delle altre son matti per il male. Sul sistema sanitario sono matti per il male,  e hanno quell’idea drammaticamente americanocentrica per cui qualunque cosa un poco più assistenzialista del sistema americano è bolscevica.

Così nel dibattito sulla riforma sanitaria, che avrete seguito tutti, la questione che dovrebbe moncare qualunque obiezione in merito, ovvero che in altri paesi – cioè la Germania, la Spagna, ma anche il Canada – quel sistema c’è e funziona, viene completamente trascurata al grido di «giù le manacce dai nostri soldi». Il male assoluto è il government, quello che non risolve problemi ma gli dà sussidî, contro il quale viene tirata fuori una citazione di Reagan ogni due per tre, non a caso fu Regan il campione di quest’approccio manicheo al denaro pubblico.

I pazzi dànno del nazista a Obama, ma la maggioranza di coloro che sono contrarî alla riforma sanitaria hanno questo totem del government spending in una maniera che nei paesi europei, tantomeno in Italia è immaginabile.
Saprete tutti anche che qualche giorno fa l’elezione supplettiva in Massachusetts ha visto una vittoria repubblicana, e che questo ha reso impervia la strada della riforma sanitaria, già prima abbastanza frastagliata.
Poi ci sarà anche da vedere cosa farà effettivamente Brown, il senatore eletto sul seggio di Ted Kennedy, che per forza di cose è un repubblicano sui generis, ma l’impatto simbolico dell’aver perso la supermaggioranza – e averla persa in Massachusetts, dopo che Obama si era speso per la campagna democratica – è enorme.

C’era però una cosa che, in questa dimostrazione di insanità (ahah, il gioco di parole) dell’elettorato americano mi aveva consolato, ed era la constatazione di come la gente e la politica si basasse sulle idee e non sui partiti presi. Una vittoria Repubblicana in Massachusetts è come una vittoria del PDL in Toscana, solo che in Italia non succede. Lì, invece, non si guarda agli schieramenti, si guarda alle idee.

Ecco, mi ero perso in questa illusione quando ieri è successa una cosa particolare: Obama ha annunciato dei grossi tagli sulla spesa pubblica per il 2011 – quello che, da Keynes in poi, ci hanno insegnato essere la cosa più sbagliata durante una crisi. Non che il taglio della spesa pubblica non fosse nel programma di Obama, ma era esattamente il cavallo di battaglia di McCain e quello su cui aveva riassunto la sua politica economica. Per di più questa misura, ovviamente poi le cose son sempre complesse, sarebbe all’opposto di quella approvata una decina di mesi fa (il cosiddetto stimulus), per il quale la maggior parte dei repubblicani aveva iniziato a stracciarsi le vesti.
Se non altro i repubblicani saranno d’accordo, uno direbbe. Ecco, no: siccome l’ha proposto Obama non va bene. Non faccio la mia politica, ma quella contraria a quella del mio avversario.
Come in Italia, insomma.

Avanti

Si è sempre detto che le quote rosa fossero una misura non giusta in via di principo, ma necessaria: in Svezia si è arrivati al punto in cui le quote rosa non servono più, in Italia – invece – c’è ancora molta strada da fare.